Capitolo i

Il ruolo dell'infanzia
nell'era digitale

Bambini adulti e veloci

La nostra società è caratterizzata da ritmi frenetici che scandiscono il lavoro, i rapporti interpersonali, lo studio, il divertimento, il tempo libero.

Trasformatasi vorticosamente nel giro di pochi anni, essa trova una delle sue maggiori rappresentazioni in Internet e nell’uso del digitale; l’accesso alle informazioni è immediato e se la connessione è lenta, come spesso accade, siamo colti da un senso di disagio o persino d’ansia.


Il flusso di immagini e dati è inarrestabile, i ritmi della rete riducono, fino quasi ad azzerarli, i tempi dell’attesa, la curiosità, la ricerca, la lentezza. La maggior parte di noi è stanca, stressata, risucchiata da orari severamente scanditi da orologi.


Un tempo, però, non era così. Ricordiamo che c’è stato un periodo della nostra vita – l’infanzia – in cui non avevamo l’ansia del tempo, né l’ossessione della velocità.


Poi, con la crescita e l’approfondimento delle nostre responsabilità, abbiamo dovuto fare i conti con gli impegni, con la fretta, con le innumerevoli cose da fare, con i tempi sempre più stretti e col terrore di non farcela.

Talvolta, per sfuggire alla quotidianità iperfarcita di impegni e frustrazioni, ci rifugiamo nei ricordi di un’infanzia lontana, di un tempo perduto in cui si stava anche “senza far nulla”. Se ci si annoiava, era quella una sfida, un’occasione in cui inventarsi un modo per non sprofondare nella tristezza.


Non c’erano i giochi attraenti e accattivanti di oggi e allora si inventava, si creava, si costruiva, si immaginava. Da soli o con gli altri.

Bastava poco per accendere la fantasia: ascoltare una storia, giocare a nascondino, con le figurine o con le bambole. I bambini vivevano il loro tempo mettendo in atto tutte le energie e dedicandosi prevalentemente al gioco insieme agli altri e all’aria aperta.


Non è più così per i bambini della nostra epoca, evidentemente.

Se diamo uno sguardo ad una giornata-tipo di un bambino in età prescolare o scolare, ci rendiamo conto di come anche l’infanzia sia scandita da orari e impegni e quanto sia intrappolata in schemi predeterminati.

L’agenda della maggior parte dei bambini è fittissima di impegni. Otto ore tra i banchi di scuola, seduti in aule sempre meno capienti e sovraffollate. Subito dopo la scuola, soprattutto col tempo pieno, ci sono la palestra (danza, judo, karate, hip-hop, ginnastica ritmica, artistica, ecc), la piscina, l’inglese o il cinese cui si potrà poi aggiungere anche il catechismo triennale. La sera si torna alle 19,30, il tempo di fare il bagno, cenare – quasi sempre con Tv accesa e/o smartphone accanto al piatto, e guai a non rispondere immediatamente all’eventuale messaggio – e via davanti a Tv, videogiochi o altro.


Restano il sabato e la domenica, giorni di riposo con un genitore, o con entrambi, nei casi fortunati. Ma ci sono i compiti a casa, ed è giusto che sia così, visto e considerato che col tempo pieno essi non vengono assegnati negli altri giorni della settimana. Dovranno pur abituarsi, questi bambini superimpegnati, allo studio a casa, alla rielaborazione lenta e costante di quanto affrontato.


I genitori, dal canto loro, sono costretti a svolgere tutti gli impegni rimandati durante una settimana di corse – gestione della casa, commissioni, relax – e si ritrovano, talvolta, a non avere tempo neppure nel week-end.

Poco tempo dunque, anche e soprattutto da dedicare ai bambini, stando veramente con loro, parlando, passeggiando, leggendo, raccontando, inventando storie oppure oziando insieme.


Non va meglio per i piccoli che seguono il modulo antimeridiano. Stanno in classe cinque ore svolgendo tantissime attività, spesso poco collegate tra loro, purché riempiano gli spazi e non lascino loro alcuna tregua. Anche perché, i bambini di oggi, iperattivi e ipercinetici, non possono essere lasciati neanche un secondo nell’ozio. Occorre impegnare ogni loro istante.


Questi bambini tornano a casa e consumano il pranzo in famiglia, con la mamma o la nonna o altri. Il pomeriggio è intenso con tantissimi compiti, già nelle prime classi, e non sempre stimolanti e realmente costruttivi. E bisogna sbrigarsi, perché alle 17 ci sono le attività sportive!


Il risultato di tutto questo correre a ritmi estenuanti e questa saturazione delle giornate è rappresentato da bimbi sempre più isterici, poco inclini all’ascolto, veloci, dinamici, ma fondamentalmente insoddisfatti e annoiati.

Sembra di assistere a un processo di “adultizzazione” dei bambini. Sempre di corsa e stressati da mille impegni, sembrano piccoli adulti ingabbiati, la cui creatività e spontaneità restano bloccate.


Questo fenomeno di “adultizzazione” dei bambini è evidente in molti settori, come per esempio il vestiario, il tempo libero, il cinema.

I negozi d’abbigliamento propongono capi per bambine di sei/sette anni simili a quelli destinati alle preadolescenti e adolescenti.

In un’unica fascia d’età viene racchiuso il target sei/tredici anni.

A ben guardare, la bambina di sette anni che indossa leggin e maglione nero con stivaletti in pelle, non è dissimile, se non per statura e fattezze fisiche, a una trentenne o quarantenne.

Si ha l’impressione che non ci siano più età. Il bambino accelera per diventare adulto e l’adulto, d’altra parte, ridiventa bambino1.

La pubblicità d’abbigliamento per bambini propone piccoli seducenti, dallo sguardo accigliato e serio, fotocopie in miniatura dei modelli e delle modelle in passerella.


Se pensiamo alla produzione cinematografica, il fenomeno è tanto più marcato quanto subdolo. Spesso i film d’animazione destinati ai bambini – tra l’altro la fascia d’età non è mai espressamente indicata (questo eliminerebbe a priori una grossa fetta di mercato!) –, contengono riferimenti appartenenti al mondo adulto che vanno dalla finanza all’erotismo, per non parlare della violenza, dell’arrivismo, dell’individualismo, valori di una società postmoderna basata sul consumismo e sulla competitività.


I dialoghi sono intrisi di metafore e doppi sensi difficilmente comprensibili dai bambini. L’intrattenimento si fonda su effetti scenici accattivanti e assordanti, musiche eccitanti, disegni tutt’altro che rassicuranti. Spesso poi le storie si concludono con la nota smielata che finge di ricondurre lo spettatore e il film stesso al messaggio educativo e alla morale che ci si aspetterebbe.

A contribuire all’adultizzazione dei bambini c’è sicuramente la pubblicità, e in generale la Tv, i media, Internet, che propongono modelli adulti stereotipati e distinti.

Alle bambine viene proposto il modello di donna attraente e seduttiva, mentre ai maschietti viene proposto quello di eroe, di vincente che deve essere aggressivo e insensibile per riuscire.

Questa precoce “erotizzazione dei bambini” fa sì che essi saltino dei passaggi evolutivi importanti, che brucino le tappe, che si trovino a vivere esperienze per le quali non sono attrezzati dal punto di vista cognitivo ed emotivo. “Si vìola il principio costitutivo dell’infanzia: il diritto a essere un bambino, ossia a crescere secondo tempi e tappe fisiologici”2.


I bambini sono bersagliati e indirizzati verso ruoli non adatti alla loro età. Neil Postman parla di “scomparsa dell’infanzia” e attribuisce ai mezzi di comunicazione di massa, alla televisione in particolare, la più grande responsabilità di tale fenomeno.

Tramite la pubblicità, la televisione orienta gusti e interessi dei bambini trasformandoli in consumatori attivi, tanto è vero che si rimane sempre sbalorditi di fronte al fatto che i piccoli siano informatissimi su marche e prodotti di consumo.

Se ciò è vero per la televisione, a maggior ragione lo è per i media digitali che, con la connessione continua, contribuiscono in modo incisivo alla “scomparsa dell’infanzia”. La società moderna, caratterizzata da flussi incessanti di informazioni e da una massiccia cultura dell’immagine, non è pensata per i bambini che stanno perdendo il loro tempo3.


Tutto è veloce, la rivoluzione tecnologica degli ultimi anni ha raggiunto ritmi impressionanti e ossessivi; ciò che oggi è nuovo e moderno, domani sarà diventato già superato. La storia dell’umanità è da sempre stata caratterizzata da una mutazione antropologica, economica, culturale. L’uomo, però, ha impiegato ere per cambiare. Tutto è graduale, anche se apparentemente veloce. Il concetto di tempo implica gradualità e lentezza che però, divenuti molto evanescenti, sono ingombranti nella moderna società ultrarapida.

La rivoluzione tecnologica ha così modificato la stessa nozione del tempo: diventa preistorico e obsoleto qualcosa che appartiene solo a un decennio fa. Pensiamo per esempio ai primi telefoni cellulari comparsi una ventina d’anni fa a confronto con i moderni smartphone. Il tempo si è ridotto, assottigliato, minimizzato e tutto viene impostato sulla velocità.

I bambini, travolti dalle nuove dinamiche sociali, sembrano aver perduto quella dimensione di lentezza, di attesa, che poi consente loro di sviluppare forza e resilienza. Si tratta di quella che Cris Rowan, psicologa e pedagogista membro dell’American Academy of Pediatrics’ Canadian Society, nel suo libro Virtual Child chiama “inner drive”, una guida interiore che li spinga ad agire, a scoprire e ad accettare sfide.


La tecnologia mortifica tutto questo abituandoli a una gratificazione istantanea che “…elimina la loro abilità di attendere qualsiasi cosa. Poiché la tecnologia alimenta continuamente il bisogno di nuove ed eccitanti esperienze, la pazienza per compiti strutturati e di routine diventa un tratto in estinzione”4.

La lentezza perduta e il mito della felicità assoluta

A “rubare” il tempo dell’infanzia non è solo l’apparato sociale finora descritto, ma spesso anche la scuola. Tra i banchi si procede velocemente, si rincorre il programma, il tempo, la campanella e tutti devono adeguarsi.


E chi non ce la fa? Chi non ce la fa, resta indietro, salvo venir spesso etichettato con un cartellino dalle sigle sensazionali che resterà incollato addosso fino alla maturità, marchiandolo da un lato, agevolandolo dall’altro e offrendo spesso scorciatoie.


Tutto deve essere veloce, sul modello anglo-americano: test a scelta multipla, INVALSI, scuola delle crocette che non danno spazio alla riflessione, che invece è lenta, critica.

Il bambino in età prescolare e scolare sta vivendo l’avventura più affascinante: sta apprendendo. Il suo cervello è nel momento di massima elasticità e plasticità; esso registra ciascuna esperienza trasformandola in traccia che diventa poi conoscenza e che andrà a collegarsi con altre conoscenze creando una rete di sinapsi.


Tutto ciò richiede tempo. Tempo e gradualità. La lentezza del tempo, della riflessione e della rielaborazione.

Il tempo per una fiaba, un racconto, per una ricerca scolastica in biblioteca.

Molti genitori, presi dall’ansia del tempo, sembrano aver rinunciato al racconto, a trasmettere alle nuove generazioni il proprio vissuto, la propria visione della vita, come si faceva una volta.


Il tempo dell’attesa, che implica tantissime capacità, come quella di gestire le emozioni, l’ansia, la paura, anticipare eventi, formulare copioni mentali, è completamente ridotto al minimo o addirittura azzerato.

Si intende in questo modo proteggere i bambini dal rischio di non essere al passo con i tempi, di restare indietro o di sentirsi inadeguati in una società che li vuole tutti belli, perfetti e soprattutto veloci e felici.


Tra le cose imposte dalla nostra società consumistica e competitiva, e che contribuiscono a rendere i bambini adeguati, felici e veloci, sicuramente i gadget digitali – smartphone, tablet, Pc, consolle, videogiochi – occupano un posto di rilievo.


I bambini sono tra i fruitori più attivi – e meno critici proprio perché in formazione – dell’offerta di marketing. Il filtro è rappresentato da genitori troppo spesso compiacenti, o poco consapevoli, ma comunque scivolati nel vortice del consumismo.

Posti nell’occhio del ciclone mediatico e consumistico, i bambini sono considerati bravi e intelligenti se sanno già usare in tenera età (anche due/ tre anni o addirittura prima) smartphone e tablet. I genitori sono entusiasti se il loro bambino ha inviato un messaggio per errore agli amici o se ha letto sui loro gruppi whatsapp (intrusione nel mondo degli adulti), o se ha bloccato il sistema scaricando giochi e app.


La pubblicità della telefonia è intrisa di immagini di bambini felici che usano lo smartphone o il tablet per fotografare/fotografarsi, per progettare insieme ai genitori la futura casa da richiedere all’agenzia, con la mamma in dolce attesa e dunque con la necessità di una casa più grande.


Le idee di casa, famiglia, amore vengono così associate allo strumento digitale, che unisce ed esaudisce i desideri e le aspettative. Sembra una sorta di fulcro senza il quale la famiglia è disgregata, un anello di congiunzione tra i vari membri… o più semplicemente, un argomento di cui parlare, essendone forse rimasti pochi.


Il ritratto della famiglia felice ha un nuovo elemento accentratore rispetto a quello della tradizionale pasta Barilla e ai biscotti del Mulino Bianco. A tenere la famiglia unita e a mettere il bambino al centro ci pensa lo smartphone o il tablet, diventati ammortizzatori delle emozioni e frustrazioni, strumenti indispensabili d’intrattenimento, oltre che di comunicazione, per grandi e piccini.


Spesso lo smartphone dei genitori serve a calmare un capriccio del bambino o gestire un suo momento di rabbia, di noia o frustrazione. Basta guardarsi intorno, al ristorante, dal medico, al supermercato, per trovarsi di fronte a un bambino, anche nel passeggino, affidato alla baby-sitter digitale.


Il risultato è apparentemente positivo, visto che il bambino si calma, è felice e soddisfatto, i genitori possono fare quello che devono fare senza pianti o strilli martellanti e soprattutto senza brutte figure davanti alla società. Ma che succede in quel momento al bambino?

L’emozione viene repressa nel momento in cui sta per manifestarsi, non viene definita, non viene canalizzata, rimane dentro, col rischio di permanere inespressa.


Il genitore, o chi per lui, interrompe la possibilità di un dialogo costruttivo col bambino in un momento di rabbia o frustrazione, frapponendo l’oggetto digitale, che diventa un “surrogato” genitoriale.

Si potrebbe obiettare che quando si offre il ciuccio al bimbo per calmarlo si fa la stessa cosa, ossia si blocca l’emozione. In quel caso, però, la somministrazione dell’oggetto-transfert non implica la privazione dello sguardo materno, come invece avviene con uno schermo.

Con il dispositivo digitale, il bambino viene privato del cosiddetto rispecchiamento emotivo, ossia di quel coinvolgimento che solo lo sguardo, materno in particolare, può creare. “Il web esercita una funzione di specchio, ma solo un surrogato. Ciò che viene a mancare è la presenza di un ricevitore attivo che possa rimandare una risposta emotiva”5.

Lo strumento digitale usato da un bambino come mezzo di comunicazione o di gioco, indebolisce il rispecchiamento. “L’interattività digitale non è in grado di attribuire un significato pieno alle esperienze, come accade invece attraverso lo sguardo materno…”6.


Con lo smartphone il bambino gioca o guarda i cartoni, isolandosi dal resto del mondo e perdendo quello che è intorno a lui.

Molti bambini trascorrono il tempo di un viaggio in macchina fissando il sedile anteriore dietro al quale è fissato un tablet che li ipnotizza con immagini accattivanti e veloci mentre il mondo scorre, gli uccelli volano, gli alberi sembrano correre, ma essi non colgono nulla di tutto ciò.


Attratto dalle musiche e dai suoni coinvolgenti, dai colori e dalle scene esaltanti, il piccolo sperimenta uno stato di eccitazione al cui confronto tutto il resto è noia, laddove per resto si intende proprio tutto ciò che concorre alla formazione della sua identità: contatti sociali, apprendimento, studio, passeggiate, gioco, frustrazione anche, senso dell’attesa prima di veder realizzata una richiesta.

Manfred Spitzer, in Solitudine digitale, afferma che la condizione di noia per un bambino è positiva ed è bene che venga sperimentata. Solo in tal modo sarà una persona capace di guardarsi dentro e non aver paura del proprio pensiero.

Se c’è il vuoto, si avrà paura di rimanere soli col proprio pensiero… “Chi non ha appreso tutto ciò vive il proprio pensiero come uno spiacevole confronto col proprio vuoto interiore”7.


Paradossalmente è proprio l’idea di prevenire ansie e frustrazioni nei bambini a generare un senso di disorientamento e smarrimento.

Non essendo abituati a gestire la frustrazione e l’emozione, i bambini diventano sempre più incapaci di definirle e gestirle, cadendo in un circolo vizioso fatto di disturbi d’ansia sempre più frequenti, depressione, iperattività, disturbi dell’attenzione.

La frustrazione viene evitata poiché considerata disturbante e il mezzo digitale ben assolve il suo compito salvifico.

Il bambino assorto nell’attività digitale si estranea dalla realtà con conseguenze sullo sviluppo della personalità che vanno a toccare la sfera cognitiva, sociale, emotiva, in un momento evolutivo in cui ha invece bisogno di esperienze tattili concrete e contatti con la realtà. Ancora Manfred Spitzer, nel suo libro Demenza digitale, afferma che porre un bambino molto piccolo davanti ad uno schermo televisivo nel momento in cui è vigile è come rinchiuderlo in una cantina buia.


La similitudine rende benissimo anche a proposito di un bambino piccolo isolato e assorto nello smartphone/tablet.

Se poi consideriamo il fatto che i gadget digitali vengono troppo spesso acclamati come validi strumenti educativi e d’apprendimento, il gioco (o il danno?) è fatto.


Consegnare un tablet nelle mani di un bambino di tre anni, o addirittura di età inferiore, significa fargli conoscere il mondo e la realtà che lo circonda a partire da un’unica esperienza, un unico gesto (cliccare o trascinare sullo schermo), saltando passaggi fondamentali come la manipolazione, la coordinazione oculo-manuale, lo sporcarsi e ancora esperienze emotive come la frustrazione di fronte a tentativi falliti, la gioia di essere riusciti a risolvere un problema (il problem solving, che riveste un ruolo tanto importante nella costruzione delle conoscenze e nell’apprendimento).


Un bambino che in età prescolare disegna e dipinge con un tablet, non vive esperienze importanti come pasticciare con i colori, scoprire che questi sporcano, che combinati danno vita ad altri colori, che in prossimità del bordo è necessario colorare più lentamente altrimenti si “esce fuori”, che se si colora in direzioni diverse il risultato non è perfetto, che ci si può stancare a colorare tutto il disegno, ma il prodotto finale è valso la fatica.


Un bambino che risolve un puzzle scaricato su tablet va per tentativi di clic o di trascinamenti, finché il pezzo del puzzle smette di tornare indietro. E che ne è del toccare le forme e cercare con lo sguardo i pezzi complementari? Tentare e ancora tentare finché non si trova il pezzo giusto? Toccare i bordi e farsi un’idea concreta della forma?

È così che si sviluppano le competenze, si gestiscono le emozioni, si apprende e si cresce.

Lo smartphone/tablet sta diventando sempre di più uno strumento di gioco e di “esplorazione” della realtà e tuttavia strisciare il dito sulla superficie di un tablet, peraltro liscia e senza bordi, non costituisce un’esperienza d’apprendimento significativa per un bambino molto piccolo. Per com-prendere la realtà c’è bisogno di toccarla, afferrarla, “com-prenderla” come afferma ancora Manfred Spitzer.

Nell’atto di afferrare un oggetto, sono contenute diverse modalità di prensione, a seconda che si voglia solo toccarlo, sfiorarlo, stringerlo, afferrarlo, sollevarlo, contenerlo. Ciascuno schema presuppone il coinvolgimento e coordinamento di diversi muscoli8.


Toccare oggetti di varia natura, inoltre, significa sperimentare emozioni diverse, attivare canali sensoriali e provare percezioni differenti, inviare quindi informazioni diverse al cervello.

Sommare in un unico gesto (touch/click) differenti e molteplici esperienze non significa esplorare la realtà.


Lo smartphone: giocattolo unico per tutte le età

Lo smartphone abbandona la sua funzione di strumento di comunicazione e diventa, nelle mani di un bambino, di volta in volta un giocattolo, un ciuccio, uno “scaccia-noia”.

Lo stesso oggetto è usato da fruitori di diversa età di modo che l’annullamento delle barriere anagrafiche è un altro aspetto importante su cui riflettere.


Sia l’adulto sia il bambino usano lo smartphone/tablet per scattare e inviare foto e video, eseguire giochi, usare i social, whatsapp e altro.

Poiché i bambini e ragazzi utilizzano i media digitali prevalentemente per giocare, è interessante riflettere sulla perdita della differenziazione evolutiva del gioco. Infatti il confine tra le diverse fasi evolutive diventa sottile proprio grazie ai dispositivi digitali, che in tal modo unificano le età, generando confusione e provocando l’indebolimento delle figure di riferimento. In altre parole, se da un lato i bambini si “adultizzano”, dall’altro gli adulti si “infantilizzano”: molti di questi ultimi infatti trascorrono ore a giocare sul tablet, trascurando compiti e ruoli importanti (rapporto con i figli, con la famiglia, con gli amici, gestione degli impegni, ecc.).


L’adulto gioca online (Ruzzle, Candy Crash, ecc) e il bambino, a sua volta, utilizza le stesse modalità di gioco. L’adulto incoraggia tali dinamiche, se ne compiace e ha l’impressione di essere “amico” del bambino. Uno degli errori maggiori nell’educazione è probabilmente proprio quello di diventare amici/alleati dei figli.

Come giustamente osserva Neil Postman, “L’età adulta ha perso molto della sua autorità e del suo alone di rispetto”9.

Se fanciullezza ed età adulta vengono parificate, è chiaro che viene meno la “gerarchia sociale” con conseguente declino delle buone maniere, del rispetto e dell’educazione. Con i mezzi digitali, con internet in particolare, con la possibilità di accesso a ciascun tipo di informazione da parte dei bambini, l’adulto perde autorevolezza. I figli ne sanno più dei genitori, gli studenti più degli insegnanti e, per il senso di onnipotenza che l’accesso totale alle informazioni comporta, mancano loro di rispetto creando, mai come in questo momento storico-sociale, un gap generazionale incolmabile.


Secondo molti genitori poco consapevoli, i bambini abili nell’uso dei dispositivi digitali sono intelligenti. Altri favoriscono un uso precoce perché “ormai siamo nell’era digitale e i bambini devono imparare prima possibile a destreggiarsi in questa realtà”.


È nata così la categoria, tanto moderna, di “nativi digitali”, coniata dallo scrittore Marc Prensky che così designa la generazione nata dopo il 1982, cresciuta con internet, distinguendola dagli “immigrati digitali”, ossia quelli che per lavoro o studio hanno dovuto adattarsi al digitale10.

Se per l’adulto il gioco digitale diventa occasione per rilassarsi e svagarsi dopo ore di lavoro, togliendo comunque del tempo alla comunicazione interpersonale, per il bambino la questione assume connotazioni e risvolti ben diversi, soprattutto se pensiamo alla funzione tradizionale del gioco nello sviluppo della personalità. Tale funzione si riferisce allo sviluppo di competenze e aspetti importanti come l’autocontrollo, il rispetto delle regole, la socializzazione, la volontà di portare a termine un’attività, apportare il proprio contributo per il raggiungimento di un obiettivo.


I giochi e giocattoli rappresentano una modalità per mettere in scena situazioni che imitano e contengono l’esperienza reale. Il gioco, tanto utilizzato nella scuola materna, è di estrema importanza per l’autocontrollo, per la socializzazione, per l’acquisizione di regole.


Esso consente al bambino di mettere in atto dei “copioni” attraverso il far finta di, mettendo in scena situazioni che potrebbe poi sperimentare nella vita adulta, come per esempio fare la mamma, la maestra, il dottore.

Il nuovo giocattolo digitale, i giochi virtuali cui sono dediti tanti bambini, rispondono a queste caratteristiche? Concorrono alla formazione dell’autocontrollo nella gestione dei tempi d’attesa? Favoriscono la formazione dell’empatia, della capacità di rispettare le regole e non invadere lo spazio altrui?


Il bambino assorto nell’uso dello schermo digitale è isolato dal mondo che lo circonda; si immerge in una realtà virtuale dove tutto è veloce, stimolante, eccitante, accattivante e soprattutto, non richiede impegno, rielaborazione, creazione di schemi nuovi, al di fuori di quelli predeterminati.


Aspettare il proprio turno, ascoltare, portare a termine un gioco sono cose che molti bambini digitali sanno fare sempre meno, abituati a scorrere velocemente le immagini e a giocare da soli con uno schermo.

La loro modalità di comunicazione e interazione con gli altri è fortemente condizionata dalle nuove dinamiche di gioco: domande e risposte veloci che si fermano in superficie, conversazioni che si sovrappongono (uno a molti o molti a molti, come avviene nella comunicazione virtuale), passaggio veloce da un’attività all’altra.


Le moderne feste di compleanno sono un esempio di tale tipo di comunicazione: i bambini urlano, corrono, giocano a fare la lotta, si rincorrono e si divertono gettando l’altro a terra o colpendolo. Sembrano incapaci di organizzare un gioco se non in presenza di un animatore e, anche in quel caso, l’impresa è ardua.

Ciascun bambino sembra agire per conto proprio, solo in mezzo agli altri. A volte grida, forse per farsi ascoltare da adulti sordi alle sue richieste. E non è affatto insolito vedere bambini alle feste di compleanno isolati dal contesto e dediti a giochi e strumenti digitali.


La maggior parte dei bambini moderni si annoia facilmente e vuole di più. Al confronto con i rumorosi ed eccitanti giochi digitali, il gioco tradizionale risulta noioso e sbiadito. E invece, in questi nostri tempi postmoderni, i diktat per adulti e bambini sembrano essere: Vietato annoiarsi! Vietato fermarsi! Vietato essere infelici! Vietato rallentare! Il mezzo digitale, dunque, offerto come gioco o “scaccia-noia”, protegge il bambino dalla frustrazione; questa invece rappresenta un momento importante di crescita.


Eppure, nonostante le varie strategie per evitare la frustrazione, il numero di bambini e ragazzi con disturbi d’ansia e depressione è in evidente aumento.

Lo smartphone: scudo di protezione totale

Com’è possibile che bambini ai quali viene immediatamente esaudito ogni desiderio o germe di desiderio, cadano in uno stato d’ansia e/o depressione? Com’è possibile che bambini/ragazzi ipercontrollati a distanza, agevolati in tutto, parati e protetti da ogni colpo, siano sempre più insoddisfatti, frustrati e annoiati?


Paradossalmente è proprio la mancanza del senso dell’attesa, ossia la realizzazione del desiderio prima che esso venga formulato a determinare un senso di smarrimento.

Questa modalità educativa – repressione delle emozioni, realizzazione del desiderio prima che prenda forma, annullamento dei tempi d’attesa, azzeramento della frustrazione e della noia – ripetuta nel corso dello sviluppo, porta ad una generazione apatica e senza desiderio, senza nulla per cui lottare, senza mete da raggiungere.


La consapevolezza di ottenere tutto senza nemmeno chiedere e soprattutto la frapposizione di un oggetto (smartphone/tablet) tra i partecipanti di una comunicazione interpersonale (genitori/figli) possono diventare dinamiche pericolose perché creano una popolazione spenta, desensibilizzata, incapace di contenere e gestire le proprie emozioni, incapace di comunicare.

Abituare il bambino a questo tipo di comunicazione e interazione potrebbe preparare la strada a disagi nel corso dello sviluppo.


In apparenza i dispositivi digitali svolgono la funzione di filtrare, semplificare, ridurre al minimo le attese, le frustrazioni, le delusioni, ma in realtà questa eccessiva semplificazione sta via via indebolendo le generazioni. Se spostiamo la nostra attenzione sull’adolescenza e pensiamo alle prime simpatie con le conseguenti prime emozioni e delusioni, realizziamo quanto lo smartphone abbia modificato i copioni. Quante volte da ragazzi si è rimasti in casa attaccati a un telefono (fisso) in attesa di una telefonata che non sempre arrivava? Oppure, chi non ha mai vissuto la frustrazione e delusione di un appuntamento mancato? La delusione, la rabbia, la sfiducia si agitavano dentro e pian piano venivano elaborate trasformandosi il più delle volte in forza nuova. Tutto ciò avveniva nel privato o al massimo con pochi amici fidati e non pubblicamente attraverso i social o i gruppi whatsapp dove le emozioni e i sentimenti vengono ingigantiti, spettacolarizzati, sminuiti nella loro unicità.

Attraverso la delusione, molti di noi sono cresciuti imparando a gestire e fronteggiare le difficoltà, a sopportare le attese.


Winnicot, pedagogista e psicoanalista inglese, dice che la capacità di crescere dipende dal saper fronteggiare la frustrazione. In tal modo si sviluppa quella che in psicologia si chiama resilienza, ossia la capacità di crescere e trarre dalle difficoltà la forza per affrontarne altre.

Un fatto curioso ed interessante che caratterizza il “metodo danese” descritto nel libro Metodo danese per crescere bambini felici offre un serio spunto di riflessione. In Danimarca, patria della Sirenetta di Andersen e paese più felice secondo il Rapporto Mondiale della Felicità stilato dall’O-nu, le storie televisive, così come le fiabe, non hanno sempre un lieto fine, a differenza di quanto succede in America e qui da noi, dove ci si aspetta il finale positivo, poiché non è possibile concludere un percorso di sofferenza con l’idea di dolore e infelicità.


La stessa favola della Sirenetta non finisce in realtà col matrimonio di Ariel e del principe Eric, bensì con la povera sirenetta che rinuncia al suo amore impossibile e resta da sola tra le onde.

La versione cinematografica ha voluto il finale da favola. “Molte storie di Andersen sono state… adattate per conformarsi al nostro ideale culturale di come le cose dovrebbero essere”11.

Si tenta di nascondere al bambino il dolore, mentre per i danesi è importante esaminare tutti gli aspetti dell’esistenza, compreso il dolore, perché dalla sofferenza si impara molto. Si impara a dare il giusto valore anche alle cose semplici, a capire che ci sono dei limiti, che non tutto è scontato e dovuto e, ancora una volta, ad essere resilienti.


Non è da sottovalutare il caso di tanti ragazzi che, di fronte a difficoltà scolastiche o delusioni sentimentali o semplicemente rimproveri, fuggono, evitano, reagiscono con aggressività e, nei casi estremi, compiono gesti disperati.


Oggi con il cellulare siamo tutti raggiungibili ovunque e la frustrazione esiste comunque, ma è diversa, più immediata e accompagnata da stati d’ansia innescati perfino nella brevissima attesa del messaggio di risposta ad un nostro segnale.


Nella comunicazione attuale la risposta deve essere veloce, deve ridurre al minimo i tempi d’attesa, il controllo deve essere totale. Si tratta, però, solo di una condizione apparente.

Il bambino di oggi cresce in un contesto di velocità e, più dell’adulto, non tollera l’attesa; ma la certezza della risposta immediata, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, genera ansia e frustrazione.


La mamma o il papà impegnati a scrivere un messaggio o a giocare a Ruzzle o a visitare la pagina Facebook non forniscono risposta immediata al bambino che in quel momento sta esprimendo una richiesta. Ciò va in netto contrasto con la smania dei genitori di esaudire prontamente i desideri, di ridurre attese e frustrazioni, di proteggere. Sembra più importante ciò che succede in rete piuttosto che quanto accade intorno.


L’ansia, la paura di perdere quello che avviene online viene descritta con l’acronimo F.O.M.O. (Fear of Missing Out) e giustifica gli innumerevoli, ossessivi accessi alla rete per controllare che non ci stiamo perdendo qualcosa di interessante altrove.


Il “qui” reale passa in secondo piano e sbiadisce rispetto al “là” virtuale e con esso anche le persone coinvolte (figli, coniuge, amici, parenti).

Il messaggio che passa al bambino è quello di essere meno importante dell’attività virtuale che si sta svolgendo. L’egocentrismo, tipico dell’infanzia, viene dunque mortificato, salvo poi essere esaltato all’ennesima potenza con continue foto, selfie, pubblicazione degli stessi sui social network o whatsapp.


I bambini vengono continuamente ripresi e invitati dai genitori o dagli adulti in generale a mettersi in posa per apparire e mostrare alla comunità virtuale che ci si diverte, si esce, si mangia, si ha successo, si vive. E i bambini assomigliano molto a trofei da mostrare.


Se questo da un lato forse aiuta il bambino a superare blocchi e inibizioni, dall’altro però contribuisce ad eliminarli troppo, generando una sorta di narcisismo e una marcata cultura dell’immagine che possono sfociare nel vuoto di valori e in comportamenti sempre più audaci.

I bambini che crescono con una cultura dell’immagine così pervasiva potrebbero diventare preadolescenti e adolescenti con un fragile concetto di sé (come già accade d’altra parte).


Se la costruzione dell’autostima e della propria identità poggia in modo esclusivo o quasi esclusivo sull’immagine e sui “mi piace” che quell’immagine riscuote, comprendiamo bene come tante personalità si sviluppino su basi davvero precarie e sull’impossibilità di risolvere il conflitto tra senso di onnipotenza e inadeguatezza alla realtà.


Inoltre, il fatto di dover riprendere ogni momento con foto o video che resteranno nella memoria dello smartphone finché questo non diventi obsoleto e ne richieda la sostituzione, contribuisce a dare al ricordo il carattere di illusione e di effimero. Quest’ultimo, così come il momento in sé, sbiadisce sia perché non vissuto pienamente (in quanto filtrato attraverso uno schermo), sia perché non corrisponde a una prova tangibile recuperabile in altri momenti. Cancellando la conservazione del passato, si vive in un’unica dimensione temporale indefinita e immutabile: il presente.


Scattiamo talmente tante fotografie che neanche ci ricordiamo, finendo per archiviare il ricordo in una memoria labile e precaria. Molti genitori vivono così eventi importanti dei propri figli restando dietro ad uno schermo per immortalare il momento o, peggio ancora, semplicemente per attività d’altro genere.

Di fronte a genitori dediti di continuo ad attività virtuali, il bambino potrebbe forse trovarsi nella condizione di dover sperimentare nuove strategie per attirare l’attenzione, di urlare per farsi sentire oppure, più semplicemente e più pericolosamente, adotterà le stesse abitudini “digitali”, assorbendole come modalità di comunicazione a diversi livelli, usando lo smartphone /tablet come surrogato del genitore/interlocutore.


Se da un lato i bambini sono al centro dell’attenzione, dei genitori in particolare, e degli adulti in generale, dall’altro sembrano esserne carenti.

La comunicazione genitori/figli diventa sempre più evanescente e troppo spesso viene rappresentata da modalità propositive e costruttive solo in apparenza. In troppi casi i genitori sembrano aver perso il loro ruolo; il rapporto con i bambini sembra minaccioso e difficile e ci si avvale, pertanto, di uno scudo che possa parare tutti i colpi (lo schermo digitale).


Quanto tempo si trascorre parlando davvero con loro? Quanto si racconta di sé, del proprio vissuto, della propria visione del mondo che si trasmette come insegnamento prezioso e inestimabile eredità? In questa nostra società, decisamente poco o nulla.


È più che mai necessario e urgente assumere una maggiore consapevolezza e responsabilità nei confronti delle nuove generazioni e dei bambini in particolare. Tutto ciò che diciamo loro o facciamo con loro, tutto ciò che proponiamo lascia tracce profonde che sedimentano nella psiche formando le persone di domani.


Dobbiamo restituire all’infanzia il suo tempo e i suoi ritmi, se vogliamo una società futura fatta di individui sani ed equilibrati.

Bambini digitali
Bambini digitali
Mena Senatore
L’alterazione del pensiero creativo e il declino dell’empatia.Un’analisi degli effetti negativi dell’abuso degli schermi digitali in età evolutiva sul piano dello sviluppo cognitivo, emotivo e sociale. Negli ultimi anni sempre più bambini si trovano a interagire con gli schermi digitali di tablet, smartphone e PC. Ma quali sono le conseguenze?Mena Senatore, nel suo libro Bambini digitali, prende in esame gli effetti negativi dell’uso e abuso di queste tecnologie in età evolutiva, con particolare attenzione alla prima e seconda infanzia, sottolineandone le conseguenze a livello di sviluppo cognitivo, emotivo e sociale.Un’urgente lettura per genitori, educatori e insegnanti. Conosci l’autore Mena Senatore, laureata in Lingue e Letterature straniere, è docente di Lingua e Civiltà Inglese nella scuola secondaria superiore.Durante gli studi universitari ha scoperto un forte interesse per la psicologia, che l’ha portata ad approfondire tematiche inerenti lo sviluppo della personalità nelle varie fasi dello sviluppo.Negli ultimi anni ha studiato in particolare la ricerca socio-scientifica dedicata agli effetti delle tecnologie sul cervello, soprattutto in età evolutiva.