CAPITOLO V

Successo a ogni costo

Per quanto ignoto ai più, il termine stress utilizzato per descrivere uno stato emotivo rappresenta di fatto una metafora. In origine il suo impiego si limitava allo studio scientifico dei metalli e di altri materiali, con il significato (cito il mio dizionario) di “tensione o deformazione” dovuta a una forza eccessiva. Una barra d’acciaio è in grado di sopportare solo un determinato livello di tensione prima di spezzarsi.
Quindi che cosa esercita, in senso figurato, una forza simile sui bambini? E che cosa accade quando si “spezzano”?
Nel momento in cui la loro età diventa a due cifre, il gioco - della disciplina - si fa più duro. Gli adolescenti si mettono nei guai con grande facilità e quando si ribellano (comprensibilmente) al controllo dei genitori, questi ultimi si sentono spesso tentati di ricorrere a regole più rigide e a inasprire le punizioni inflitte. Tuttavia ai ragazzini capita di essere sotto stress anche per un altro motivo: il messaggio recepito con frequenza crescente è che non solo ci si aspetta da loro obbedienza, ma anche successo; non devono solo essere buoni, ma anche bravi.

Nel corso degli ultimi vent’anni i manuali scritti da professionisti della salute mentale e da vari autori ci hanno avvertito che i nostri ragazzi sono sottoposti a impegni, pressioni e sovraprogrammati. Uno studio pubblicato nel 2002 rivela un tasso preoccupante di alcolismo (specie tra i ragazzi) e di depressione (in particolare tra le ragazze) negli undicenni e dodicenni delle periferie urbane. I ricercatori individuavano l’origine dei sintomi nel fatto che i ragazzini fossero già costretti a concentrarsi sull’ammissione ai migliori college.
Inoltre negli studenti di seconda media che confessavano l’eccessiva attenzione dei genitori nei confronti dei loro risultati scolastici erano facilmente rilevabili sintomi d’ansia e di “perfezionismo disadattivo”. Disturbi assai meno frequenti nei compagni i cui genitori erano più interessati al benessere dei figli piuttosto che ai loro risultati1. Vorrei farvi notare che si tratta di due obiettivi non solo diversi, ma che spesso mirano verso direzioni opposte; e come denunciato dallo psicanalista Erich Fromm “Sono pochi i genitori che hanno il coraggio e l’indipendenza di avere più a cuore la felicità, che non il successo, dei figli”2.
Nei casi limite la “pressione verso il successo” raggiunge picchi estremi per cui il presente del bambino non è che l’ipoteca del suo futuro. Si sacrificano attività potenzialmente interessanti e divertenti allo strenuo sforzo di preparazione per Harvard (che da ora in poi chiamerò “Preparazione H”).
L’obiettivo finale è sempre ben presente nella mente di questi genitori, che ponderano ogni decisione sulle attività scolastiche, ed extrascolastiche, dei figli in base al contributo che esse possono apportare alle loro glorie future.
Questi bambini vengono cresciuti né più né meno come curricula ambulanti finché, giunti alle superiori, sanno già di doversi iscrivere a quelle attività che colpiranno l’attenzione del consiglio d’ammissione all’Università, ignorando (o, in definitiva, perdendo di vista) i propri interessi, personali e contingenti. Hanno acquisito l’abitudine di chiedere agli insegnanti: “Bisogna che lo impariamo?”, invece di “Che cosa significa?” - presi come sono dall’accanita corsa alla media più alta o dallo strenuo tentativo di risicare un altro paio di punti nel test di ammissione all’Università.
Si tratta di pressioni esercitate in molte famiglie dove i bambini risultano educatissimi e non danno mai problemi né ai genitori, né agli insegnanti.

Nello specifico genitori di successo (e con questo intendo sul piano finanziario e non necessariamente come genitori) tendono a formulare richieste spesso irrealistiche nei confronti della prole. Lo studio sugli undicenni e dodicenni a cui abbiamo accennato aveva il titolo provocatorio di “Privilegiati ma oppressi? Studio sui giovani benestanti” [Privileged but Pressured? A Study of Affluent Youth]. Uno degli autori aveva già rilevato come tra gli adolescenti che godevano di un certo benessere economico si registrasse un maggior abuso di sostanze stupefacenti o livelli più elevati di ansia rispetto ai coetanei dei quartieri popolari3.
Si tratta di un elemento che andrebbe riferito ai genitori di adolescenti (e preadolescenti) delle periferie. Al contempo alcuni dei dati citati nei libri che mettono in guardia sui rischi che si corrono quando si spingono i figli a eccellere potrebbero essere meno significativi in aree che non si chiamano Fairfield, Westchester e Marin4. Non tutti i bambini hanno un’agenda extrascolastica degna di un Direttore Generale - e se sì, ciò forse la dice lunga sulla necessità di trovarsi un lavoro non appena saranno grandi abbastanza.
Ci sono famiglie molto più preoccupate di arrivare a pagare le rate della macchina che non di trovare la strada più adatta a far manovra con il loro carrarmato di lusso tra una lezione di musica e una di ginnastica. E se ci sono genitori che fungono sostanzialmente da consulenti a tempo pieno per le “carriere” dei figli, non dimentichiamo che tanti altri, nelle nostre città, possono solo sognarsi che cosa significhi disporre del reddito (e del tempo) necessari a muoversi in tal senso.

In due parole la natura delle pressioni esercitate sui ragazzini tende a variare di quartiere in quartiere. Tuttavia ciò non significa che siano solo i bambini più benestanti a sentirsi sotto pressione. Gli operai più combattivi sono spesso molto determinati a garantire ai figli le possibilità di cui loro non hanno mai goduto, e ancor più determinati ad assicurarsi che essi ne traggano tutti i vantaggi. Quello che ne deriva non sarà esattamente lo stesso stress subìto dai ragazzini a cui i genitori vogliono, per principio, affibbiare un insegnante privato. Ma sempre di stress si tratta.
Le conseguenze, poi, risultano ancor più gravi allorché questi bambini (indipendentemente dal livello socio-economico e dal gruppo etnico di appartenenza) vengono messi sotto pressione non tanto per ottenere buoni risultati, bensì per superare quelli dei coetanei. Essi iniziano a vedere il prossimo come potenziale ostacolo al proprio successo. Tra gli effetti prevedibili figurano aggressività e alienazione, invidia (dei vincitori) e disprezzo (per i perdenti). La loro autostima, poi, finisce per soffrirne tanto quanto le loro relazioni. Dopo tutto quando la consapevolezza della propria competenza dipende dal trionfo sugli altri, rassicurazioni e conferme arrivano, al massimo, solo qualche volta. Per definizione, non possono vincere tutti.

Negli anni Ottanta due psicologi hanno preso in esame oltre ottocento studenti delle superiori, scoprendo come coloro che avevano sviluppato una certa competitività fossero “unici in virtù della maggiore dipendenza dell’accettazione personale dal riconoscimento del proprio valore e delle proprie competenze”. Tradotto: la maniera in cui si vedevano dipendeva dal modo in cui svolgevano determinati compiti o da che cosa pensassero gli altri di loro5. La competitività rende l’autostima condizionata e precaria, e questo risultato incide sia sui vincitori che sui vinti. E le conseguenze non si limitano all’“eccessiva” competitività: sembra, al contrario, che ogni volta che un bambino si pone di fronte a un altro bambino in modo tale che la vittoria dell’uno dipenda dalla sconfitta dell’altro, si presenta sempre un conto psicologico da pagare.

Quanto detto finora offre - per così dire - una nuova lente attraverso cui focalizzare i segnali del nostro eccessivo intervento nei confronti dei figli, viziandoli o sentendoci troppo coinvolti nelle loro vite. Direi piuttosto che il vero problema non è la misura di quello che facciamo, ma quello che facciamo. È di certo ragionevole cercare di abbassare il tiro quando ci rendiamo conto di aver esagerato nel richiedere ai nostri figli risultati sempre maggiori - o, peggio, nel metterli sempre al di sopra dei coetanei. Ciò non significa, tuttavia, che dovremmo essere genitori meno presenti; piuttosto che dovremmo essere genitori migliori - sostenendo, ad esempio, di più e controllando di meno. (Sarò più preciso nei capitoli dal VII al X).
Invece di limitarci a chiederci se stiamo facendo troppo per i nostri figli, sarebbe più utile (per quanto potenzialmente più inquietante) domandarci per chi lo stiamo facendo. A prima vista sembrerebbe che i genitori troppo insistenti siano solo colpevoli di porre la felicità dei figli prima della loro stessa felicità, per dirla come una recente pubblicazione sull’“iperintromissione” parentale. A ben vedere, però, quello che si verifica è un fenomeno noto come BIRG6. Il termine in genere esprime l’orgoglio e l’esultanza per la vittoria della squadra del cuore, ma pare descrivere alla perfezione quei genitori che traggono un indiretto senso di riscatto dai successi del figlio. Il genere di persone che in una manciata di minuti vi raccontano che il loro piccino segue i corsi per gli studenti superdotati, è nella squadra di tennis della scuola, è stato ammesso a Stanford - nientemeno che con la pre-ammissione (per prendere in giro questo comportamento sono solito annunciare agli amici di essere molto preoccupato perché mia figlia continua a muovere le labbra mentre legge, nonostante che abbia ormai già due anni).

Ovviamente non c’è nulla di sbagliato nell’essere orgogliosi dei propri figli, ma quando si eccede nel vantarsi - esagerando nella misura, nella frequenza o nella tempestività - è probabile che l’identità del genitore sia un po’ troppo dipendente dai risultati del figlio. Ciò è vero soprattutto quando il tono degli elogi sembra più trionfante che amorevole. Se ne coglie una certa competitività, dal momento che, senza girarci troppo attorno, il bimbo in questione non viene dipinto come particolarmente intelligente, ma come il più intelligente. (Lo stesso vale per certi adesivi applicati su un numero inverosimile di automobili: MIO FIGLIO È STUDENTE MODELLO ALLA SCUOLA TAL DEI TALI - sottointendendo la postilla E IL TUO NO)7.

Nell’ascoltarli si ha il sospetto che i risultati non siano stati conseguiti direttamente dal figlio, ma strappati da una mamma e da un papà sempre con il fiato sul collo, insistenti all’inverosimile, forse innamorati del loro bambino in modo non troppo profondo, ma di certo troppo condizionato. È inevitabile domandarsi se quel bambino pensa che gli vorrebbero lo stesso
bene anche se smettesse di stupirli tanto. L’equazione inconscia “Mio figlio è un successo, quindi lo sono anch’io” - se non addirittura “Mio figlio è un successo, e questo grazie a me” - è direttamente ricollegabile a metodi quali l’uso selettivo del rinforzo positivo, per cui un bambino capisce di dover
essere sempre bravo per ottenere coccole e sorrisi e di essere l’orgoglio dei genitori non per quello che è, ma per quello che fa.
Quand’ero piccolo io c’erano genitori che tentavano l’inserimento all’asilo dei figli con un anno d’anticipo, o di far loro saltare una classe anni dopo, tanto perché si trovassero avvantaggiati sul loro percorso di gara… ovunque li portasse. Oggi quegli stessi genitori decidono di attendere ancora un anno prima di inserire i figli a scuola, in modo che - essendo più grandi - risultino, con ogni probabilità, più preparati dei compagni. (Pratica nota come redshirting - termine anche questo mutuato dagli sport di competizione).
Questo ribaltamento a 180 gradi ha del comico, se non fosse per il fatto che in entrambi i casi la vera domanda è se le decisioni prese siano nell’interesse del bambino8. Quindi non c’è tanto da chiedersi quanto sia coinvolto il genitore, ma quale forma assuma tale coinvolgimento e quale ne sia la motivazione.

A scuola

Quando si è davvero concentrati sui reali interessi di un figlio - e decisi a mettere in dubbio le convinzioni abituali - è possibile capovolgere certi diffusissimi princìpi legati alla natura del successo. Per quanto riguarda i voti, anche i genitori più ragionevoli e rispettosi hanno preso per buono il fatto che ottenere bei voti sia buon segno. Quindi si rallegrano se accade anche ai loro figli. Ancor prima di addentrarmi senza riserve nei metodi a cui ricorrono molti genitori per spingere i figli verso quell’obbiettivo, vorrei affrontare con una certa cautela l’intera questione dei voti.
Il mio interesse risiede nel fatto che esistono diversi tipi di motivazione, non tutti auspicabili (vedi capitolo II). C’è una differenza sostanziale tra uno studente il cui obiettivo è ottenere un bel voto e uno studente il cui obiettivo è risolvere un problema o comprendere una storia. Per di più le ricerche dimostrano che, quando si spingono i figli a concentrarsi sull’ottenimento di voti più alti, si possono verificare tre possibilità: la perdita di interesse nei confronti dello studio; il tentativo di evitare i compiti più impegnativi; una minor tendenza a riflettere in maniera critica e approfondita9Ma vediamo più nello specifico ciascun punto:

1. Così come i bambini premiati per la propria generosità finiscono per dimostrarsi meno generosi, anche gli studenti che ottengono un 10 o - più precisamente - gli studenti il cui principale obiettivo è ottenere un 10 - hanno una maggior tendenza a perdere interesse in quanto appreso. Ciò non vale per tutti i bambini: alcuni sembrano essere naturalmente immuni dagli effetti distruttivi dei voti.
Tuttavia per gran parte di loro il rischio resta molto alto. A quanto mi risulta non c’è studio in materia che non abbia dimostrato come gli studenti a cui sia stato riferito che avrebbero ricevuto un voto per un determinato compito non abbiano trovato meno coinvolgente l’attività svolta - se messi a confronto con studenti ai quali sia stato assegnato lo stesso compito ma senza l’aspettativa del voto.
Anche il racconto più appassionante, o il progetto di scienze più avvincente, diventa presto insostenibile se visto come un dovere da espletare per accaparrarsi un 10, un 100 o una stellina d’oro. Più il bambino si concentra sui voti, più la sua naturale curiosità per il mondo rischia di svanire.

2. I voti spingono gli studenti a scegliere, tra tutti, i compiti più semplici.
Di loro colpisce come quello che fanno “conti” per il voto, e come tendano a evitare di correre rischi inutili. I bambini capiscono presto che scegliere i compiti più semplici è la via più sicura per ottenere i migliori risultati. Opteranno per il libro più breve, il tema su un soggetto a loro noto, sempre nell’ottica di ridurre le possibilità di insuccesso. Ciò non significa che siano “immotivati” o pigri. Significa che sono razionali, in risposta ad adulti che, avendo loro ripetuto che l’obiettivo è ottenere un bel voto, veicolano il messaggio per cui il successo è più importante dell’apprendimento.
Secondo un’indagine i genitori che mettono il successo al di sopra di tutto desiderano con maggior probabilità che i loro figli scelgano progetti “che implichino il minor sforzo per una maggior possibilità di riuscita”, in luogo di quelli “in cui si imparano molte cose nuove facendo tuttavia molti errori”10. Per contro, quando i genitori dicono in modo chiaro che l’apprendimento (e la gioia dell’apprendimento) è più importante della qualità del prodotto, i ragazzi si sentono più invogliati a mettersi alla prova, affrontando compiti sempre nuovi e interessanti, anche senza la certezza del risultato.

3. Molto spesso la corsa al voto più alto spinge gli studenti a ragionare con maggior superficialità e imprecisione, cercando nei libri solo quello “di cui hanno bisogno” e facendo solo il minimo indispensabile.
È facile che escogitino trucchetti per superare un esame, arrivando persino all’imbroglio. I più abili nel gioco superano il compito in classe, prendono 10, per la gioia di mamma e papà.
Ma avranno assimilato quanto appreso? Avranno elaborato strategie nuove e intelligenti per la risoluzione delle difficoltà? Porranno domande pertinenti su quanto spiegato in classe, o elaboreranno un pensiero critico su quanto riportato nei libri? Saranno in grado di creare collegamenti tra i vari concetti e di esaminare una tematica da prospettive diverse? Magari capiterà, qualche volta, ma secondo i dati scientifici è assai improbabile che ciò avvenga se il principale interesse non è tanto capire quanto ottenere una pagella esemplare.
Il titolo di un articolo accademico sui premi e i riconoscimenti dà una definizione perfetta dei voti: “Nemici dell’esplorazione”.

In breve: più desideriamo che i nostri figli 1) siano amanti del sapere per tutta la vita, animati da vivo entusiasmo per parole, numeri e idee, 2) non si fossilizzino su compiti semplici e senza rischi, e 3) diventino pensatori raffinati, più dovremo adoperarci affinché smettano di pensare ai voti. Meglio
ancora, dovremmo incoraggiare insegnanti e presidi a ridurne (se non
eliminarne) l’utilizzo. In qualità di collaboratore di diversi educatori che
operano in tutti gli Stati Uniti, vi posso assicurare che molti degli istituti
scolastici davvero impegnati a garantire un’istruzione di prim’ordine - assicurandosi di mantenere il naturale amore per lo studio dei propri studenti - considerano necessario eliminare voti e giudizi, ricorrendo a sistemi più istruttivi e meno dannosi quali brevi resoconti scritti o colloqui personali che informino i genitori dell’andamento scolastico dei figli e degli eventuali punti deboli. Inoltre questi studenti non hanno alcuna difficoltà a essere ammessi all’Università nonostante l’abolizione dei voti.
Naturalmente si tratta di una minoranza: la maggior parte degli istituti continuano a ricorrere alle solite pagelle, per cui è comprensibile come i genitori si sentano rassicurati da una bella pagella e preoccupati se non lo è. Siamo tutti trascinati dalla stessa corrente: desideriamo che i nostri figli prendano bei voti perché pare l’unico indicatore del successo scolastico, oltre al fatto che pochi di noi sono stati informati degli effetti negativi da essi prodotti - o delle possibili alternative. Senza dimenticare che tutti noi abbiamo ricevuto voti e giudizi ai tempi della scuola. Ecco perché è necessario rendersi conto dei potenziali danni di una pratica data per scontata, oltre a capire che l’interrogativo da porsi non sono i voti presi da nostro figlio, ma se lui li considera più importanti di ciò che impara.

I voti sono di per sé un problema, ma quando obblighiamo i nostri ragazzi a prendere i voti migliori - puntando, di fatto, a un obiettivo fallace applicando un metodo fallace - il danno è raddoppiato.
È più che evidente che un controllo eccessivo in genere rischia di produrre effetti negativi non solo sulla salute mentale, ma anche sul profitto scolastico di un bambino. Difficilmente raggiungerà i livelli più alti in una scala di competenze acquisibili in classe se i genitori non gli consentono di prendere decisioni autonome o di provare un certo grado di autodeterminazione11È altrettanto evidente che un eccessivo controllo da parte dei genitori esercitato in modo particolare sui compiti scolastici è potenzialmente deleterio. Conclusione emersa dallo studio che dimostrava come i bambini imparino con più difficoltà se i genitori hanno un comportamento troppo invasivo durante lo svolgimento dei compiti a casa (vedere capitolo III).
A questo punto aggiungerei che anche il controllo esercitato in modo particolare sui voti è negativo. Ci sono genitori che promettono ai figli qualsiasi cosa - dolci, denaro, automobili - per una bella pagella (poiché i voti stessi sono generalmente concepiti per fungere da motivazione estrinseca, ne risulta l’offerta di un premio per un premio). Altri esercitano un controllo punitivo, ricorrendo alle minacce più sgradevoli se il bollettino scolastico dei figli non è ineccepibile. Secondo due indagini distinte tali metodi, nella migliore delle ipotesi, non funzionano, e nella peggiore non fanno che acuire il problema. In particolare i bambini a cui si promettono premi per aver ottenuto buoni voti o punizioni per aver preso brutti voti tendono a perdere interesse nello studio, risultando, di conseguenza, meno brillanti negli anni successivi, apparentemente in ragione dell’atteggiamento dei genitori. Di fatto, maggiore è l’interesse di mamma e papà nei confronti dei risultati del figlio, peggiori sono tali risultati12.
Questo paradosso è, com’è ovvio, sorprendentemente simile al modo in cui la disciplina più rigida non porta i bambini a fare quello che viene loro detto. Entrambi i casi dimostrano come il controllo produca risultati che gli si ritorcono contro. Tornando ai voti, la ricerca non fa che confermare quanto vissuto da molti di noi: mettere i nostri figli sotto pressione - perché facciano, ad esempio, i compiti - spesso comporta che essi cerchino di salvaguardare la propria autonomia o ribellandosi apertamente, oppure attraverso una forma di resistenza passiva: dimenticando, lagnandosi, ignorando lo studio per qualche altra attività. Più si pontifica sull’importanza di ottenere buoni voti, meno i ragazzi tollerano di essere sotto controllo e peggiore è il loro profitto.
L’aspetto più preoccupante dell’intera faccenda non è il rischio di prendere brutti voti. Dopo tutto finora non ho fatto altro che sostenere come non siano poi così importanti. In realtà quello di cui dovremmo preoccuparci è l’eventualità che i nostri figli si oppongano alla pressione a essere bravi studenti impegnandosi sempre meno, con il risultato di imparare sempre meno. Che importa di una brutta pagella: se insistiamo troppo, i nostri figli rischiano di ragionare assai meno (o assai peggio).

Certo potrebbe pure accadere che, con i metodi coercitivi, un giorno, messi davvero alle strette, i nostri ragazzi si mettano a testa bassa sui libri portando a casa i voti che diciamo noi. Magari ci riuscirebbe persino di vederli ammessi all’Università di nostra - pardon, di loro - scelta. Anche per queste vittorie, però, così come nel caso delle punizioni, spesso c’è un prezzo molto alto da pagare. In che modo tale intervento ha influito sui sentimenti che i nostri ragazzi provano nei nostri, e nei loro, confronti? Quali sono gli effetti dello stress sul loro equilibrio emotivo? E il loro interesse per la lettura e la cultura? Se già i voti rendono lo studio simile a una corvè, immaginiamo come tale impressione venga rafforzata dalle reiterate pressioni dei genitori per migliorarli.
“Non mi capita mai di sentir discutere i genitori su come aiutare i figli ad amare la lettura”, riferisce un insegnante di New York. “Li sento discutere su come insegnare loro a leggere il più precocemente possibile”13.
Priorità pregresse che hanno conseguenze tanto prevedibili quanto durature.
Un amico mio, ad esempio, consulente scolastico in Florida, una volta mi raccontava di un liceale da lui seguito, studente modello con ottimi voti in tutte le materie, a cui mancava solo di piazzare una sfolgorante presenta zione tra le varie domande di ammissione al college per concludere la partita.
“Perché non partire da qualche lettura che ti ha colpito in particolare?” suggerisce al ragazzo. “Raccontami di un libro che hai letto per piacere tuo, non per compito”. Silenzio imbarazzante. Nessun libro citato: lo studente modello non aveva familiarità con il concetto di lettura per piacere. Ho proposto questo aneddoto agli incontri con genitori ed educatori solo per vedere un gran scuotere di teste in tutta la sala. In molti luoghi certi studenti sono più la regola che l’eccezione. Perché mai dovrebbero leggere un testo non richiesto? Niente voti? Nessuna prova? Allora non c’è ragione.
Per ironia alcuni genitori sono ben felici di non essere più costretti a stare con il fiato sul collo dei figli, spronandoli, esortandoli, spingendoli a fare meglio. A un certo punto tali pressioni vengono interiorizzate dal bambino che, come dire, prende la frusta nelle proprie mani. A ogni fallimento sente che c’è qualcosa in lui che non va. A quel punto, la motivazione a studiare con successo è interna, ma di certo non intrinseca. Lavora in modo autonomo, ma senza la sensazione di aver operato una libera scelta - e senza soddisfazione.
Dopo tutto la spumeggiante curiosità dei bambini più piccoli non svanisce naturalmente, come quando cadono i denti da latte, ma scema in ragione di eventi che si presentano - e che non dovrebbero presentarsi - in famiglia e a scuola.

In definitiva i voti sono un male e il ricorso a tecniche di controllo per spingere i ragazzi verso l’ottenimento di voti migliori è ancor peggio. La cosa peggiore, tuttavia, si verifica quando tali tecniche vanno di pari passo con l’amore condizionato. Non tutti i genitori offrono denaro in cambio di un bel 10, ma pagano i figli in termini d’affetto e approvazione, usando di fatto il proprio amore come sprone affinché essi ottengano buoni risultati - al punto da spingerli a credere che il bene di mamma e papà salga e scenda a seconda della media scolastica.
La situazione risulta particolarmente rischiosa quando il bene appare “contingente rispetto al soddisfacimento di aspettative molto alte e spesso irrealistiche”, come direbbe un ricercatore. Quando un bambino sente di dover fare sempre colpo sui genitori perché essi siano orgogliosi di lui, anche l’accettazione di sé diventa condizionata. “Alcuni di questi bambini vivono nel costante timore di deludere i genitori”, osserva Lilian Katz, esperta di pedagogia della prima infanzia. Da un recente studio risulta, in fatti, che l’utilizzo di tecniche di negazione dell’amore spesso produce una patologica paura del fallimento (interessante notare come lo stesso studio suggerisca che il ricorso a tali tecniche possa essere riconducibile alla paura del fallimento dei genitori stessi)14.

Tale modello, oltre a risultare dannoso da un punto di vista psicologico, rischia di essere letteralmente controproducente, mettendo (ancora una volta) a repentaglio proprio quanto caldeggiato dai genitori. Alcuni bambini mettono, ad esempio, in atto quello che viene definito “autoboicottaggio”: l’abbandono di qualsiasi sforzo per avere una scusa per il proprio fallimento. In questo modo mantengono l’idea di essere intelligenti, raccontandosi che se avessero studiato avrebbero ottenuto risultati eccellenti. Maggiore è la vulnerabilità della loro autoaccettazione, maggiore risulta la tentazione di proteggerla arrendendosi. In altri termini, boicottando le proprie prestazioni, questi bambini aumentano le probabilità di fallimento, in modo da non doversi considerare dei falliti - e quindi indegni di essere amati.

Giochiamo

In alcune famiglie il successo è inteso più in ambito sportivo che scolastico.
Tuttavia, le pressioni esercitate per il suo raggiungimento - e il relativo prezzo - non cambiano granché. Wendy Grolnick, di cui ho già descritto il lavoro di indagine sul controllo parentale, è rimasta colpita non solo dai risultati delle sue ricerche, ma anche da quanto osservato intorno a sé. Racconta, ad esempio, di essersi intrattenuta con una mamma, in piscina, e di aver notato come essa ricorresse al plurale: “Abbiamo deciso che quest’anno avremmo fatto nuoto”, per quanto fosse chiaro che non sarebbe entrata in vasca pure lei. Proprio in quel momento il figlio esce dall’acqua e le si avvicina, visibilmente turbato, confessando di averne abbastanza delle gare. La madre, cercando di mantenere una certa compostezza e guardandosi intorno per assicurarsi di non essere ascoltata da nessuno, gli risponde che avrebbe continuato a nuotare volente o nolente. Alle proteste del bimbo, la madre aggiunge: “Se oggi smetti di nuotare, è finita. Non osare mai più farmi una cosa del genere”. A quel punto il ragazzino scoppia in un pianto sconsolato15.

Chiunque si sia trovato a frequentare campi da calcio, da baseball o da hockey potrebbe raccontare di simili crudeltà: mamme e papà che si scagliano contro arbitri, allenatori, avversari o contro gli stessi figli paiono trovarsi ovunque. Un problema che sembra essersi fatto endemico. Ma ancor
più eloquenti risultano, forse, i genitori dalla mano più leggera, quelli che trovano giusto dichiarare che vincere non è poi tanto importante. Prendono le distanze dall’atteggiamento di quella madre irrispettosa della piscina, inviando tuttavia il chiaro messaggio che resta auspicabile la partecipazione a sport competitivi, oltre che la vittoria.
Al termine di alcune mie conferenze una coppia di genitori mi ha atteso per precisare che “al nostro Zach chiediamo solo di fare del suo meglio”.
La mia prima reazione è pensare che fare del proprio meglio è ben diverso dal semplice divertirsi. La seconda è che, spesso, Zach si rende perfettamente conto di come si nasconda dell’altro sotto certe confortanti rassicurazioni.

Mi piacerebbe domandare: “Quando Zach torna a casa dicendo di aver fatto del suo meglio la vostra reazione è la stessa che se fosse rientrato con una bella coppa? Se non è così, allora è molto probabile che vostro figlio intuisca come la vostra attenzione e il vostro entusiasmo dipendano almeno in parte dalla sua vittoria - o, più precisamente - dall’aver sconfitto gli altri bambini.” Che si parli di una coppa o di un 10, del gol della vittoria o della miglior pagella di tutto l’istituto, i ragazzi che vivono in certe famiglie sentono di dover essere sempre vincenti per essere amati.
Nei casi più estremi ci troviamo di fronte a genitori che hanno assoluto bisogno del trionfo dei figli per potersi sentire vincenti. Ma anche chi non è così, anche chi è orgoglioso di non farsi trascinare, potrebbe rivedere la propria condotta quotidiana, mettendo a confronto quanto si sta facendo e quanto si auspica per il futuro dei figli. Riusciremo a realizzare i nostri obiettivi spingendo i nostri ragazzi verso il successo? E se lo stessero facendo soprattutto per noi? E se non fosse affatto divertente per loro, ma non avessero il coraggio di dirci di no?
Alcuni anni fa mi trovavo ospite in un importante programma di intrattenimento pomeridiano. Accanto a me sedeva un bambino di sette anni, Kyle, per il quale i genitori spendevano gran parte del proprio tempo, oltre a inimmaginabili somme di denaro, nel tentativo di farne una star del tennis.

La madre continuava a ripetere che si trattava di una decisione presa esclusivamente dal piccolo - nonostante lei stessa fosse stata una campionessa di tennis e avesse impartito le prime lezioni al figlio all’età di due anni (più tardi invece si era lasciata scappare qualcosa circa i motivi per cui avevano optato per il tennis piuttosto che per un altro sport). Venimmo a sapere che il bambino si allenava dalle due alle cinque ore il giorno, e ci venne mostrato un filmato che lo riprendeva mentre riceveva con forza i servizi, correndo da una parte all’altra del campo. Infine, durante le ultime battute del programma, mentre già scorrevano i titoli di coda sullo schermo, qualcuno del pubblico chiese a Kyle come si sentisse in caso di sconfitta.
Con gli occhi bassi e un fil di voce, il bambino rispose: “Mi vergogno”.
Queste due paroline quasi impercettibili mi tornano in mente tutte le volte che penso alle conseguenze dell’eccessiva pressione sui bambini.
Grazie al cielo sono pochi i genitori che si spingono ai livelli dei genitori di Kyle, tuttavia la vergogna da lui provata per la sconfitta e la delusione inferta a chi da lui si aspettava, se non addirittura pretendeva, certi risultati sarà di certo16 nota a moltissimi bambini intorno a noi.
Forse parte del problema risiede nel tennis stesso o in altri sport. Proprio come esistono veicoli di comunicazione del profitto scolastico di un figlio migliori dei voti, altrettanto sono convinto esistano forme di divertimento (oltre che di allenamento e di acquisizione di competenze motorie) più idonee della partecipazione a giochi in cui si vince solo sconfiggendo qualcun altro. Tuttavia persino i meno inclini a considerare tali alternative potrebbero domandarsi se i loro figli considerino lo sport come un’attività molto più simile a un lavoro che non a un gioco - e, in caso affermativo, il perché.

Farcela, sempre

Nei primi anni Ottanta, all’inizio di quella che si sarebbe rivelata una pluriennale ricerca sugli effetti della competizione, avevo qualche idea su quanto avrei scoperto. Immaginavo che i dati avrebbero dimostrato che la competizione è nemica della salute psicologica e delle relazioni. Non mi sbagliavo. Tuttavia mi aspettavo di reperire prove a conferma di quanto sentito dire fino ad allora - ossia che la competizione fornisce a molti la “motivazione” a fare del proprio meglio, e che quindi l’assenza di competizione potrebbe essere ricollegabile a risultati inferiori in ambito lavorativo e scolastico. A quel punto saremmo posti davanti al compromesso di rinunciare a eccellere a tutti i costi per una maggior salute e felicità.

Qui mi sbagliavo: dalla ricerca risultava, in modo del tutto schiacciante, che la competizione ci impedisce di lavorare e di studiare al meglio delle nostre possibilità. Sono tante le ragioni per cui la riuscita ottimale nella maggior parte delle attività svolte non solo non richieda di battersi - ma che, al contrario, necessiti dell’indipendenza da un certo tipo di impostazione.
Non esistono compromessi. Ha più senso collaborare che non competere se a cuore si hanno soprattutto i risultati concreti, e lo stesso vale se l’importante è sentirsi bene con se stessi e con le persone a cui si vuol bene.
Mi sono soffermato su questo punto perché si crede che esista lo stesso tipo di compromesso per quanto riguarda l’amore incondizionato. Ecco quanto comunemente sostenuto: quando sappiamo di ricevere approvazione solo se ci impegniamo al massimo o otteniamo risultati concreti, tenderemo a comportarci di conseguenza. Per contro un gruppo di psicologi ha formulato questa domanda retorica: “Se fossimo amati incondizionatamente in ogni sfera della nostra esistenza, ci sentiremmo altrettanto spinti al successo?17.

Si tratta di una domanda impegnativa, alla quale intendo dare quattro risposte diverse. Primo, se anche avesse senso, tale linea di pensiero potrebbe essere applicabile solo e unicamente agli adulti. I bambini hanno bisogno di essere amati incondizionatamente. Tornando a presumere che sia un bene per chiunque essere accettati solo se si ha successo, sarebbe fondamentale iniziare il proprio percorso di vita partendo da una base sicura che nasce dall’essere accettati senza se e senza ma.
Secondo, varrebbe la pena domandarsi in base a che cosa, di preciso, sia possibile decidere se dare valore o no a una persona. “Lavorare sodo” e “ottenere risultati concreti” sono, di fatto, due cose molto diverse. Se quanto richiesto sono i risultati, come dovremmo comportarci con chi, nonostante tutti gli sforzi, per varie ragioni - delle quali molte al di là del suo controllo - non riesce a realizzare i propri obiettivi? Se, al contrario, la nostra approvazione si fonda sull’impegno indefesso, il problema è che non sempre è possibile quantificarlo. C’è chi si profonde in maggiori sforzi e chi, invece, si impegna più a lungo. Alla fine risulta abbastanza ridicolo definire amore e accettazione in base a qualcosa di tanto impalpabile quanto l’impegno.

Terzo, quand’anche l’accettazione condizionata producesse qualche risultato, ci troveremmo ancora una volta a dover considerarne il prezzo implicito - ossia la portata, la profondità e la durata delle conseguenze di un metodo che, a primo acchito, parrebbe funzionare. Anche nell’eventualità di un compromesso, gli svantaggi di questo tipo di accettazione supererebbero di gran lunga i vantaggi legati a una maggiore produttività. Svantaggi dolorosamente evidenziati dalla ricerca descritta ai capitoli I e II. Se quegli
studenti avessero, ad esempio, studiato con maggior impegno nel disperato tentativo di conquistare l’amore dei genitori, pochi di noi ammetterebbero che sarebbe valso il prezzo del risentimento maturato nei confronti della famiglia di origine, o il senso di colpevolezza, infelicità e prigionia. Se fossimo amati incondizionatamente, ci sentiremmo altrettanto spinti al successo?
Chiunque fosse a conoscenza di che cosa significhi sentirsi spinti risponderebbe “Speriamo di no!”.
Non è detto, però, che chi non si sente spinto al successo non sia una persona di successo. Ecco, infine, la mia quarta e ultima risposta: così come nel caso della competizione, si scopre che non esiste alcun compromesso poiché l’accettazione condizionata di norma non funziona, neppure per il raggiungimento dell’obiettivo limitato del massimo successo. Nella migliore delle ipotesi la sua efficacia si limita a determinati individui, a determinati
compiti, in determinate occasioni.
Chi è convinto del contrario ha elaborato un gran numero di princìpi errati. Primo fra tutti quello secondo cui chi viene cresciuto convinto delle proprie capacità non arriverà da nessuna parte. Una volta mi è capitato di sentire una persona affermare in difesa di siffatto principio: “la natura umana è portata a fare il minimo indispensabile”. Pregiudizio confutato non solo da un certo numero di studi ma dall’intera branca della psicologia che si occupa della motivazione18. Di solito risulta difficile dissuadere individui felici e soddisfatti dal conoscere di più di sé e del mondo, o dallo svolgere un lavoro di cui sono orgogliosi. Il desiderio di fare il minimo indispensabile è un’aberrazione, sintomo che qualcosa non va. Potrebbe indicare che ci si sente minacciati, ripiegando su una strategia di contenimento dei danni, oppure che premi e punizioni hanno prodotto una perdita di interesse in quello che si fa; o ancora che un determinato compito viene percepito - forse a ragione - come sciocco e inutile.
Supponiamo, ad esempio, che un bambino faccia “il minimo indispensabile” a scuola: come abbiamo visto si potrebbe trattare di un esempio di auto boicottaggio (è stato convinto di essere stupido, quindi decide di non fare alcuno sforzo per convincersi che se avesse tentato avrebbe ottenuto buoni risultati). Oppure potrebbe essere conseguenza della motivazione estrinseca: volendo ottenere un bel voto, sa di poterci riuscire con più facilità fissandosi su compiti a lui già noti. O ancora potrebbe essere imputabile al fatto che, invece di imparare cose interessanti, debba completare l’ennesima, noiosissima scheda o leggersi l’ennesimo capitolo dell’uggiosissimo manuale. Si potrebbero di certo trovare altre spiegazioni a tale volontà di fare il minimo indispensabile, che ispirerebbero diversi interrogativi sull’andamento scolastico o familiare del bambino. Solo, non vi sarebbe alcun motivo di presupporre che siffatto atteggiamento sia inevitabile conseguenza della “natura umana”.

Come già espresso in precedenza, i bambini che vengono amati incondizionatamente tendono ad accettarsi incondizionatamente. Ciò ci dovrebbe preoccupare solo nel caso in cui si confondesse l’accettazione positiva con il compiacimento arrogante. Chi è dotato di una profonda fiducia in se stesso, oltre che della certezza di base di essere una brava persona, difficilmente siede con le mani in mano. Non esiste uno straccio di prova per cui l’autostima incondizionata produca pigrizia e che per raggiungere i migliori risultati sia necessario detestarsi, tanto da decretare il proprio fallimento.
Per contro, chi sa di essere amato a prescindere dai propri risultati spesso ne ottiene di sorprendenti: essere accettati senza se e senza ma contribuisce a sviluppare una sana sicurezza di sé, la sensazione che non c’è nulla di minaccioso nel correre qualche rischio per intraprendere qualcosa di nuovo. È dal profondo appagamento che scaturisce il coraggio di osare.

Quest’affermazione va a toccare un’ulteriore serie di princìpi strettamente collegati, sostenuti da chi crede nell’idea dell’accettazione condizionata.
Essi paiono convinti che sia necessaria l’ansia prodotta dalla perpetua insicurezza alla realizzazione di qualsiasi impresa, che sia il timore del fallimento a fornire la motivazione per migliorarsi. Anche in questo caso è
difficile immaginare punti di vista più distanti da quanto risaputo in materia di motivazione e di apprendimento. Forse vogliamo davvero che il bambino reagisca a un fallimento, ma ciò non significa che ce la farà. È più probabile, a parità di condizioni, che si aspetti di ottenere gli stessi scarsi risultati nei soliti ambiti, anche in futuro. Prospettiva che rischia di produrre una previsione che finisce con l’avverarsi: sentendosi incapace, per non dire impotente, il bambino finisce per agire in modo tale da dimostrare di aver ragione. Inizia, inoltre, a scegliere i compiti meno impegnativi, e a perdere interesse in tutto quel che fa19. Anche quei bimbi straordinari che, dopo un fallimento, a testa bassa si mettono ancora più di impegno, forse sono spinti da un’ansia compulsiva a tornare a sentirsi a proprio agio nei propri panni più che da un reale amore per lo studio. Quand’anche riuscissero ad assimilare quanto letto oggi, non è detto che vogliano leggere domani.

È una verità molto semplice, e molto ovvia, a ben pensarci: temere di fallire non è esattamente lo stesso che raggiungere il successo. In realtà, l’uno è di ostacolo all’altro. Abbiamo già analizzato numerose prove del fatto che l’amore e l’autostima condizionati sono deleteri. A questo punto bisogna aggiungere che risultano altresì poco proficui, determinando - come sottolineato da due ricercatori - “una gestione e un recupero del sé basati sull’emotività piuttosto che sul problema”. In altre parole, si è talmente impegnati nell’affrontare le implicazioni del fallimento che non resta né tempo né energia da dedicare al raggiungimento del successo.
Ma al di là di quest’aspetto pratico, i due ricercatori proseguono sottolineando come il principio secondo cui educare i figli a sentirsi bene con se stessi solo se ne hanno conquistato il diritto grazie ai successi ottenuti sembri essere “garanzia di bassa autostima, implicando che quei bambini incapaci di affermarsi socialmente attraverso buoni voti o il successo nello sport pensino, a ragione, di essere individui senza valore”20.
Come tanti altri messaggi malsani recepiti dai più piccoli, quest’ultimo proviene spesso dagli insegnanti, dagli allenatori, dagli amici, per non parlare dei media e della cultura imperante. Inutile tuttavia negare che le pressioni a far bene - o, peggio ancora, a far meglio degli altri - nascano in genere tra le pareti domestiche. Ad ogni modo, tocca a noi genitori neutralizzare tali pressioni, sfidando i messaggi di accettazione condizionata e assicurandoci che i nostri figli si sentano amati senza se e senza ma.

Amarli senza se e senza ma
Amarli senza se e senza ma
Alfie Kohn
Dalla logica dei premi e delle punizioni a quella dell’amore e della ragione.Un classico dell’amore incondizionato. Come crescere i figli eliminando finalmente i piccoli ricatti, le minacce, le promesse e i premi. Crescere un figlio non è un gioco da ragazzi!Diventare genitori è un esame costante sulle capacità di affrontare disordine e imprevedibilità, un ruolo per cui non ci si può preparare davvero.Una delle difficoltà maggiori è la tentazione di domare l’atteggiamento di opposizione dei figli alle nostre richieste, rischiando di trasformarli in burattini addomesticati o, al contrario, di provocare danni approvando tutto ciò che dicono e fanno.Allora, come farsi obbedire dai propri figli?Sistemi educativi quali punizioni, castighi, premi e altre forme di controllo inducono i nostri figli a credere di essere amati solo se ci compiacciono o ci colpiscono in modo favorevole.Nel suo libro Alfie Kohn si allontana dai messaggi veicolati da certi metodi convenzionali e ribalta la prospettiva, chiedendosi quali siano i bisogni dei nostri figli e come possiamo soddisfarli.L’autore suggerisce una serie di idee per allontanarsi da metodi abituali che prevedono l’imposizione di qualcosa ai bambini, per approcciarsi a modalità che portino invece alla collaborazione con loro.Amarli senza se e senza ma risponde a una domanda cruciale: le nostre azioni quotidiane possono contribuire a rendere nostro figlio l’adulto che vorremmo?Consigli utili affinché il bambino possa aspirare a diventare un adulto sano, responsabile ma allo stesso tempo sensibile e premuroso.Un libro rivoluzionario e illuminante per diventare a tutti gli effetti genitori senza se e senza ma, poiché uno dei bisogni fondamentali del bambino è proprio essere amato in maniera incondizionata ed essere accettato anche quando combina guai o fallisce: in sintesi, essere amato per quello che è e non per quello che fa. Conosci l’autore Alfie Kohn ha pubblicato diversi libri, tra cui Punished by Rewards e The Schools Our Children Deserve, che hanno dato un forte contributo all’operato di educatori e genitori. Vive con la famiglia nei pressi di Boston, dove tiene conferenze e seminari, ed è raggiungibile sul web all’indirizzo www.alfiekohn.org.