CAPITOLO IV

I danni delle punizioni

Punizioni… controllo… educazione autoritaria… negazione dell’amore… affetto condizionato - concetti che si sovrappongono l’uno sull’altro.
È il primo di questi, tuttavia, il più familiare e quello di più immediata comprensione. Punire un bambino è, semplicemente, fargli qualcosa di sgradevole - o impedirgli di provare un’esperienza gradevole - di solito con l’obiettivo di indurlo a modificare il proprio comportamento per le volte successive. Chi punisce, in altri termini, arreca una sofferenza perché se ne tragga insegnamento1.
Alcuni elementari dubbi circa la ragionevolezza di un approccio del genere sorgono ancor prima di confrontarsi con i risultati prodotti dalla ricerca scientifica. Potremmo, ad esempio, chiederci “In quale misura è possibile che la volontà di rendere infelice un bambino si dimostri, alla lunga, vantaggiosa?”, o ancora “Se le punizioni sono tanto efficaci, allora perché mi ritrovo a dover punire mio figlio di continuo?”.
Le ricerche a nostra disposizione non alleviano in alcun modo questi dubbi. I risultati di uno studio pubblicato nel 1957 sembrano prendere di sorpresa gli stessi autori. Dopo un’attenta revisione dei dati ottenuti dall’osservazione di un gruppo di bimbi dell’asilo e delle loro madri, i ricercatori affermano che “le tristi conseguenze delle punizioni hanno fatto da tetro filo conduttore della ricerca”. Le punizioni si sono rivelate controproducenti sia che il genitore vi ricorresse per interrompere un comportamento aggressivo, o per l’eccessiva dipendenza, la pipì a letto e quant’altro.

Gli autori della ricerca continuavano a ricevere conferma del fatto che le punizioni si dimostravano “un metodo inefficace nel lungo periodo per la rimozione del comportamento al quale veniva rivolto”2. Studi più recenti e organizzati non hanno fatto altro che rafforzare tali conclusioni, rivelando, ad esempio, come i genitori che “puniscono i figli per aver infranto le regole a casa si ritrovano spesso con figli che hanno una forte tendenza a infrangere le regole fuori casa”3.

Ad oggi è impressionante il numero di ricerche condotte per dimostrare, nello specifico, gli effetti devastanti delle punizioni corporali - ovvero sculacciate, schiaffi, e tutte le forme di disciplina che arrechino dolore fisico.
I dati attestano in modo schiacciante che esse aumentano l’aggressività del bambino, oltre a provocare danni di varia natura (e non risulterebbe neppure chiaro se di fatto ottengano un’obbedienza temporanea)4. È chiaro che, a picchiarli, i figli “imparano la lezione” - la lezione che si può averla vinta
su chi è più debole, picchiandolo.
Ritengo che la ricerca dia prova della tolleranza zero da usare nei confronti degli sculaccioni, appurata la loro inutilità, inefficacia e potenziale pericolosità. Tuttavia si tratta, di nuovo, di una questione in cui i dati scientifici non sono strettamente necessari. Dovrebbero bastare i princìpi
fondamentali a spiegare il nostro rifiuto. È già intollerabile che certi uomini picchino le mogli o le fidanzate, quindi forse ancor più abominevole che gli adulti si scaglino sui bambini - qualsiasi siano le ragioni o le modalità.
Eppure così come la questione del controllo non si esaurisce con le punizioni, la questione delle punizioni non si esaurisce con quelle fisiche.
Concetto ben espresso dalla sociologa Joan McCord:

Se genitori e insegnanti adottassero le punizioni non fisiche al posto di quelle fisiche non dovrebbero più insegnare ai bambini a tirare calci e pugni; eppure continuerebbero a trasmettere l’idea che infliggere dolore è una forma legittima di esercizio del potere… Con conseguenze non meno lesive della compassione e degli interessi sociali5.

In altri termini il problema consiste nel voler costringere i bambini a subire qualcosa di sgradevole. La sgradevolezza potrebbe essere data dalle percosse, dalla mancanza di affetto e di attenzioni, dall’isolamento e quant’altro.

È bene sottolinearlo prima di tutto perché persino autori decisamente contrari alle punizioni corporali sembrano prendere per buono che altri generi di punizione siano innocui per non dire necessari (tre eminenti eccezioni che con grande efficacia hanno descritto tutti i problemi correlati all’intero concetto di punizione sono Thomas Gordon, Haim Ginott e William Glasser).
Nel frattempo diversi operatori dell’infanzia hanno risposto alla più che comprensibile riluttanza di molti genitori nei confronti delle tecniche punitive rinominandole “lezioni”. In certi casi si tratta di una trasformazione puramente semantica, per cui un appellativo più simpatico renderebbe le stesse pratiche meno offensive. A volte, invece, ci viene detto che se la punizione è meno severa, o ricollegabile in modo “logico” a un cattivo comportamento, o ancora spiegata con chiarezza e in anticipo, non è scorretto ricorrervi - e anzi, non dovrebbe neppure essere considerata tale.

Personalmente non me la bevo. Ma, soprattutto, credo che neppure i bambini se la bevano. Se qualcosa di spiacevole lo diventa di certo ancora di più se vi si aggiunge l’imprevedibilità e la mancanza di chiarezza - o se si esagera nella misura o in cattiveria - tuttavia non sono questi i motivi principali per cui le punizioni hanno l’effetto che hanno.
Anticipare a nostro figlio l’intenzione di punirlo (“Guarda che se fai x ti succederà y) ci metterà a posto con la nostra coscienza perché siamo stati corretti ad avvisarlo; ma in realtà non abbiamo fatto altro che minacciarlo, informandolo in anticipo della sofferenza che intendiamo arrecargli se non obbedirà. Quello inviato è un messaggio di sfiducia (“Non credo che sarai in grado di fare la cosa giusta senza il timore di una punizione”) che induce il bambino a credersi capace di obbedire solo per ragioni estrinseche, accentuandone il senso di impotenza. Su di lui si ripercuoteranno tutti i danni previsti dalla logica, dall’esperienza e dalla ricerca nonostante la modifica di questi minimi dettagli, e nonostante che vogliamo chiamare le punizioni in modo diverso6.

A volte ai genitori viene suggerito di mettere i figli in castigo piuttosto che picchiarli - come se fossero le uniche due possibilità a disposizione. In realtà, come si è già visto, entrambi sono metodi punitivi che si distinguono l’uno dall’altro solo per il fatto di recare sofferenza fisica o emotiva. Se dovessimo scegliere tra i due, di certo preferiremmo i castighi alle botte.
Secondo questa logica, picchiare i bambini è meglio che ammazzarli, tuttavia non è un buon motivo per ricorrere agli sculaccioni.
Un’altra versione di quella che si può definire “punizione light” sono le cosiddette “conseguenze naturali”, per cui i genitori vengono invitati a punire i figli attraverso l’inazione - ossia, rifiutando di prestare loro aiuto.
Se il bambino fa tardi a cena, bisognerebbe lasciarlo affamato; se dimentica l’impermeabile a scuola, il giorno dopo prenderà la pioggia. Tutto questo per insegnargli a essere puntuale o meno sbadato. Ma la lezione che gli verrà trasmessa in modo più efficace è che i genitori avrebbero potuto venirgli incontro, ma non l’hanno fatto. Come fanno notare due autori intenti a discutere di questo metodo, “Quando si lascia che accadano fatti spiacevoli
restando a guardare, i bambini restano delusi due volte: perché qualcosa è andato storto e perché il genitore non ha mostrato particolare interesse per lui, non facendo proprio niente per evitare l’incidente. Quella delle ‘conseguenze naturali’ è una vera e propria forma di punizione”7.

Una delle caratteristiche più significative delle punizioni - qualsiasi tipo di punizione - è come esse riescano a innescare un circolo vizioso simile a quello provocato dalla negazione dell’amore o dal rinforzo positivo. Nonostante le volte che un bimbo scoppia a piangere di rabbia o di dolore dopo esser stato punito; nonostante le volte che un intervento punitivo finisce per non arrecare alcun miglioramento (ma anzi, per peggiorare le cose), pensiamo che l’unica soluzione possibile sia tornare a punire - magari rincarando la dose. Interessante notare come alcune ricerche dimostrino che le conseguenze più gravi non siano imputabili all’intervento iniziale del genitore, quanto all’uso della punizione dopo che il bambino non ha obbedito alla richiesta originaria. È l’uso reattivo della punizione, la scelta di ricorrervi dopo essersi già scontrati con il piccolo, a risultare più pericoloso. Perciò è di vitale importanza astenersi dal punire proprio quando ci si riconosce più arrabbiati o frustrati8.
In realtà il circolo vizioso decisivo non è quello scaturito al momento del confronto con il bambino, ma quello che si instaura nel tempo - con il dispiegarsi degli eventi nel corso di molti anni. Le continue punizioni subite dal bambino rischiano di trasformarlo in un adolescente ribelle; eppure continuano a suggerirci di andare avanti, magari con maggior asprezza, con le punizioni: impedendogli di uscire, decurtandogli la paghetta, abusando del nostro potere perché si comporti in modo responsabile. Più il metodo fallisce, più riteniamo che il problema risieda nel figlio e non nel metodo stesso. E se, invece, ci fermiamo a interrogarci su quello che stiamo facendo è solo per concludere che è la nostra applicazione del metodo a essere sbagliata - invece di renderci conto che l’errore è insito nell’idea stessa di far soffrire i figli perché imparino la lezione. Ginott aveva perfettamente ragione: “La colpa e il castigo non sono due opposti che si annullano reciprocamente; al contrario, si nutrono e si rafforzano l’un l’altro”9.

Perché punire non serve

Alla luce dei fatti è ben difficile negare l’inefficacia delle punizioni. 
Più difficile è spiegare con assoluta certezza il perché. Possiamo tuttavia avanzare qualche ipotesi:

− Le PUNIZIONI ESASPERANO. Così come altre forme di controllo, il ricorso alle conseguenze punitive scatena spesso la rabbia del destinatario, con risvolti indubbiamente dolorosi, poiché esso si sente del tutto impotente. L’insegnamento trasmessoci dalla storia delle nazioni richiama quanto gli psicologi ci insegnano sugli individui: l’occasione fa delle vittime carnefici.
− PROPONGONO L'USO DELLA FORZA COME MODELLO. L’esempio offerto dalle punizioni corporali è quello della violenza - ossia, l’uso della forza per la risoluzione dei problemi. Di fatto ogni forma di castigo esprime più o meno lo stesso concetto. Non è detto che i nostri figli imparino la lezione che avevamo in mente quando li abbiamo puniti (“Non fare x mai più”); di certo, però, impareranno che quando le persone a loro più care, i loro modelli di riferimento, hanno una difficoltà, la risolvono ricorrendo alla forza per procurare infelicità all’altro, facendolo così capitolare. Le punizioni non solo suscitano rabbia nel bambino, ma, come afferma un ricercatore “allo stesso tempo gli offrono un modello per sfogare la propria ostilità verso l’esterno”10. In altre parole, insegna che il più forte ha ragione.

− ALLA FINE PERDONO EFFICACIA. Con l’età diventa sempre più difficile trovare punizioni sufficientemente sgradevoli per il bambino (così come diventa ancor più arduo trovare premi sufficientemente allettanti). A un certo punto le minacce cadono a vuoto, e i vari “Stasera non esci!” piuttosto che i “Questa settimana niente paghetta!” perdono il loro effetto. Ciò non significa che i vostri figli siano duri o ostinati, né che abbiate bisogno di una mano per trovare stratagemmi sempre più diabolici per arrecare loro sofferenza. Dovrebbe piuttosto suggerirvi che aiutare i vostri figli a essere persone migliori punendoli se si comportano male è, sin da subito, una strategia del tutto senza senso.
Ponetela in questi termini: quando un bambino piccolo si chiede perché dovrebbe fare il bravo o resistere a certe tentazioni, il genitore può scegliere di ricorrere al rispetto e alla fiducia coltivati amando il figlio in modo incondizionato, spiegandogli in modo ragionevole e persuasivo come un determinato comportamento piuttosto che un altro si ripercuota sugli altri; oppure di passare alla forza nuda e cruda, con un secco “Se non la pianti, ti punisco”. Il rischio insito nel secondo tipo di approccio è che, una volta scemato il potere del genitore - e prima o poi accade - non c’è più nulla a cui aggrapparsi. Come ben espresso da Thomas Gordon: “L’inevitabile risultato dell’uso sistematico della forza per esercitare il controllo sui [vostri] figli ancora piccoli è quello di non imparare mai a essere influenti”. Maggiore è il ricorso alle punizioni, “minore sarà”, quindi, “la [vostra] effettiva influenza sulle loro vite”11.

− DETERIORANO LA RELAZIONE CON I FIGLI. Quando li puniamo, diventa molto difficile per i nostri figli vederci come alleati amorevoli, fattore di vitale importanza per la loro crescita equilibrata. Ai loro occhi diventiamo, piuttosto, inquisitori da evitare. La mente dei più piccoli inizia a svilupparsi intorno a un’immagine di genitori che, giganteschi esseri onnipotenti dai quali dipendono in tutto e per tutto, di quando in quando vogliono apposta la loro infelicità: quei mastodonti che mi cullano tra le loro braccia, nutrendomi e asciugandomi le lacrime con un bacio, a volte si prendono il disturbo di portarmi via le cose che mi piacciono, oppure mi fanno sentire una nullità, o ancora mi percuotono il didietro (anche se mi ripetono che devo sempre “spiegarmi a parole”). Mi dicono che lo fanno perché ho combinato qualcosa, ma quello che so io è che non sono più tanto certo di potermi fidare di loro, e che con loro non mi sento più tanto al sicuro. Sarei sciocco a confessare loro di essere arrabbiato, o di aver combinato un guaio, perché ho imparato che mi prenderei un castigo o che mi parlerebbero con un tono privo della benché minima sfumatura d’amore, o che magari mi rifilerebbero pure un ceffone. È meglio starsene alla larga.

− ALLONTANANO I PICCOLI DALLE CONQUISTE IMPORTANTI. Supponiamo che a un bambino venga detto che, siccome ha appena affibbiato un pugno al fratello, deve andarsi a chiudere in camera senza poter vedere il suo programma preferito. Proviamo a immaginarcelo, seduto sul letto.
Che cosa credete gli passi per la mente? Se pensate che stia riflettendo sul suo comportamento, magari dicendosi molto coscienziosamente “Beh, adesso ho capito che è sbagliato picchiare gli altri” - allora continuate pure a spedire i vostri figli in camera loro dopo che si sono comportati male.
Se invece, come chiunque si sia trovato sul serio a tu per tu con un bimbo vero (magari essendolo pure stato, un tempo), trovate la scenetta tanto ridicola quanto improbabile, perché mai allora ricorrere a questa, o ad altre punizioni? L’idea che i castighi siano una tecnica disciplinare accettabile perché offre l’opportunità di riflettere sulle proprie azioni si basa su una premessa irrealistica e assurda. Più in generale, le punizioni non spingono affatto il bambino a concentrarsi sul proprio comportamento, e ancor meno a chiedersi il perché delle proprie azioni o che cosa avrebbe potuto fare in alternativa; esse lo inducono, al contrario, a riflettere sulla meschinità dei genitori e forse su come vendicarsi (dei coetanei che lo hanno messo nei pasticci).

Il bambino si concentra, soprattutto, sulla punizione: su quanto sia stata ingiusta e su come riuscire a evitarla in futuro. Punire i figli - minacciandoli che lo farete ancora ogni volta che vi contrarieranno - è il sistema perfetto di affinare la loro capacità di farla franca. Dite a un bimbo: “Non farti più beccare a combinare una cosa simile” e lui penserà “Va bene, la prossima volta non mi beccherai”. Oltre a costituire un ottimo incentivo a mentire. (Per contro, i bambini che non subiscono punizioni hanno meno paura di prendersi la responsabilità delle proprie azioni). Eppure la reazione dei genitori punitivi di fronte alla prevedibile disonestà che la disciplina tradizionale comporta - “Non sono stato io! Non sono stato io, era già rotto!” - non sarà quella di mettere in dubbio il ricorso alla punizione, ma di punire ulteriormente il bimbo perché ha mentito.

− AUMENTA L'EGOCENTRISMO DEL BAMBINO. Il termine lezione viene masticato con grande frequenza, non solo come eufemismo di punizione, ma anche come sua giustificazione - ad esempio quando si dice che “I bambini devono imparare la lezione”. Ma riguardo chi? La risposta che si evince da ogni forma di punizione è: riguardo le conseguenze per se stessi. L’attenzione del bambino resta fissa su quali saranno le conseguenze personali dell’infrazione a una regola o della ribellione all’adulto - ossia, quali saranno le conseguenze che dovrà subire se viene scoperto.
In altre parole con le punizioni spingiamo un bambino a chiedersi:
“Cosa vogliono (gli adulti che detengono il potere) che faccia, e cosa mi faranno se disobbedisco?” Da notare come questa sia l’altra faccia dell’interrogativo che sorge allorquando, in famiglia o a scuola, i bambini vengono premiati quando fanno i bravi: “Cosa vogliono che faccia, e cosa riceverò se lo faccio?”. Sono entrambe domande legate all’interesse personale, entrambe del tutto distanti da quanto desidereremmo che i nostri figli si chiedessero, ossia: “Che tipo di persona vorrei diventare?”.

Non c’è quindi da stupirsi se due ricercatori, una volta scoperto che le punizioni interferiscono sulla crescita morale del bambino, abbiano dato un senso ai dati reperiti sottolineando come i castighi “dirigono il bambino sulle conseguenze del suo comportamento subite dall’attore, ossia dal bambino stesso”12. Più ricorriamo alle punizioni, tra cui i castighi - o ai premi, come le lodi - meno i nostri figli si interrogheranno sulle conseguenze delle loro azioni per gli altri. (Al contrario, è facile che mettano in atto una valutazione costi-benefici - soppesando il rischio di essere scoperti e puniti con i vantaggi di fare tutto quello che non dovrebbero).
Atteggiamenti questi - calcolare i rischi, trovare il modo di non essere scoperti, mentire per difendersi - che hanno un senso dal punto di vista del bambino, e risultano assolutamente razionali. Non sono, invece, morali, perché le punizioni - tutti i tipi di punizione - impediscono il pensiero morale. Perciò quando i difensori della disciplina convenzionale ribadiscono che i ragazzi subiranno le conseguenze del proprio comportamento una volta “nel mondo reale”, la reazione più sensata sarebbe quella di domandare loro quale adulto, nel mondo reale, si asterrebbe da una condotta immorale se non quando risulterebbe lui a pagarne il prezzo (se viene scoperto). La risposta sarebbe: l’adulto che non vorremmo mai diventassero i nostri figli.
La tesi fin qui sostenuta è di ordine sostanzialmente pratico. Secondo ogni ragionevole logica le punizioni non funzionano e basta, quindi non è realistico aspettarsi che le cose cambino con una dose maggiore (o un diverso tipo) di castighi. Ma cosa rispondere ai genitori che ribattono sostenendo che con spiegazioni, ragionamenti e comprensione non si ottengono che risultati molto limitati, per cui si rende necessario “mettere più forza” in quello che viene detto, “attirando l’attenzione” dei figli dando loro una lezione?
Per prima cosa si noti come tale principio si basi sul presupposto che senza l’aggiunta di qualche metodo coercitivo i bambini tendono a ignorare le persone più importanti della loro vita. È dura dimostrarlo. Certo qualche volta i nostri figli ignorano certe nostre richieste, dando prova di notevole capacità di ascolto selettivo quando vengono chiamati a cena o invitati a lavarsi. Tuttavia ciò non significa che siano totalmente impermeabili alle nostre parole e ai nostri gesti; anzi, anche le parole del più rispettoso dei genitori - o forse sarebbe meglio dire soprattutto le parole del più rispettoso dei genitori - hanno un peso enorme proprio per la persona che le pronuncia.

Allora qualcuno oserebbe ribattere che minacce e punizioni catturino l’attenzione dei bambini in modo diverso? Sì, ma in un modo spaventosamente controproducente. Le caratteristiche principali delle punizioni, quelle che le rendono impossibili da ignorare anche solo virtualmente, dimostrano che non possono produrre nulla di buono. Quello che attira l’attenzione del bambino, in questo caso, è il dolore, oltre al fatto che è qualcuno da cui dipende in tutto e per tutto a procurarglielo. È quindi assai improbabile che tale modalità sortisca l’effetto auspicato dai più.
Alcuni genitori razionalizzano il ricorso alle punizioni sostenendo di voler davvero molto bene ai loro figli. Nessuno ne dubita, tuttavia risulta piuttosto destabilizzante per i figli: è difficile comprendere come persone che hanno così tanta cura di te di tanto in tanto ti procurino tanta sofferenza. Ciò rischia di instillare l’idea malsana, che certi bambini portano con sé per tutta la vita, che fare del male alle persone faccia parte del bene che si vuole loro. Oppure può semplicemente trasmettere il messaggio che l’amore è sempre e solo condizionato, e che dura fintanto che si fa tutto quello che gli altri vogliono da noi.
Ulteriore razionalizzazione è quella secondo cui le punizioni non sono deleterie se inflitte per una buona ragione e se se ne spiega la ragione al bambino. In realtà le spiegazioni non riducono gli effetti negativi delle punizioni tanto quanto le punizioni riducono gli effetti positivi delle spiegazioni13.

Immaginate di parlare a vostra figlia cercando di spiegarle come le sue azioni influiscano sui sentimenti degli altri. Le direste: “Annie, quando hai strappato il lego dalle mani di Jeffrey, l’hai fatto restare male perché adesso non può più giocarci”. Ma che succederebbe se aveste pure l’abitudine di punirla per certi gesti? I benefici della spiegazione verrebbero immediatamente cancellati. Se Annie sapesse per esperienza che le toccherebbe di andarsi a sedere in castigo o di dover subire qualcosa di sgradevole, non penserebbe affatto a Jeffrey.
Sarebbe solo preoccupata per sé, e più saprà di dover stare in ansia per la possibile punizione, meno sarà in grado di trarre utili insegnamenti morali.

Se si uniscono i concetti espressi in questo capitolo con quanto sostenuto nel capitolo II, emerge in modo chiaro uno schema generale: quanto descritto in termini di “imposizione”, ivi incluso l’amore condizionato, si esplica, in pratica, in un continuum come questo:


Con questo non intendo dire che picchiare un figlio e dirgli “Bravo!” siano moralmente equivalenti. Tuttavia risultano ricollegabili da un punto di vista concettuale. Mi rivolgo a ognuno di questi sistemi e ai princìpi che li legano. Secondo la mia esperienza è difficile che i genitori valutino l’alternativa della “collaborazione” fintanto che ritengono sufficiente attingere a una delle opzioni di “imposizione” a sinistra del diagramma. Ecco il motivo per cui mi sono dilungato nel sottolineare l’importanza di un rifiuto totale del modello.
In realtà mi sono altresì preoccupato di mettere in dubbio un altro approccio che chiamerei “più ce n’è, meglio è”. Si tratta della tendenza a rifiutare il principio per cui un particolare sistema educativo non va bene e debba quindi essere sostituito da un altro. “E perché non entrambi?” si chiederanno alcuni. “Non c’è motivo di buttare tutto via. Quel che funziona, usatelo”.
Tanto per iniziare, bisognerebbe controbattere con un “Funziona per che cosa - e a quale prezzo?” Ma il vero problema è che, a volte, metodi diversi danno effetti che si annullano. L’uno rischia di cancellare i benefici dell’altro; per cui le conseguenze delle punizioni possono mettere a repentaglio i risultati di un buon sistema educativo se si ricorre a entrambi i metodi14.
Come dice il proverbio, confermato da generazioni di agricoltori e droghieri: una mela marcia guasta tutte le altre. Alla stessa stregua si potrebbe supporre l’esistenza di un etilene psicologico rilasciato dalla disciplina convenzionale, del tutto simile al gas prodotto dalla frutta andata a male.
Parrebbe proprio che la ricerca dei risultati ottimali implichi l’abbandono di determinati metodi piuttosto che limitarsi a pescarne altri, migliori, in cima al mucchio. È necessario liberarsi della robaccia, quali punizioni e premi, affinché quella buona dia i suoi frutti15.

Amarli senza se e senza ma
Amarli senza se e senza ma
Alfie Kohn
Dalla logica dei premi e delle punizioni a quella dell’amore e della ragione.Un classico dell’amore incondizionato. Come crescere i figli eliminando finalmente i piccoli ricatti, le minacce, le promesse e i premi. Crescere un figlio non è un gioco da ragazzi!Diventare genitori è un esame costante sulle capacità di affrontare disordine e imprevedibilità, un ruolo per cui non ci si può preparare davvero.Una delle difficoltà maggiori è la tentazione di domare l’atteggiamento di opposizione dei figli alle nostre richieste, rischiando di trasformarli in burattini addomesticati o, al contrario, di provocare danni approvando tutto ciò che dicono e fanno.Allora, come farsi obbedire dai propri figli?Sistemi educativi quali punizioni, castighi, premi e altre forme di controllo inducono i nostri figli a credere di essere amati solo se ci compiacciono o ci colpiscono in modo favorevole.Nel suo libro Alfie Kohn si allontana dai messaggi veicolati da certi metodi convenzionali e ribalta la prospettiva, chiedendosi quali siano i bisogni dei nostri figli e come possiamo soddisfarli.L’autore suggerisce una serie di idee per allontanarsi da metodi abituali che prevedono l’imposizione di qualcosa ai bambini, per approcciarsi a modalità che portino invece alla collaborazione con loro.Amarli senza se e senza ma risponde a una domanda cruciale: le nostre azioni quotidiane possono contribuire a rendere nostro figlio l’adulto che vorremmo?Consigli utili affinché il bambino possa aspirare a diventare un adulto sano, responsabile ma allo stesso tempo sensibile e premuroso.Un libro rivoluzionario e illuminante per diventare a tutti gli effetti genitori senza se e senza ma, poiché uno dei bisogni fondamentali del bambino è proprio essere amato in maniera incondizionata ed essere accettato anche quando combina guai o fallisce: in sintesi, essere amato per quello che è e non per quello che fa. Conosci l’autore Alfie Kohn ha pubblicato diversi libri, tra cui Punished by Rewards e The Schools Our Children Deserve, che hanno dato un forte contributo all’operato di educatori e genitori. Vive con la famiglia nei pressi di Boston, dove tiene conferenze e seminari, ed è raggiungibile sul web all’indirizzo www.alfiekohn.org.