CAPITOLO II

Amore concesso e amore negato

Con i primi studi scientifici sulla disciplina, condotti negli anni Cinquanta e Sessanta, si tendeva a classificare i metodi utilizzati dai genitori con i propri figli a seconda che fossero basati sulla forza o sull’amore. La disciplina basata sulla forza prevedeva percosse, minacce e urla. La disciplina basata sull’amore contemplava tutto il resto. I primi dati disponibili dimostrarono ben presto come con la forza si ottenessero minori risultati che con l’amore.
Purtroppo a quest’ultimo tipo di approccio erano stati affibbiati una quantità inverosimile di metodi tra i più disparati. Alcuni prevedevano un dialogo costruttivo con i propri figli, calore e comprensione; altri, al contrario, risultavano assai meno gentili. Di fatto tra essi figuravano sistemi che consistevano nel controllo attraverso l’amore, negato se i bambini facevano i cattivi, o elargito con profusione di affetto e di attenzioni se facevano i bravi. Ecco le due facce dell’approccio condizionato: “amore negato” (il bastone) e “rinforzo positivo” (la carota). In questo capitolo mi propongo di analizzare come entrambi gli aspetti si traducano nella pratica, gli effetti da essi prodotti e i motivi di tali effetti. Mi soffermerò, quindi, più in dettaglio sul concetto di punizione.

Metterlo in castigo è allontanarlo dal vostro amore

Così come ogni altra cosa, anche l’amore negato è applicabile con diverse modalità e con svariati livelli di intensità. In una scala da uno a dieci, a “uno” il genitore manifesta, come reazione a quanto combinato dal figlio, un distacco appena percettibile, con una minore affettuosità o una maggior freddezza di cui, forse, non è neppure consapevole; a “dieci”, il genitore, secco, sbotta: “Se ti comporti così non ti voglio più bene”, oppure “Quando fai così non ti voglio vicino a me”.
Certi genitori negano il proprio amore anche soltanto rifiutando di rispondere al figlio - ossia ignorandolo di proposito. Senza dirlo espressamente, il messaggio da loro inviato risulta piuttosto chiaro: “Se fai delle cose che non mi vanno, non ti guardo più. Anzi, farò finta che non ci sei. Se vuoi che torni a considerarti, ti conviene obbedire”.

Altri ancora si allontanano fisicamente dal bimbo, secondo due distinte modalità: o uscendo dalla stanza (lasciando il piccolo che, nel panico, chiama tra i singhiozzi: “Mamma vieni qui, mamma vieni qui!”), o mandando il bambino in camera sua o in un’altra stanza, da solo. Tecnica che potrebbe prendere il nome - appropriato - di isolamento coatto. Trattandosi tuttavia di una definizione che rischia di suscitare un certo disagio, si preferisce ricorrere a un termine differente, che consenta ai genitori di nascondersi quanto, di fatto, avviene. L’eufemismo scelto, che avrete di certo già indovinato, è mettere in castigo1.
Nella realtà questa diffusissima tecnica punitiva è una versione della negazione dell’amore - per lo meno quando prevede l’allontanamento del bambino contro la sua volontà. Non c’è nulla di male nell’offrire la possibilità di ritirarsi nella propria stanza, o in altro luogo altrettanto piacevole, se il piccolo è triste o arrabbiato. Se ha scelto di starsene un po’ per conto suo, e se le modalità (quando allontanarsi, dove andare, cosa fare, quando ritornare) sono sotto il suo controllo, l’esperienza non viene vissuta come punizione o esilio, e spesso risulta vantaggiosa. Non è di questo che parlo, ma del castigo nella sua accezione più comune, quella della sentenza pronunciata dal genitore: isolamento.

Un prima indicazione per comprendere la natura di tale tecnica ci deriva dall’origine del termine. Time-out2 è, in realtà, l’abbreviazione di time out from positive reinforcement3, pratica sviluppata quasi mezzo secolo fa per l’addestramento delle cavie da laboratorio. Durante un esperimento, condotto da Skinner e dal suo staff, che aveva lo scopo di insegnare ad alcuni piccioni a beccare su certi tasti in risposta a determinati segnali luminosi, i ricercatori si scervellavano dietro a una serie di schemi che prevedevano l’offerta di cibo come premio per aver fatto quanto previsto dall’esperimento.

A volte gli uccelli venivano persino puniti con la negazione del cibo, o l’improvviso spegnimento delle luci, per verificare se ciò determinasse lo “spegnimento” del comportamento appreso. L’esperimento venne ripetuto con altre bestiole e a quel punto, nel 1958, un collega di Skinner pubblicò un articolo intitolato “Controllo del comportamento di scimpanzè e piccioni mediante sospensione4 del rinforzo positivo”.
Di lì a pochi anni la stessa rivista di psicologia sperimentale pubblicò altri articoli con titoli del tipo “Durata del castigo5 e soppressione dei comportamenti devianti nel bambino”. In questo particolare studio i bambini sottoposti a time out venivano descritti come “internati affetti da turbe psichiche e da ritardo mentale”. Presto però tale pratica venne prescritta indiscriminatamente, tanto che anche gli specialisti che prima sarebbero rimasti inorriditi all’idea di trattare i bambini alla stregua di cavie da laboratorio, ora consigliavano caldamente a tutti i genitori di mettere i propri figli in castigo quando si comportavano male. In men che non si dica quello del castigo diventò “il metodo punitivo più raccomandato dalla letteratura professionale sui preadolescenti”6.
Sto parlando di una tecnica, quindi, in origine adottata per il controllo del comportamento animale. Tre parole che possono, tutte, suscitare scomodi interrogativi. Quello legato al secondo termine è già stato posto: il nostro interesse dovrebbe limitarsi al comportamento? Mettere in castigo è, come tutti i premi e le punizioni, un metodo che tocca solo la superficie; concepito unicamente per indurre un organismo ad agire (o a smettere di agire) in un determinato modo.
Il terzo termine, animale, ci ricorda che i comportamentisti, inventori del time out, consideravano gli esseri umani non molto diversi dalle altre specie. “Produciamo” comportamenti più complessi, ad esempio il linguaggio, ma si ritiene che i princìpi dell’apprendimento siano pressappoco gli stessi. Chi non condivide tale punto di vista potrebbe avere ripensamenti riguardo l’eventualità di sottoporre i propri figli a tecniche elaborate pensando a uccelli e roditori.
Infine resta l’interrogativo che ha dato ispirazione a questo libro: ha senso crescere i nostri figli basandosi su un modello di controllo?

Quand’anche l’origine storica e teoretica della frase non vi suscitasse alcun disagio, provate a rileggerla nella sua forma originaria: sospensione del rinforzo positivo. Non mi pare che i genitori stian sempre lì a offrire figurine o caramelle ai propri figli per poi, di colpo, decidere di smettere.
Quindi che cosa si intende di preciso per ‘rinforzo positivo sospeso’ nel momento in cui il bambino viene messo in castigo? Talvolta è un’attività divertente a dover essere interrotta, ma non è sempre così; e anche in quel
caso, c’è qualcosa di ben più grosso in ballo. Quando allontanate vostro figlio, a essere effettivamente interrotta o negata è la vostra presenza, la vostra attenzione, il vostro amore. Forse non ci avete mai pensato in questi termini, e anzi magari insisterete con il ribadire che il bene per lui non viene meno a causa del suo cattivo comportamento. Tuttavia abbiamo già spiegato che a contare è il punto di vista del bambino.

Conseguenze della negazione dell’amore

Fra qualche capitolo mi soffermerò sulle alternative ai castighi, ma adesso riprendiamo con maggior attenzione il concetto di negazione dell’amore.
Molti si chiederanno innanzitutto se è un metodo che funziona, ma, ripeto, la questione è più complessa di quanto sembri. Bisognerebbe chiedersi:
“Funzionare per ottenere che cosa?”, e vagliare ogni cambiamento comportamentale rispetto al rischio di provocare danni di maggiore entità e durata.
In altre parole dovremmo andare oltre gli obiettivi a breve termine, soffermandoci al contempo su quanto si nasconda sotto l’apparenza di un comportamento. Ricordate come lo studio condotto sugli studenti universitari descritto nel capitolo precedente abbia dimostrato che l’amore condizionato è in grado di cambiare il comportamento di un bambino, ma a un prezzo molto elevato. Ecco, lo stesso vale anche nel caso della negazione dell’amore.
Vorrei sottoporvi il racconto della madre di un bimbo che chiameremo Lee:

Qualche tempo fa ho scoperto che, appena Lee iniziava a comportarsi male, non c’era bisogno di minacciarlo di togliergli qualche privilegio, né di alzare la voce: bastava avvertirlo in tono pacato della mia intenzione di uscire dalla stanza. A volte mi limitavo ad allontanarmi da lui, dicendogli che avrei aspettato fintanto che non avesse smesso di urlare o di disobbedire; e il più delle volte funzionava alla perfezione. Lee supplicava “No, no!” e subito si calmava e faceva quello che gli dicevo. All’inizio la morale che ne avevo tratto era che non c’era bisogno di andarci con la mano pesante: riuscivo a ottenere quello che volevo senza arrivare a punirlo. In realtà proprio non riuscivo a smettere di pensare al terrore negli occhi di mio figlio. Capii che il mio modo di fare era, di fatto, una punizione per Lee - simbolica, certo, ma davvero terrificante.

Un autorevole studio sull’efficacia della negazione dell’amore conferma, in sostanza, le conclusioni a cui è giunta questa madre: a volte sembra funzionare, ma ciò non significa che si debba ricorrervi. Nei primi anni Ottanta due ricercatori del National Institute of Mental Health (NIMH) hanno studiato il comportamento di madri con bambini di circa dodici mesi: ne è risultato che la negazione dell’amore - ignorando il bimbo volontariamente o costringendolo alla separazione - veniva di norma associata ad altri sistemi.
A prescindere dai metodi alternativi scelti - dai baci alle spiegazioni - il ricorso alla negazione dell’amore faceva sì che risultasse più facile che i piccoli obbedissero ai desideri della mamma, almeno temporaneamente.

Quanto rilevato fu, in realtà, più preoccupante che rassicurante, tanto che i due ricercatori ci tennero a precisare che non intendevano consigliare il ricorso alla negazione dell’amore; prima di tutto sottolineando che “le tecniche punitive utili ad assicurare l’immediata obbedienza non risultano necessariamente utili …a lungo andare”; osservando, poi, che “i bambini tendono a reagire alla negazione dell’amore con modalità interpretate dai genitori come ulteriori motivi di punizione”. Un circolo vizioso in cui il pianto e le proteste del bambino determinano un’ulteriore negazione dell’amore con un’esasperazione del pianto e delle proteste, e così via. Infine, quand’anche tale tecnica riusciva a produrre i risultati auspicati, i ricercatori parevano turbati dal perché della riuscita7.
Molti anni fa lo psicologo Martin Hoffman, interrogandosi sulla distinzione tra disciplina basata sul potere e disciplina basata sull’amore, faceva notare come la negazione dell’amore, tipico esempio di quest’ultima, avesse in realtà molti punti in comune con tecniche punitive più severe.
In entrambi i casi il messaggio recepito dal bambino è che se fa delle cose che non ci piacciono, gli faremo cambiare atteggiamento infliggendogli una sofferenza (resta da chiedersi come gli verrà inflitta tale sofferenza: procurandogli dolore fisico con le percosse, oppure dolore emotivo con l’isolamento coatto?). E sempre in entrambi i casi si spinge il bambino a considerare le conseguenze del proprio comportamento su se stesso; che è molto diverso dall’educare i figli a valutare quali conseguenze abbia il loro comportamento sugli altri.

A questo punto Hoffman si spinge oltre, con un’affermazione ancor più sorprendente: in certi casi la negazione dell’amore può risultare ben più dannosa di altre, in apparenza più crudeli, forme di punizione. “Per quanto non comporti un’immediata minaccia fisica o materiale per il bambino”, spiega, la negazione dell’amore “può essere emotivamente più devastante dell’esercizio della forza, poiché implica la minaccia estrema dell’abbandono o della separazione”. Inoltre “se il genitore sa che smetterà, il bambino molto piccolo non è in grado di saperlo perché del tutto dipendente da lui e perché privo dell’esperienza e della prospettiva temporale necessarie a cogliere la natura temporanea dell’atteggiamento del genitore”8.
Anche quei bambini in grado di capire che mamma e papà torneranno a rivolgere loro la parola (o che il castigo finirà presto) rischiano di non superare mai completamente le conseguenze di una punizione simile. I metodi che prevedono la negazione dell’amore mettono in atto un processo che rende il comportamento del bambino più accettabile per l’adulto, tuttavia il meccanismo che innesca tale processo è la profonda “ansia per la possibile perdita dell’amore parentale”, conclude Hoffman9.
Ecco il motivo dell’esitazione degli stessi ricercatori del NIMH, che avevano scoperto come la negazione dell’amore producesse un’obbedienza solo temporanea. Un altro gruppo di psicologi nota altresì che questo genere di punizione tende a “lasciare il bambino in uno stato di disagio emotivo più prolungato” che non le sculacciate10.
Non vi è grande disponibilità di ricerche scientifiche riguardo la negazione dell’amore, tuttavia i pochi risultati reperibili si sono dimostrati sgradevolmente omogenei. I piccoli sottoposti a tale punizione tendono ad avere una minor autostima, mostrando sintomi generali di scarso benessere emotivo e una maggior tendenza a una condotta delinquenziale.

Se si prende in esame una categoria più ampia di “controllo psicologico” esercitato dai genitori (di cui la negazione dell’amore viene definita “tratto distintivo”), i bambini più grandi a esso sottoposti sono a maggior rischio di depressione rispetto ai coetanei11.
Non c’è da stupirsi: un genitore ha il considerevole potere di “manipolare i figli attraverso il bisogno dell’affetto e dell’approvazione parentali e il timore della perdita del sostegno emotivo dei genitori”12. Non si tratta, tuttavia, di una paura tipo quella del buio, che in genere viene superata, piuttosto di una forma di paura che può risultare tanto persistente quanto devastante.
Niente è più importante, quando si è piccoli, di cosa provano per noi i nostri genitori. La mancanza di certezze in questo senso, o il terrore di essere abbandonati, possono lasciare il segno persino nella nostra vita di adulti.

Ha senso, quindi, affermare che l’effetto a lungo termine più evidente della negazione dell’amore è la paura. Anche in età adulta gli individui che hanno subìto tale trattamento da parte dei genitori tendono a sentirsi stranamente ansiosi. È possibile che abbiano timore di manifestare la rabbia; hanno la tendenza a mostrare una forte paura del fallimento; i legami instaurati da adulti potrebbero essere compromessi dal bisogno di evitare l’attaccamento - forse perché terrorizzati dall’eventualità di un nuovo abbandono (dopo aver subìto la negazione dell’amore da bambini, da adulti spesso “decidono in sostanza che ‘è impossibile rispettare i termini del contratto’. Avendo perso la speranza di riuscire a ottenere la necessaria approvazione e il necessario sostegno dei genitori, [adesso cercano di] strutturare la propria vita in modo tale da non dover dipendere dalla protezione e dal benessere emotivo provenienti dagli altri”)13.

Con ciò non intendo insinuare che avete rovinato per sempre vostro figlio solo perché una volta, quando aveva quattro anni, l’avete spedito in camera sua. Tuttavia le conseguenze appena elencate non mi son saltate in mente sotto la doccia. Non si tratta né di congetture, né di aneddoti da terapeuti. Studi accreditati ricollegano in modo preciso certe paure all’utilizzo, da parte dei genitori, della negazione dell’amore. Questi dati risultano quasi del tutto ignorati dai manuali per genitori, ma il loro effetto cumulativo va preso sul serio.

A tale proposito, vale la pena soffermarsi su un ulteriore aspetto: le conseguenze sullo sviluppo morale dei figli. Secondo uno studio condotto da Hoffman su un campione di ragazzini di seconda media, il ricorso alla negazione dell’amore comportava un livello più basso di moralità. Nel decidere come comportarsi con gli altri, i ragazzini non tenevano conto di particolari circostanze, né delle specifiche esigenze di un determinato individuo. Avendo, al contrario, imparato a fare ciò che veniva loro detto per non rischiare di perdere l’amore dei genitori, mostravano la tendenza a seguire le regole secondo uno schema rigido, valido per tutto14. Se intendiamo aiutare sul serio i nostri figli a diventare adulti comprensivi e psicologicamente equilibrati, dobbiamo renderci conto che sarà dura riuscirci con gli ingredienti della negazione dell’amore - o, come vedremo più avanti, di qualsiasi altra forma di punizione.

Il fallimento dei premi

Non vi sconvolge leggere che castighi e altri sistemi punitivi più “dolci” forse non sono poi così tanto innocui? Allora preparatevi, perché l’altra faccia della negazione dell’amore - ossia il secondo metodo educativo legato all’amore condizionato - non è altro che il rinforzo positivo, approccio che gode di ampia popolarità presso i genitori, gli insegnanti e tutti coloro che dedicano il proprio tempo ai bambini. Persino chi ci mette in guardia contro i danni involontari della disciplina punitiva in genere non ci pensa due volte a esortarci a premiare i nostri figli quando fanno i bravi.
A questo punto sarà bene contestualizzare15. Nella nostra società, al lavoro, a scuola e in famiglia esistono essenzialmente due sistemi per far sì che chi ha più potere riesca a ottenere l’obbedienza di chi ne ha meno.
Il primo è punire la disobbedienza. Il secondo premiare l’obbedienza. Il premio può essere in denaro o sotto forma di privilegio, una stelletta d’oro o una caramella; una figurina o una chiave Phi Beta Kappa16; ma anche la lode. Quindi, per comprendere il significato che assume l’esclamazione “Bravo!” per vostro figlio, è bene che capiate l’intera filosofia del bastone e della carota che a essa sottende.

La prima cosa da recepire è che i premi si sono dimostrati del tutto inefficaci nell’ottenimento di migliori risultati a scuola e nel lavoro. Un nutrito numero di studi dimostra che i bambini, così come gli adulti, hanno una minor riuscita nelle attività loro proposte quando viene loro offerta la prospettiva di un premio per lo svolgimento - o il buono svolgimento - di un compito. In effetti, i ricercatori che per primi hanno ottenuto tali risultati rimasero spiazzati: erano convinti che ogni sorta di incentivo al raggiungimento dei più alti traguardi sarebbe stata un’ulteriore spinta a fare meglio; in realtà i dati continuavano a dimostrare il contrario: i risultati di tali ricerche ribadivano ad esempio che, a parità di condizioni, gli studenti tendono ad apprendere in modo più efficace quando non vi è la prospettiva di un “ottimo” - ovvero quando in classe la resa degli studenti non viene classificata con voti o giudizi.
E se ci concentrassimo di più sui comportamenti e le qualità piuttosto che sui risultati? Certo saremmo costretti a riconoscere che i premi - al pari delle punizioni - spesso permettono di ottenere un’obbedienza provvisoria. Se vi offrissi a bruciapelo un migliaio di euro per togliervi le scarpe, accettereste di buon grado - e io potrei affermare trionfante che “i premi funzionano”. Tuttavia né i premi, né le punizioni saranno mai in grado di favorire lo sviluppo dell’impegno verso un determinato compito o una determinata azione, cioè la motivazione a svolgere quel compito anche in assenza di ricompense.

In realtà, esperimento dopo esperimento, si è giunti a dimostrare che i premi non solo risultano inefficaci, ma spesso persino controproducenti. Si è scoperto, infatti, come i bambini premiati per aver fatto una buona azione difficilmente si ritengano persone buone ma, anzi, tendano ad attribuire il proprio comportamento alla ricompensa. Quindi, senza dolcetti in cambio, è molto probabile che siano meno collaborativi di quei bambini a cui non è mai stato promesso alcun premio. Saranno meno collaborativi di quanto non lo siano di natura. Dopo tutto hanno imparato che il motivo per cui andare incontro al prossimo è essere premiati.
In poche parole promettere a un bambino la “caramella” perché si comporti come vogliamo noi risulta quasi sempre controproducente. Non perché gli abbiamo dato la caramella sbagliata, o perché non lo abbiamo fatto al momento giusto, ma perché è l’idea stessa di voler cambiare le persone premiandole (o punendole) a essere sbagliata. Non è sempre facile per un genitore individuare dove stia l’errore. Ecco perché mi capita spesso di raccogliere le confidenze di chi si sente vagamente a disagio nel premiare il figlio, senza però riuscire a riconoscere la fonte del disagio.

Ecco come capire dove sta l’errore: gran parte di noi ritiene che esista una cosa chiamata “motivazione”, e che se ne può avere molta, poca, o per nulla. Naturalmente ci auguriamo che i nostri figli ne posseggano inesauribili scorte, il che significa che li vorremmo motivatissimi, ad esempio, nel fare i compiti o nel comportarsi responsabilmente.
Il problema è che, in realtà, esistono vari tipi di motivazione: gli psicologi li dividono in intrinseca ed estrinseca. La motivazione intrinseca è, in pratica, quella per cui l’amore per quello che si fa è fine a se stesso.
La motivazione estrinseca, al contrario, è quella per cui quello che si fa ha un altro fine - ottenere un premio o evitare una punizione. C’è differenza tra leggere un libro perché si desidera scoprire cosa accadrà nel capitolo successivo e leggerlo perché ci è stata promessa una figurina o una pizza.

Il punto non è solo riconoscere che la motivazione estrinseca è diversa dalla motivazione intrinseca, o che la prima è inferiore rispetto alla seconda, per quanto tali affermazioni siano corrette. Quel che voglio sottolineare è che la motivazione estrinseca rischia di corrodere la motivazione intrinseca: aumentando la prima, diminuisce la seconda. Più si viene premiati per fare qualcosa, più diventa facile perdere interesse in quello che si deve fare per ottenere il premio. È chiaro che riassumere in un’unica frase una scoperta psicologica comporta sempre qualche eccezione e riserva; tuttavia l’assunto di base è confermato da un gran numero di studi condotti su individui di età, razza, cultura diverse - a cui sono stati proposti compiti e premi diversi17.

Non c’è da stupirsi, quindi, che i bimbi premiati per rendersi disponibili non saranno più tanto disponibili quando non ci saranno più premi. E si potrebbero elencare altri esempi ancora: offrite a un bambino una bevanda a lui sconosciuta; quelli a cui si promette una ricompensa per berla tutta, la settimana successiva la troveranno meno buona di quei bambini che l’avranno trangugiata senza la promessa di una ricompensa. O ancora, pagate un bambino perché risolva un enigma, e lo vedrete smettere non appena si interrompe l’esperimento - mentre chi non ha ricevuto soldi continuerà per tutto il tempo che ne avrà voglia.
Morale della favola: non importa quanto siano motivati i vostri figli (nell’usare il vasino, nel suonare il pianoforte, nello studio); in realtà la domanda da porsi è come siano motivati. In altri termini, non è la quantità di motivazione a essere determinante, ma il tipo. Quella generata dai premi ha spesso l’effetto di ridurre la forma di motivazione che desidereremmo nei nostri figli: un genuino interesse che perduri molto oltre la fine della ricompensa.

Rinforzo non tanto positivo

Ed ecco le notizie davvero brutte: ciò che vale per i premi tangibili (cibo o denaro) e simbolici (voti o stellette d’oro) spesso vale anche per le  ratificazioni verbali. In molti casi i risultati ottenuti con le lodi sono deludenti quanto quelli prodotti offrendo a un bambino dolciumi di ogni tipo.
Per incominciare, i “Bravo!” rischiano di interferire con l’effettiva buona riuscita del compito. Le ricerche confermano che individui elogiati per aver svolto bene un compito di tipo creativo spesso cadono alla prova successiva.
Perché? In parte perché la lode determina una pressione a “continuare a far bene”, impedendo di riuscirci; in parte perché l’interesse in quello che si fa può essere venuto meno (in quel momento, infatti, l’obiettivo principale è ricevere sempre più lodi)18. In parte perché, concentrati su come continuare a ottenere riscontri positivi, sono meno disposti a correre rischi, il che è requisito essenziale della creatività.
Il rinforzo positivo tende a non funzionare neppure per gli esiti diversi dal successo. Così come altri premi e punizioni, il massimo che riesce a ottenere è la temporanea alterazione del comportamento del bambino.
Ad esempio i bambini elogiati per aver bevuto la bevanda sconosciuta di cui sopra, alla fine l’hanno trovata assai meno buona - proprio come quei bambini che, per trangugiarla, avevano ricevuto gratificazioni tangibili (quest’ultima ricerca, tuttavia, non prevedeva un esito simile: si riteneva che le lodi non sarebbero state tanto deleterie quanto le altre forme di induzione estrinseca).

Ancor più inquietante è il risultato di uno studio secondo cui i bambini spesso elogiati dai genitori per le loro manifestazioni di generosità tendevano a essere assai meno generosi nella vita quotidiana rispetto ad altri bambini - ripeto, proprio come i destinatari delle gratificazioni tangibili.
Ogni volta che veniva rivolto loro un “Che bel gesto!” o “Sono così fiera dell’aiuto che dài”, ecco che perdevano interesse nel ripetere il gesto o nell’essere d’aiuto. Quelle azioni non venivano più considerate pregevoli per il loro valore, ma gesti dovuti per suscitare la stessa reazione nell’adulto.
Nel caso specifico la generosità non rappresentava altro che il mezzo per raggiungere uno scopo. Altrimenti il rinforzo positivo potrebbe derivare da un disegno, dal nuoto, dalle moltiplicazioni…

La lode, così come altri tipi di gratificazione, riflette in genere la preoccupazione per il comportamento - la medesima eredità lasciata dal comportamentismo di cui si è già parlato. Nel momento in cui ci si concentra
sui motivi che sottendono a un gesto risulta subito chiaro l’esito potenzialmente fallimentare del rinforzo positivo. D’altronde se è nostra intenzione fare di nostro figlio un adulto davvero generoso, non può bastarci sapere se abbia o no fatto qualcosa di generoso. Vorremmo sapere perché.
Prendiamo Jack: condivide il suo giocattolo con un amichetto nella speranza che mamma lo noti e lo ricopra di elogi (“È bello che tu faccia giocare con te anche Gregory”); poi, prendiamo Zack: condivide il giocattolo senza sapere, e magari senza preoccuparsene, se la mamma se ne sia accorta. L’ha fatto solo perché non voleva che l’amichetto ci rimanesse male. La lode per un gesto come questo di solito ne ignora le diverse motivazioni; peggio, in realtà tende a incoraggiarne quella meno auspicabile, spingendo con ogni probabilità il bambino alla ricerca di nuovi elogi.

Finora la mia tesi principale è stata quella secondo cui la lode tende a essere controproducente in quanto motivatore estrinseco. Adesso però desidero arrivare alla stessa conclusione partendo da un’angolatura diversa.
Il problema non è semplicemente il fatto di essere un premio. Il problema è che il rinforzo positivo è l’incarnazione stessa del principio dell’amore condizionato.
Pensateci: qual è l’immagine speculare della negazione dell’amore - ossia del negare ai figli il nostro affetto quando non si comportano come vorremmo? Dovrebbe essere la concessione del nostro bene quando si comportano come vogliamo noi; concessione selettiva, contingente, spesso nell’esplicita speranza di incoraggiare tale comportamento. La lode non è semplicemente diversa dall’amore incondizionato: è il suo esatto opposto; un modo per dire al bambino: “Dovrai sudare sette camicie per ottenere il mio sostegno e la mia compiacenza”.
I genitori premurosi sono molto attenti, e spesso (ma non sempre) descrivono quanto combinato dal figlio, invitandolo a riflettere sulle conseguenze. “Bravo!”, però, non è una descrizione, ma un giudizio, con inquietanti ripercussioni su come il piccolo tenderà a percepire cosa proviamo per lui.

Invece che “Ti voglio bene” il messaggio che rischia di passare attraverso l’elogio è “Ti voglio bene perché sei stato bravo”. Non c’è bisogno che lo diciamo con tutte queste parole - e di fatti non lo fa quasi nessuno. Basta semplicemente farlo - ossia esprimere il nostro bene e dimostrare il nostro entusiasmo solo a determinate condizioni (allo stesso modo la negazione dell’amore spesso avviene anche se le parole pronunciate dal genitore non sono proprio “Non ti voglio bene perché non sei stato bravo”. In entrambi i casi il messaggio arriva comunque, forte e chiaro).
Qualche anno fa io e mia moglie eravamo alla ricerca di una baby-sitter.
Abbiamo così conosciuto una ragazza che, in due parole, ci ha brillantemente riassunto la propria filosofia educativa: “I buoni comportamenti ottengono la mia attenzione”. Intendeva forse contrapporsi all’atteggiamento di chi si interessa soprattutto di rimproverare i bimbi maleducati. Tuttavia abbiamo subito capito che non l’avremmo mai voluta accanto ai nostri figli, né avremmo mai auspicato che una tata concedesse attenzione in base al loro modo di comportarsi - in altri termini, che una persona prestasse loro ascolto e attenzione solo se se lo fossero meritato.
Sono comunque grato a quella ragazza per avermi aiutato a capire quali fossero esattamente le mie riserve e il perché di tali dubbi. Così come sono grato a una donna intervenuta, tempo fa, a un mio seminario, la quale mi suggerì uno spunto di riflessione. Non ne ricordo più il nome, né rammento in quale città mi trovassi. Ricordo solo che mi venne incontro dicendomi che la scuola del figlio le aveva fatto dono di un adesivo da applicare sul paraurti, che riportava le seguenti parole:

SONO FIERO DI MIO FIGLIO
PERCHÉ È STATO ELETTO
STUDENTE DEL MESE

Mi confessò che, appena rientrata a casa, aveva impugnato un paio di forbici ed eliminato la parte inferiore dell’adesivo, appiccicando sull’automobile solo le prime cinque parole - ossia la prima riga. Con un po’ di ingegno non solo aveva rifiutato l’invito ad amare il figlio in modo condizionato, ma l’aveva anzi tramutato in un’occasione per affermare la natura incondizionata dell’orgoglio per il suo bambino.
Torno a sottolineare che nel comportamento umano non esistono verità assolute. Gli eventuali danni (e la loro portata) prodotti dal rinforzo positivo possono essere determinati da molte variabili: come viene espresso - le parole utilizzate, il tono della voce, se viene espresso in pubblico o in privato; chi lo riceve - sono fondamentali l’età e il temperamento del bambino, così come altri fattori; infine, perché viene espresso - quali sono i motivi di lode e qual è l’obiettivo della lode, o piuttosto quale obiettivo il bambino crede che sia. C’è differenza tra il complimentarsi con il proprio bambino perché ha fatto qualcosa che ci ha semplificato la vita (ad esempio mangiare senza sporcarsi), e complimentarsi con lui per aver fatto qualcosa di veramente notevole. C’è differenza tra l’esprimere il proprio compiacimento per una forma di obbedienza automatica (ad esempio quando il bambino rispetta una delle nostre regole) e l’esprimere il proprio compiacimento per una domanda davvero intelligente.

È possibile, quindi, ridurre al minimo i danni provocati dalla lode, ma ancor più importante è sapere che anche le migliori forme di lode non sono l’ideale (ecco perché nel capitolo VIII propongo una serie di alternative e non modi diversi - magari appena più accettabili - di elogiare i figli).
Per esempio esprimere il proprio spontaneo entusiasmo per un particolare gesto di nostro figlio è di certo meno criticabile che utilizzare il rinforzo positivo per fargli cambiare comportamento. Solo quest’ultimo caso rientra nella manipolazione “skinneriana”. Tuttavia ciò non esclude che anche il primo esempio non possa essere dannoso.
A volte dire “Che bravo sei stato a colorare entro i margini” - o, nel caso di un adolescente “Che bravo sei stato a restare entro i limiti” - non è altro che la comunicazione di un’informazione piuttosto che un incoraggiamento verbale a ripetere un comportamento. Ma quale informazione viene comunicata? Al bambino non si sta semplicemente dicendo quello che ha fatto, ma che approviamo quello che ha fatto. Quello che ne dedurrà è che siamo felici per lui, che gioiamo con lui del risultato ottenuto? Sarebbe la migliore delle ipotesi. In realtà è più facile che da uno schema di rinforzo selettivo il piccolo deduca che ha la nostra approvazione solo quando fa quello che piace a noi (guarda com’è contento papà quando colpisco la palla… Solo quando la colpisco).
Ciò rischia, a sua volta, di tramutarsi in autoapprovazione condizionata, con un processo a catena di questo tipo: (1) “Mi piace come hai fatto questa cosa qui” al bambino potrebbe suonare come (2) “Mi piaci perché hai fatto questa cosa qui” - derivandone di conseguenza (3) “Non mi piaci quando non fai questa cosa qui”. Alla fine del processo, il bambino pensa (4) “Non piaccio se non faccio questa cosa qui”. Se è appurato che l’elogio è un esempio di amore condizionato, esso risulta, quindi, pericoloso a prescindere dalle ragioni del mittente e anche in assenza di una precisa volontà di controllo. Ciò vale soprattutto nel caso in cui i nostri commenti positivi o altre espressioni del nostro bene rimangano circoscritti alle occasioni in cui il bambino ci compiace.
Potreste aver incontrato persone che mostrino di condividere la stessa preoccupazione rispetto al tipo di lode di cui abbiamo parlato, tuttavia è probabile che, in realtà, le loro obiezioni riguardino la frequenza di tali lodi, o quanto poco devono fare di questi tempi i bambini per meritarsi un “Bravo!”. Certo, c’è del vero in questa osservazione: mi è capitato, infatti, di sentire alcuni genitori rivolgere ai propri bimbi sull’altalena degli squillanti “Come dondoli bene!” (Dio mio, è questione di gravità!). Tuttavia, è un’osservazione che mi preoccupa. Da un lato non centra il problema: il rinforzo positivo non è criticabile solo perché concesso con troppa frequenza e facilità. La questione è ben più profonda.
Dall’altro si tratta di una critica che rischia di peggiorare la situazione. Chi afferma che sia inutile dare continue pacche sulla spalla ai figli per ogni nonnulla proseguirà dicendo che bisogna essere più selettivi, più parchi con le lodi - ovvero che i figli devono fare molto di più per guadagnarsi la nostra approvazione. Naturalmente ciò significa che la maniera di educarli diventerebbe ancor più condizionata. I critici hanno forse ragione quando osservano che le lodi continue alla fine risultano come un rumore di fondo che i figli non percepiscono neppure più. A questo punto dovremmo obiettare: bene! È proprio quando l’elogio viene pensato ed espresso per ottenere il massimo risultato che bisognerebbe davvero preoccuparsi. È in quel momento (per lo meno dal punto di vista del bambino) che l’incondizionalità del nostro amore è messa più in dubbio.

Negli anni Settanta una ricercatrice residente in Florida, Mary Budd Rowe, condusse uno studio sui metodi di insegnamento adottati in classe, facendo una scoperta davvero interessante: gli alunni più lodati dall’insegnante risultavano più esitanti nel rispondere alle domande; rispetto ai compagni, tendevano ad assumere un tono interrogativo (“Ehm, fotosintesi?”) e a non condividere le proprie idee con gli altri alunni, o a rimaner bloccati su un compito assegnato. Infine erano capaci di ritirare una proposta non appena l’insegnante mostrava di essere in disaccordo19.

Lo studio conferma una realtà già riscontrabile all’interno delle nostre case: la percezione che un bambino ha della propria competenza, e forse pure del proprio valore, tende ad aumentare o a diminuire in base alle nostre reazioni. I figli ci guardano, in senso figurato - e a volte letterale - del termine, per accertarsi che quanto da loro fatto incontri la nostra approvazione. (Un po’ come fanno i bimbi ai primi passi, che cercano il nostro sostegno quando cadono, e osservano la nostra espressione per capire se si sono fatti male. Se ci mostriamo spaventati - “Oh mamma mia, tesoro, stai bene?” - scoppiano quasi sicuramente in un pianto dirotto).
Con le lodi i bambini perdono la capacità o la volontà di essere fieri dei propri risultati - o di decidere se quelli sono risultati. Nei casi più estremi diventano soggetti “elogio-dipendenti”, che continuano, anche in età adulta, a cercare negli altri le proprie conferme, sentendosi euforici o abbattuti solo se qualcuno investito di tale potere - ad esempio il coniuge, o il capo - considera buono il loro operato.

Tutti i bambini piccoli hanno un disperato bisogno dell’approvazione del genitore; per questo la lode “funziona” per ottenere nell’immediato che facciano quello che vogliamo noi. Tuttavia abbiamo la responsabilità di non sfruttare questa dipendenza per i nostri fini - che è, poi, quanto avviene quando, con un bel sorriso, diciamo ai nostri figli “Sono proprio contenta di quanto sei stato veloce a prepararti per andare a scuola, stamattina!”.
I bambini rischiano di sentirsi manipolati da questo “controllo edulcorato”20, anche senza essere effettivamente in grado di spiegarselo.
Che vi si adattino o che vi si ribellino, tale modalità ha, di per sé, qualcosa di decisamente sgradevole: non è molto diversa dall’attendere che vostro figlio abbia sete per poi dargli da bere solo dopo aver fatto qualcosa che vi semplifichi la vita.

Peggio ancora, il rinforzo positivo spesso innesca un circolo vizioso che ci ricorda quanto rilevato con la negazione dell’amore: più elogiamo i nostri figli, più loro hanno bisogno di essere elogiati. Ci appaiono insicuri, desiderosi di un’altra pacca sulla spalla; gliela diamo, e loro ne vorrebbero un’altra ancora. Carol Dweck, psicologa della Columbia University, ha condotto una ricerca preliminare che sembra spiegare quanto descritto.
Quando si esprimono commenti che “implicano una considerazione contingente (nutrendo presumibilmente sentimenti di valore contingente…)”, i bambini più piccoli iniziano a mostrare segni di disperazione. Il rinforzo positivo è una forma di amore condizionato, e Dweck sostiene che quanto viene accettato solo in maniera condizionata non si limita a una caratteristica o a un comportamento. È piuttosto l’“intero sé” che il bambino arriva a considerare in modo positivo solo se apprezzato dai genitori. Ecco una modalità che lede fortemente l’autostima. Più diciamo “Bravo!”, peggio il bambino si sente con se stesso, più ha bisogno di essere elogiato21.
Naturalmente tutto ciò ci rende scettici di fronte ad affermazioni secondo cui le lodi sono un bene perché sono i bambini a volerle. Se abbiamo bisogno di soldi e l’unico lavoro disponibile è alienante e ripetitivo, lo accettiamo come ultima risorsa, ma non stiamo dicendo che ci piace. Stiamo prendendo quel che c’è. Quello di cui i bambini hanno davvero bisogno è amore senza se e senza ma. Se, tuttavia, quel che viene loro offerto - in alternativa al cinismo e all’indifferenza - è soltanto l’essere accettati a seconda del loro comportamento, si accontenteranno delle briciole, per poi tornare, con un senso di insoddisfazione, a chiederne ancora. Purtroppo alcuni genitori a cui è stato quasi del tutto negato l’amore incondizionato durante l’infanzia finiscono per non riconoscere il problema, convinti di non aver ricevuto abbastanza lodi. Quindi sommergono i propri figli di “Bravo, ben fatto!”, facendo sì che un’altra generazione ancora non arrivi mai a ricevere quello di cui ha davvero bisogno.

Sono molti i genitori ad avermi confessato che certe idee sono difficili da recepire, specie all’inizio. Per alcuni è crudele sentirsi dire che forse stanno sbagliando tutto con i loro figli, ma lo è ancor di più intendere che quello di cui erano più certi e orgogliosi - ad esempio elogiare i propri figli per farli sentire bene con se stessi - potrebbe essere più un male che un bene.
Ho notato che alcuni reagiscono chiedendo: “Qual è l’alternativa?”, domanda più che ragionevole, visto che stiamo valutando le possibili alternative all’intero concetto di amore condizionato (come vedremo più tardi) piuttosto che superficiali variazioni alle frasi rivolte ai nostri figli - versione riveduta e corretta della lode.
Altri invece si sentono a disagio e, innervositi, si lanciano in battute del tipo: “Ah ah ah, immagino di non poterle fare i complimenti per il libro, altrimenti lo prenderebbe per lode, ah ah ah”22. È comprensibile: ci vuole un po’ ad accettare un’idea nuova, soprattutto se ciò ci induce a rivedere gran parte del nostro operato e dei nostri princìpi. Siamo costretti ad abituarci a nuove modalità, rodandole, e nel periodo di transizione è possibile che il disagio si esprima in vari modi.

Alcuni cominciano a chiedersi se siano stati pessimi genitori per aver applicato per tanti anni negazione dell’amore e rinforzo positivo (anche se non avevano mai utilizzato queste definizioni). Nella maggioranza dei casi, però, nessuno si era mai sentito invitato a vedere le cose da questo punto di vista; a nessuno erano mai state mostrate le prove per cui opporsi all’acriticità dei soliti moniti a ricoprire i figli di lodi o a spedirli in castigo.
Altri, al contrario, non chiedono consigli, non ricorrono a battute, né si sentono preoccupati: si lasciano scivolare addosso ogni critica, puntualizzando (non senza giustificazioni) che, guardando la realtà da una visuale più ampia, un genitore potrebbe fare ben di peggio che esprimere il proprio entusiasmo per l’operato del figlio. Di fatto i figli subiscono di peggio quotidianamente, tuttavia non è questo il metro di paragone più idoneo - quantomeno per tutti coloro che desiderino essere il miglior genitore possibile.
Il punto è che si può far meglio.

La polemica sull’autostima

Negazione dell’amore e rinforzo positivo rischiano di generare disturbi di vario tipo, da un senso di disperazione alla riluttanza a prestare aiuto; dalla paura dell’abbandono (una volta diventati adulti) al risentimento nei confronti dei genitori. Tuttavia dai dati scientifici forniti in questo capitolo e in quello precedente si evince un unico risultato, che riguarda la maniera in cui chi ha ricevuto amore condizionato finisce per considerare se stesso.
Il termine a cui si ricorre in questi casi è, al solito, autostima, sostantivo che spopola ormai da diversi decenni. Prima di concludere il capitolo vorrei dedicare qualche pagina all’analisi di questo concetto, particolarmente significativo nel quadro dell’amore condizionato. Molte personalità appartenenti al mondo della psicologia e della pedagogia, in particolare coloro che hanno legami con il cosiddetto movimento di auto-aiuto, ritengono che una forte autostima sia un bene, una bassa autostima un male e lavorare
affinché il proprio livello di autostima cresca comporti automaticamente un’ampia gamma di benefici: successi in ambito scolastico, scelte di vita costruttive… Per contro i più conservatori ne hanno fatto un parafulmine, la quintessenza della deviazione nella società e soprattutto nella scuola.
Secondo me entrambe le posizioni hanno alcuni limiti. Qualche anno fa ho condotto un’ampia revisione della ricerca23, scoprendo, non senza una certa sorpresa, che a una maggiore autostima non corrispondono sempre migliori risultati e, anche in quel caso, non è detto che sia stata l’autostima a produrli.

Ciò non significa che mi schieri dalla parte dei “detrattori” dell’autostima, che disprezzano tale concetto nella sua totalità. Alcuni di loro abbracciano quest’opinione perché convinti che se i bambini sono contenti di sé non saranno motivati a raggiungere alcun obiettivo. Concentrati sul valore di quello che sono, piuttosto che su quello che fanno, è facile che non combineranno mai granché. Bisogna sentirsi insoddisfatti per apprendere e produrre. Senza fatica non si ottiene nulla.
Motto basato su premesse scorrette che verranno illustrate in dettaglio nel capitolo V. Per ora desidero invece attirare la vostra attenzione sul fatto che se molti di questi detrattori ritengono che un alto livello di autostima non comporti benefici, in realtà il succo del loro messaggio è che l’autostima in sé è male, a prescindere dai suoi effetti. Per loro la peggior definizione al mondo è sentirsi bene, da cui si deduce che esiste qualcosa di fondamentalmente sospetto nell’essere soddisfatti di sé. Sotto sotto si annida il timore che i bambini finiscano per sentirsi soddisfatti senza esserselo meritato. E qui si lascia il mondo reale per far ingresso (dalla porta di servizio) nel regno del fondamentalismo moralistico; luogo di fervore puritano in cui il permesso di mangiare si ottiene con il solo sudore della fronte e dove i bambini non possono avere una buona opinione di sé prima di aver ottenuto risultati concreti.

In altre parole quello che i conservatori attaccano è, in realtà, l’autostima incondizionata. Eppure i ricercatori iniziano a comprendere che proprio questo elemento risulta cruciale nel determinare la qualità della vita delle persone. Se abbiamo a cuore la salute mentale di un individuo, il punto essenziale non è il suo livello di autostima, ma quanto questo livello vari a seconda di quanto accade nella sua esistenza - ad esempio i successi ottenuti o l’opinione degli altri. Il vero problema non è tanto un livello di autostima troppo basso (“Non sto molto bene con me stesso”), quanto un’autostima troppo contingente (“Sto bene con me stesso solo se…”)24.
Edward Deci e Richard Ryan, psicologi e ricercatori che hanno sottolineato l’importanza di tale distinzione, riconoscono che persino chi è dotato di qualcosa di molto simile alla “vera” autostima (o autostima incondizionata) “spesso si sente soddisfatto o euforico per un successo, o abbattuto per un fallimento. Il senso del proprio valore come persona, tuttavia, non oscilla in funzione di questi risultati, cosicché non si sentirà più grande e superiore per un successo, né depresso e una nullità per un fallimento”25.

L’estrema oscillazione non è che la prima di una serie di conseguenze che scaturiscono dal far dipendere la stima di sé dalla soddisfazione di una serie di aspettative, proprie o altrui. Secondo una recente ricerca a un’autostima contingente corrisponde un “maggior rischio” - tra gli studenti universitari - “di ricorrere all’alcol per ottenere l’approvazione, o per evitare il rifiuto, sociale”. Altre ricerche la ricollegano ad ansia, ostilità e suscettibilità. Alcuni soggetti diventano aggressivi quando sentono la propria autostima compromessa, il che può accadere piuttosto di frequente. Oppure si deprimono, cercando rifugio in comportamenti autolesionistici. Se il loro benessere dipende dall’aspetto, rischiano di cadere vittima di disturbi del comportamento alimentare26.
Per contro l’autostima incondizionata, quella di cui qualcuno spesso si fa beffa, risulta l’obiettivo più ambito27. Chi di regola non ritiene che il proprio valore possa aumentare in base ai risultati ottenuti tende a considerare i fallimenti un semplice contrattempo temporaneo, una difficoltà da risolvere, oltre ad apparire meno ansiosi e depressi28. E ancora: essi appaiono assai meno preoccupati dell’intera faccenda dell’“autostima”! Perder tempo a valutare quanto si è bravi, o tentare espressamente di star bene con se stessi non solo non funziona granché, ma potrebbe essere brutto segno. È il sintomo di altri problemi, in particolare un segnale che la considerazione di sé è contingente e vulnerabile. “Quindi, un paradosso dell’autostima: se ne hai bisogno, non ce l’hai, e se ce l’hai, non ne hai bisogno”29.

Cos’è, quindi, che ci spinge a sviluppare l’infelice stato di autostima contingente? Quali sono le circostanze che ci fanno pensare di essere bravi solo se…? Una possibile causa è la competizione: trovarsi nella situazione in cui si vince solo se qualcun altro perde, e la gloria è appannaggio del vincitore. Ecco il modo migliore di distruggere la fiducia in se stessi e di insegnare che vale solo chi trionfa30. È altresì ragionevole ritenere che un’autostima contingente sia frutto, come spiegherò nel prossimo capitolo, di un sistema educativo di ipercontrollo sui figli.
Tuttavia essa risulta soprattutto dalla stima contingente che ci riservano gli altri, per cui eccoci tornare al punto di partenza: quando un bambino si sente amato dai genitori solo a determinate condizioni - sensazione sviluppata proprio dall’applicazione di metodi legati alla negazione dell’amore e al rinforzo positivo - diventa difficile accettarsi. Il resto viene da sé.

Amarli senza se e senza ma
Amarli senza se e senza ma
Alfie Kohn
Dalla logica dei premi e delle punizioni a quella dell’amore e della ragione.Un classico dell’amore incondizionato. Come crescere i figli eliminando finalmente i piccoli ricatti, le minacce, le promesse e i premi. Crescere un figlio non è un gioco da ragazzi!Diventare genitori è un esame costante sulle capacità di affrontare disordine e imprevedibilità, un ruolo per cui non ci si può preparare davvero.Una delle difficoltà maggiori è la tentazione di domare l’atteggiamento di opposizione dei figli alle nostre richieste, rischiando di trasformarli in burattini addomesticati o, al contrario, di provocare danni approvando tutto ciò che dicono e fanno.Allora, come farsi obbedire dai propri figli?Sistemi educativi quali punizioni, castighi, premi e altre forme di controllo inducono i nostri figli a credere di essere amati solo se ci compiacciono o ci colpiscono in modo favorevole.Nel suo libro Alfie Kohn si allontana dai messaggi veicolati da certi metodi convenzionali e ribalta la prospettiva, chiedendosi quali siano i bisogni dei nostri figli e come possiamo soddisfarli.L’autore suggerisce una serie di idee per allontanarsi da metodi abituali che prevedono l’imposizione di qualcosa ai bambini, per approcciarsi a modalità che portino invece alla collaborazione con loro.Amarli senza se e senza ma risponde a una domanda cruciale: le nostre azioni quotidiane possono contribuire a rendere nostro figlio l’adulto che vorremmo?Consigli utili affinché il bambino possa aspirare a diventare un adulto sano, responsabile ma allo stesso tempo sensibile e premuroso.Un libro rivoluzionario e illuminante per diventare a tutti gli effetti genitori senza se e senza ma, poiché uno dei bisogni fondamentali del bambino è proprio essere amato in maniera incondizionata ed essere accettato anche quando combina guai o fallisce: in sintesi, essere amato per quello che è e non per quello che fa. Conosci l’autore Alfie Kohn ha pubblicato diversi libri, tra cui Punished by Rewards e The Schools Our Children Deserve, che hanno dato un forte contributo all’operato di educatori e genitori. Vive con la famiglia nei pressi di Boston, dove tiene conferenze e seminari, ed è raggiungibile sul web all’indirizzo www.alfiekohn.org.