CAPITOLO X

Il punto di vista del bambino

Che cosa facciamo perché i nostri figli crescano felici? Si tratta di una domanda notevole, ma ve ne faccio un’altra: che cosa facciamo perché i nostri figli crescano sensibili verso la felicità degli altri?1.
È bene non lasciare che il primo obiettivo sovrasti il secondo - o, per di più, non impiegare più energie nel cercare di crescere figli gentili ed educati che non nel cercare di aiutarli a essere davvero sensibili e impegnati a comportarsi bene. Dobbiamo concentrarci sulla crescita morale dei nostri figli.
Ciò significa rivedere molti dei princìpi descritti in altri manuali per genitori. “Limiti” e “confini”, ad esempio, sono in genere concepiti come restrizioni imposte dagli adulti ai bambini. Ma il nostro obiettivo non era quello di far sì che i nostri figli si astenessero da determinati comportamenti non tanto perché proibiti, ma perché sbagliati? I limiti imposti alla con dotta dei figli dovrebbero, in altre parole, essere vissuti come impliciti al contesto. Vorremmo che si chiedessero “Se faccio x, come si sentirà l’altro bambino?” - e non “Posso fare x?”, oppure “Mi metto nei guai a fare x?”
Si tratta di una meta ambiziosa, ma non irrealistica perché disponiamo di materiale valido su cui lavorare. Gli esseri umani nascono con la capacità di voler bene, per cui i genitori che sperano di educare un figlio alla sensibilità verso i bisogni dell’altro già trovano “un alleato nel bambino”, per usare una definizione di Martin Hoffman.

Ovvio che i bambini, se lasciati a se stessi, non diventano automaticamente adulti onesti: hanno bisogno del nostro aiuto. Per incominciare hanno bisogno che la smettiamo di assumere comportamenti che interferiscano con la loro crescita morale, quali premi e punizioni, radicati nell’interesse personale e indicatori dell’ansia del bambino a tale riguardo. La rimozione delle manifestazioni principali della disciplina convenzionale rappresenta un passo importante nel percorso attraverso cui il bambino viene aiutato a sintonizzarsi con il benessere del prossimo. Ma non è che un passo: l’eliminazione di metodi educativi deleteri deve essere accompagnata dall’introduzione di metodi rispettosi.

Bambini virtuosi

Sono stati condotti molti studi a riguardo da parte degli specialisti dell’età evolutiva, specie da coloro che si sono concentrati sul cosiddetto comportamento “prosociale”. Vagliando i dati a disposizione è possibile estrapolare alcune raccomandazioni chiave per il sostegno della crescita morale2 (a tal proposito non è un caso che certi temi convergano sostanzialmente con alcuni dei princìpi dell’amore incondizionato descritti al capitolo VII).

Abbiateli a cuore
Caposaldo della crescita morale è il legame tra genitore e bambino. Ogni direttiva e ogni intervento devono inserirsi all’interno di una relazione fatta di calore, di sicurezza e di amore incondizionato per il bambino. Tra le linee guida stilate dagli esperti per la crescita di bambini virtuosi ricorrono sempre gli stessi termini: attaccamento sicuro, protezione, rispetto, sollecitudine ed empatia. Si tratta di bisogni primari comuni a tutti gli esseri umani.
Quando questi vengono soddisfatti, il bambino si sente libero dall’ansia e può aprirsi all’aiuto dell’altro. Ma se non vengono soddisfatti rischiano di continuare a riecheggiargli nell’orecchio, rendendolo sordo alle grida di sofferenza del prossimo.
I bambini che sanno di essere amati si sentono più al sicuro e stanno meno sulla difensiva, mostrandosi, quindi, più audaci nello spingersi verso gli altri - incluso chi è diverso da loro. C’è un’ulteriore vantaggio: i piccoli che hanno sviluppato un attaccamento sicuro con i genitori non solo risultano più sensibili nei confronti del prossimo; sono altresì più sicuri di sé e più indipendenti, distinguendosi per competenza sociale ed equilibrio psicologico in tutta una serie di parametri.

Mostrate loro come vive una persona virtuosa
Ancor prima di reggersi sulle proprie gambe, i bambini assorbono i vostri valori. Da voi imparano a essere esseri umani. Se vi vedono passare accanto a una persona in difficoltà con noncuranza, imparano che il dolore degli altri non è affar loro. Ma se vi vedono mostrare preoccupazione, persino nei confronti degli sconosciuti, apprendono una lezione di moralità molto forte. Alcuni studi hanno dimostrato che i bambini fanno con più probabilità l’elemosina se hanno visto qualcun altro farla, anche molto tempo prima.
Gli effetti sulla condotta e sui princìpi del bambino sono ancor più visibili se a dare l’esempio sono le persone che ai suoi occhi risultano amorevoli e protettive. Allo stesso modo i genitori che intendono trasmettere il valore dell’onestà devono far sì che diventi un’abitudine non mentire ai figli, anche quando sarebbe molto più semplice informarli che non ci sono più biscotti invece di spiegare loro che non ne possono mangiare più.

Possiamo persino essere di esempio mostrando ai nostri figli che non tutte le decisioni etiche sono semplici. A volte è difficilissimo affrontare una situazione in cui si assiste allo scontro tra due valori (ad esempio onestà e compassione). Può anche essere molto difficile valutare quanto peso dare ai gusti di un’altra persona quando voi preferireste fare altro. Mostrate ai figli i vostri “retroscena” per far vedere loro i vostri pensieri - e sentimenti - rispetto a un dilemma. Forse apprenderanno una parte del percorso che vi conduce verso una vita virtuosa, ma, ancor più importante, capiranno che la virtù di rado è netta e precisa.

Fate fare loro pratica
Per quanto possa essere importante osservare, si impara anche attraverso la pratica. È quindi sensato offrire ai nostri figli tante possibilità di rendersi utili. Se diamo loro la responsabilità di badare a un fratello più piccolo o di prendersi cura di un animale domestico, quello che offriamo è una lezione di vita riguardo l’altruismo. Non solo ne hanno sentito parlare o l’hanno visto - l’hanno pure messo in pratica, il che li aiuta, tra l’altro, a considerarsi persone servizievoli.

È una delle ragioni per cui i migliori insegnanti organizzano le proprie classi in modo tale che gli alunni abbiano frequenti opportunità di apprendere gli uni dagli altri. Letteralmente centinaia di studi dimostrano come gli studenti riescano a riflettere più a fondo quando hanno la possibilità di mettere insieme le proprie risorse, le proprie idee per l’elaborazione di strategie di risoluzione dei problemi, imparando tuttavia una lezione che va ben oltre lo studio: imparano a occuparsi degli altri. La collaborazione è un’esperienza sostanzialmente umanizzante che predispone chi la vive a vedere l’altro con occhio benevolo, incoraggiando fiducia, sensibilità, confronto aperto e, infine, disponibilità. Per contro educare e istruire i figli in un contesto competitivo e prevalentemente individualistico non solo li priva dei vantaggi di cui sopra, ma dà risultati di fatto deleteri. In effetti un gruppo di ricercatori conclude dicendo che “la competizione può contribuire a sopprimere la generosità verso il prossimo più di quanto la collaborazione non contribuisca a favorirla”3.

Parlate con loro
Ai genitori si presentano sostanzialmente due alternative all’uso della forza: l’amore e la ragione. L’ideale sarebbe riuscire a miscelare i due elementi, l’uno proveniente dal cuore e l’altro dalla testa. L’amore incondizionato è stato, com’è evidente, tema centrale di questo libro. Tuttavia è altresì necessario comprendere l’importanza della ragione, e nello specifico il suo peso all’interno dello sviluppo della moralità. Dal momento che, rispetto ai tre temi già affrontati, questo risulta un poco più complesso, desidero soffermarmici più a lungo.
I genitori che prendono sul serio l’educazione dei figli in vista di farne adulti perbene dedicano moltissimo tempo a far loro da guida e a dar loro spiegazioni. Non ci basta avere sani princìpi; tali princìpi devono essere trasmessi in modo diretto e attraverso modalità consone alla capacità di comprensione del bambino. Se non lo facciamo, i nostri figli continueranno a subire la nostra influenza, ma non come speravamo. Ad esempio tacere quando un bambino si comporta in modo egoista equivale a inviare un messaggio molto chiaro, un messaggio che ha più a che vedere con l’ammissibilità dell’egoismo che non con le virtù di un’educazione non intrusiva.

C’è bisogno che stabiliamo linee guida morali molto nette, essendo chiari rispetto a quanto ci aspettiamo, ma in modo da ridurre al minimo la coercizione. Certo si deve percepire una certa forza dietro le parole che diciamo loro (riguardo al modo di trattare, o di non trattare, gli altri), ma l’importante è che la forza non sia il messaggio. Se lo è si viene a creare un clima di paura che ostacola il processo di apprendimento. Se spingiamo i figli a temere che un cattivo comportamento comporterà la negazione del nostro amore, non otteniamo altro che un’obbedienza provvisoria senza comprensione e senza motivazione intrinseca.
Ma facciamo un passo avanti. L’apprendimento della moralità non solo non si ottiene attraverso le urla, ma neppure con le parole. Un semplice divieto (“Non lo fare”) non è di grande aiuto. Al contrario rischia, in genere, di rendere il bambino più guardingo, e ancor meno propenso a essere d’aiuto4. Frasi appena più specifiche del tipo “Non si picchiano gli altri!” non sono più utili. A sostegno dello sviluppo morale il messaggio trasmesso non può essere solo quello che picchiare è sbagliato - o che condividere è giusto. Se non si spiega il perché, la ragione automatica per cui non si deve picchiare è che, altrimenti, si viene puniti5.

Spiegando le nostre ragioni con pazienza assolviamo a due compiti in una volta sola. Primo, facciamo capire ai figli cos’è importante per noi e perché. Secondo, impegniamo la loro mente in una riflessione - che in realtà è una lotta - sulle questioni morali. L’uso della ragione incoraggia il pensiero indipendente, chiarendo che, se da un lato intendiamo influire sui nostri figli, dall’altro desideriamo che ragionino per conto proprio. Risultati confermati dalla ricerca scientifica: da adulti i bambini a cui i genitori hanno fornito spiegazioni invece di limitarsi a pretendere obbedienza risultano più inclini ad agire, quando serve, con altruismo (a quanto rivela uno studio), oltre ad avere una maggior tendenza all’attivismo politico e all’impegno sociale (come risulta da un’ulteriore studio)6.

Quindi piuttosto che urlare meglio parlare, e piuttosto che parlare, spiegare. E aggiungerei: piuttosto che spiegare - o piuttosto che spiegare e basta - meglio discutere. Imparare qualsiasi cosa (ad esempio la matematica) non è solo questione di informazioni ricevute. Non siamo contenitori in cui versare la conoscenza. I concetti si apprendono attraverso una rielaborazione attiva dall’interno. Quello che vale per la matematica vale anche per i valori. È assai improbabile che, spiegandogli l’importanza di un ideale, per quanto in modo eloquente, il bambino lo sposi. Non c’è ragione per cui continuare a comportarsi bene se quanto trasmessogli non viene integrato nella sua visione del mondo. Se intendiamo fare dei nostri figli persone virtuose, e non individui che agiscono solo in base a quanto viene loro detto, allora dobbiamo dar loro l’opportunità di elaborare concetti quali correttezza e coraggio in modo autonomo. Devono essere in grado di reinventarsi alla luce delle esperienze e degli interrogativi personali, capendo (con il nostro aiuto) che genere di persona si debba diventare7.

Tutto ciò è, chiaramente, in linea con quanto fin’ora sostenuto riguardo il sostegno all’autonomia. A questo punto quello che intendo sottolineare è la pertinenza di tale principio con la moralità. Difatti secondo uno studio risulta che si registra una straordinaria crescita morale nei bambini (di età diverse) con cui i genitori non si limitavano a parlare, ma intavolavano un vero e proprio dialogo. I migliori risultati si ottenevano allorquando i genitori dimostravano sostegno e incoraggiamento “stimolando l’opinione del figlio, ponendogli domande chiarificatrici, parafrasando e verificandone la comprensione”. Una seconda ricerca ha rivelato, più in generale, che i ragazzini più incoraggiati a prendere parte attiva alle decisioni tendono a mostrare un maggior livello di ragionamento morale8.

Il processo di sostegno dell’autonomia del bambino può assumere forme diverse. Ad un primo stadio desideriamo far loro sapere che le loro opinioni contano, prestando loro attenzione e ascoltandone, rispettosi, il punto di vista. Tuttavia Marilyn Watson, esperta di età evolutiva, ci invita altresì ad astenerci dal “giustificare le nostre posizioni esponendo con forza la nostra opinione, finendo per sovrastare il bambino con la nostra logica”.
In realtà dovremmo “aiutarlo a elaborare le ragioni a sostegno delle proprie opinioni, anche se non le condividiamo”.

Watson porta l’esempio seguente: supponete che vostro figlio voglia guardare un programma alla televisione che per voi è inappropriato, e l’unica cosa che riesce a dirvi per difendere la sua scelta sia “Ma tutti i miei amici lo guardano!”. Potrete di certo avere la meglio ricorrendo alla vecchia reductio ad absurdum - “E se i tuoi amici si buttassero giù dalla finestra…?”. Sapete bene però che cosa forse intende dire (senza riuscire a esprimerlo): “Ho paura di rimanere escluso dalle conoscenze dei miei compagni perché loro possono condividere un’esperienza e io no”. Quindi rispondete a quanto intende comunicarvi - e se non ne siete sicuri, verificate le vostre affermazioni. 
“Aiutatelo a calcolare la propria posizione”, consiglia Watson, “oppure elaborate la miglior tesi partendo dal suo punto di vista” anche se, in ultima istanza, non sarà quella a prevalere - ad esempio perché, come sosterrete voi, il programma in questione è semplicemente troppo violento.
Ricordate che lo scopo finale non è averla vinta, ma far sì che vostro figlio sappia di non dover saper argomentare al vostro stesso livello per esser preso sul serio, e che è vostro desiderio aiutarlo a elaborare ragionamenti più convincenti. Vogliamo che i nostri figli “controbattano”, sempre che lo facciano in modo rispettoso - e che imparino a farlo sempre meglio”9.

Fin qui abbiano affermato che ciò che conta è il modo in cui ragioniamo con i nostri figli. Adesso vorrei aggiungere che, oltre allo stile delle nostre spiegazioni, dobbiamo prestare attenzione al contenuto. Ho già affermato che non basta sostenere che picchiare è sbagliato; dobbiamo aiutare i nostri figli a pensare al perché sia sbagliato.
Bene, perché è sbagliato?
Una risposta plausibile potrebbe essere il richiamo all’interesse personale.
Come ho già fatto notare si tratta della risposta fornita dalle punizioni, che non necessita di venir espressa a parole. I bambini imparano che il motivo per cui non si deve recare dolore a nessuno è perché, se scoperti, verrà inflitta loro una sofferenza. Alcuni genitori ricorrono alle spiegazioni piuttosto che a pesanti minacce, ma la ragione risiede nel medesimo principio di base: “Se sei cattivo con i compagni nessuno vorrà più essere amico tuo”. “Se dài gli spintoni, uno di questi giorni qualcuno darà uno spintone pure a te - o peggio”. Analogamente tali genitori tendono a spiegare che la ragione per cui bisogna aiutare gli altri è il vantaggio che ne può trarre il bambino: “Se lasci il tuo scooter per un turno a Marsha, magari dopo ti fa giocare con le sue costruzioni”. In altre parole gli altri ti tratteranno come tu hai trattato loro.

Riuscite a vedere il problema? Si tratta di una strategia che non sostiene affatto la preoccupazione per l’altro, ma solo il proprio tornaconto. Certi bambini potrebbero sentirsi spinti a essere offensivi se solo riuscissero a trovare il modo di evitare eventuali ripercussioni - forse chiedendosi perché mai dovrebbero preoccuparsi di essere d’aiuto al prossimo se non è prevista
alcuna ricompensa. Ecco perché è cruciale non solo che i genitori ragionino con i figli, ma che ci ragionino in modo da aiutarli a diventare persone virtuose, non di quelle che domandano sempre “Che ci guadagno io?”
Nel capitolo VIII affermavo che la lode per un’azione generosa fa sì che il bambino si concentri sulla nostra approvazione del proprio comportamento, e che, quindi, potremmo, al contrario, cercare di spostare l’accento sulle conseguenze delle sue azioni sulla persona a cui ha prestato aiuto (“Se lasci lo scooter a Marsha per un turno, anche lei si diverte ed è contenta”).

Lo stesso tipo di approccio vale anche nel caso in cui si rechi offesa: invece di farlo concentrare sulla nostra disapprovazione, invitiamo garbatamente nostro figlio a pensare a quale effetto possa avere sulla persona offesa. A un bimbo molto piccolo si potrebbe dire: “Oh no! Guarda la faccia di Max!
Sembra tanto triste, vero? Ti ricordi quando sei caduto tu l’altra settimana, e piangevi perché ti faceva tanto male? Mi sa che a Max hai fatto proprio questo. Cosa potresti fare per farlo stare un pochino meglio?”
“Dillo con parole tue” è il tipico suggerimento dato ai bambini piccoli, a volte persino quando, in realtà, di parole adatte non ne hanno ancora. Tuttavia il modo migliore di usare, noi, le parole è aiutando i nostri figli a capire che il motivo per cui aiutare gli altri - e non offenderli - non è l’eventuale ritorno, ma le ripercussioni del loro gesto sul prossimo. Per dirlo in altro modo, sono assolutamente favorevole a dare una “lezione”, fintanto che la lezione metta in luce quanto vissuto dalle persone con cui nostro figlio ha interagito, non solo quanto vissuto sulla propria pelle.

Molti ricercatori concordano con la definizione - data a questo tipo di approccio da Martin Hoffman - di ragionamento “eterocentrico” o disciplina “induttiva” (in quanto i bambini vengono indotti a considerare gli effetti delle loro azioni sul prossimo). Hoffman scopre come le madri che applicavano costantemente questo sistema tendevano ad avere figli che mostravano uno “sviluppo morale avanzato”. Ricerche successive confermano il dato e mentre alcuni psicologi sostengono che l’induzione risulti più efficace nei bambini più grandi, da un ulteriore studio risulterebbe che essa contribuirebbe, in quelli in età prescolare, a una maggiore collaboratività, a una minor aggressività e a una spiccata facilità a fare amicizia.
Ulteriori indagini rivelano che persino i bimbi di due-tre anni tenderebbero a rivolgersi a chi si trovi in difficoltà con maggior premura e compassione se le madri avevano l’abitudine di spiegar loro “le conseguenze del [loro] comportamento sulle vittime”10.
Il ragionamento eterocentrico può, inoltre, risultare utile nella rielaborazione del concetto di gentilezza. A volte si pone troppo l’accento sull’obbedienza verso convenzioni sociali francamente arbitrarie - chiedere “scusa” al momento opportuno o levarsi il cappello in certi luoghi - tanto che i
bambini finiscono per considerarle come più importanti delle cose che davvero contano. O, peggio, si fanno l’idea che le relazioni umane non siano
altro che una recita: “Comportati bene” oppure “Fai il bravo” (tipiche frasi di congedo del genitore) sono semplici moniti a memorizzare e recitare una determinata condotta.
Anni or sono ho giurato a me stesso che non sarei mai diventato il genere di genitore che imbecca i figli con un automatico “Come si dice?” quando viene offerto loro qualcosa, con l’idea che debbano rispondere con un altrettanto automatico “Grazie”. Allo stesso modo mi sono ripromesso che non li avrei mai e poi mai tormentati con la domanda leziosa “Qual è la parolina magica?” a ogni loro richiesta (Per favore è, ovviamente, magico se ci rifiutiamo di accontentarli fintanto che non l’abbiano pronunciato, il che significa che ci stiamo di nuovo facendo guidare dall’interesse personale).

A casa mia risulta abbastanza semplice ridurre al minimo amenità del genere in favore di princìpi ben più importanti. Tuttavia devo affrontare i fatti: nonostante che simili questioni mi interessino ben poco, agli altri interessano eccome. Andare in barba alle convenzioni sociali ha un prezzo, ma non sto neppure affermando che ci si debba rifiutare per principio di essere cortesi. Più di preciso non lo voglio fare a spese dei miei figli. La verità è che si penserà che manchi loro qualcosa se le loro conversazioni non saranno disseminate di carinerie come si conviene in società.
Ho trovato una soluzione pensando a grazie e prego come espressioni che potessero far sentire bene l’altro piuttosto che come forme di cortesia fini a se stesse. Ricordo ai miei figli che è carino pronunciarli perché alla gente piace sentirseli dire. Esistono, certo, maniere più sensate di essere d’aiuto agli altri o di far loro piacere, tuttavia perché non fare tutto il possibile, dalle piccole alle grandi cose, per raggiungere tale scopo? Non dite grazie perché altrimenti si teme di farmi saltare i nervi se non lo si fa; questa è una ragione orrenda. Non ditelo perché è una cortesia: questa non è neppure una ragione. Ditelo per l’effetto che provoca nella persona che state ringraziando.

Punti di vista diversi

Un giorno mio figlio Asa, tre anni, ha una rivelazione su un suo amichetto.
In tono di meraviglia annuncia: “David resta sempre a casa sua!”.
Certo già sapeva che quando andiamo da David, torniamo a casa senza di lui. Tuttavia in quel momento mio figlio iniziava a pensare a quello che accade una volta rientrati, a come l’amichetto ci saluti e continui a vivere nella propria casa, come noi nella nostra. Asa stava iniziando a rendersi conto che David ha una vita che non dipende da lui e che rivela dei paralleli con la sua.
Il passo che ci porta oltre il nostro punto di vista, che ci fa valutare come il mondo possa apparire agli occhi di un altro è, se ci pensate, una delle facoltà più straordinarie della mente umana. Gli psicologi la definiscono perspective taking (“assunzione di prospettiva”); essa si manifesta in tre forme diverse. La prima è spaziale: riesco a immaginare come tu vedi, in senso letterale, il mondo, in modo tale che se ci troviamo l’uno di fronte all’altro, quello che si trova alla mia destra risulta alla tua sinistra. Con la seconda forma riesco a immaginare che cosa pensi delle cose - ad esempio come tu possa trovare difficoltà nella risoluzione di un problema che per me è semplice, o come tu possa sostenere princìpi su, ad esempio, l’educazione dei figli diversi dai miei. La terza riguarda l’immaginare che cosa provi, come un evento possa turbarti senza che lo stesso accada a me (quest’ultimo tipo di perspective taking a volte viene confuso con l’“empatia”, che presuppone una condivisione di sentimenti. Non si tratta solo di capire che sei arrabbiato, ma che, in realtà, sono arrabbiato anch’io come te).

Jean Piaget, che ha dato il via allo studio sul perspective taking, riteneva che i bambini non fossero in grado di assumere punti di vista diversi prima dei sette anni. Oggi, invece, si sostiene che le tecniche di valutazione utilizzate da Piaget fossero troppo complesse per i soggetti più piccoli, tanto da non permettere di misurarne la capacità di comprensione. Ben prima dell’inizio dell’asilo il bambino è perfettamente in grado di mettere in atto forme rudimentali di perspective taking11. Sa che altri possono sentir freddo mentre lui ha caldo, o esser tristi mentre lui è contento. Inizia a rendersi conto che papà non conosce le parole di una determinata canzoncina perché non era a scuola mentre veniva cantata. È in qualche modo in grado di capire che anche se ha voglia di giocare con gli evidenziatori dell’amichetto, forse lui si arrabbierà se gli vengono portati via. In realtà non sarà sempre in grado di fare tutte queste cose - o di agire ogni volta secondo quanto appreso, ma presto si manifesteranno i primi barlumi di una facoltà che andrà via via crescendo nel tempo.

Stabilito che la capacità di immaginare il punto di vista dell’altro è un’attività immaginativa, un modo di pensare in maniera diversa, non vi sorprenderà sapere che chi vi riesce particolarmente bene tende a manifestare notevoli capacità intellettive anche sotto altri aspetti. Tuttavia il mio principale interesse riguardo il perspective taking è di ordine etico più che intellettuale. Ciò di cui parlo è, dopo tutto e in modo piuttosto letterale, agli antipodi dell’egocentrismo, e costituisce quindi una base per la moralità.
Coloro che sanno pensare - e pensano - a come gli altri vivano il mondo hanno una maggior tendenza a spingersi in aiuto del prossimo - o, come minimo, una minor tendenza a recargli danno. Kafka ha definito la guerra “mostruoso fallimento della fantasia”. Per uccidere è necessario smettere di vedere ogni singolo essere umano, riducendolo, al contrario, ad astrazioni del tipo “il nemico”. È necessario non accorgersi che ogni individuo sotto le nostre bombe è centro del proprio universo tanto quanto lo siamo noi del nostro: prende l’influenza, si preoccupa per la madre anziana, gli piacciono i dolci, si innamora - nonostante viva a mezzo mondo di distanza e parli un’altra lingua. Vedere la realtà da questo punto di vista significa accorgersi di tutti quei dettagli che lo rendono umano, e, in definitiva, comprendere che la sua vita non vale meno della nostra. Persino nei programmi più seguiti non si mostrano mai i malvagi a casa con i figli. Ci si può rallegrare solo della morte di una caricatura, e non di una persona in tre dimensioni.

Andando meno sul drammatico molti dei problemi sociali che si incontrano quotidianamente possono essere interpretati come fallimento del perspective taking. Chi imbratta o blocca il traffico parcheggiando in doppia fila, o strappa le pagine dei libri presi in prestito in biblioteca pare chiuso in se stesso, senza la capacità o la volontà di immaginare come gli altri vedrebbero la sua spazzatura, o come possano muoversi le altre automobili, o cosa faranno quelli che non trovano il capitolo da consultare.
Lavorare per riuscire a vedere il mondo con gli occhi dell’altro significa vivere una vita molto diversa. Siete a teatro, allungate il collo per guardare oltre la testa della persona davanti a voi, sempre più infastiditi dal disagio.
D’improvviso vi viene in mente che chi siede nella fila dopo la vostra forse sta facendo esattamente lo stesso: non state subendo solo un impedimento, siete voi stessi un impedimento.
Vi faccio, ora, un esempio diverso: se molti prendono le distanze da chi la pensa in modo diverso (“Come fa a pensarla così sull’aborto!”), coloro che d’abitudine applicano il perspective taking tendono a sostituire il punto esclamativo con quello interrogativo (“Come fa a pensarla così sull’aborto?

Quali esperienze, convinzioni o princìpi impliciti l’hanno portata a vederla in modo così diverso dal mio?”). È questo lo sforzo verso l’esterno che dovremmo cercare di alimentare nei nostri figli.
Esistono, com’è ovvio, livelli diversi di perspective taking, i più complessi dei quali sfuggono ai bambini molto piccoli. Il meglio che dovremmo augurarci per un figlio di quattro anni è l’etica piuttosto primitiva della Regola Aurea: potremmo dirgli (con un tono di invito a riflettere, e non di rimprovero): “Ho visto che hai finito tutto il succo senza lasciarne un goccio per Amy. Come ti sentiresti se l’avesse fatto lei?” La premessa a tale domanda, probabilmente corretta, è che a entrambi i bimbi piaccia il succo di frutta e che entrambi resterebbero male se non ce ne fosse più.

Tuttavia George Bernard Shaw ci ricorda che si tratta di un’affermazione non sempre sensata: “Non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te”, raccomanda. “Potrebbero non avere i tuoi stessi gusti” - o, si potrebbe aggiungere, bisogni, valori o storia. I bambini più grandi e gli adulti sono in grado di capire che non basta immaginarsi nella situazione di un altro: bisogna immaginare quella persona in quella situazione. Bisogna guardare attraverso i suoi occhi e non attraverso i propri. Bisogna - se mi si consente la metafora - non tanto chiedersi com’è stare nelle sue scarpe, ma com’è avere i suoi piedi.

Come incoraggiare, dunque, il perspective taking nei nostri figli? Come aiutarli a sviluppare una comprensione sempre più complessa del modo di vedere da una prospettiva diversa dalla propria? Ancora una volta dando l’esempio. Al supermercato il cassiere si rivolge a un cliente in modo sgarbato e il genitore vittima di tanta scortesia si rivolge al figlio che ha assistito alla scena: “Beh, pare che non sia proprio di buonumore oggi, vero?
Cosa pensi possa essergli successo per mostrarsi tanto scontroso? Credi che qualcuno abbia offeso i suoi sentimenti?”
È molto efficace rivolgersi ai figli in questa maniera, per insegnare loro che non bisogna rispondere a chi si dimostra scortese con noi arrabbiandosi - o, al contrario, sentendosi in colpa. In realtà è bene cercare di mettersi nei panni dell’altra persona. Dipende da noi: ogni giorno i nostri figli possono vederci immaginare il punto di vista degli altri - oppure vedere il nostro egocentrismo. Ogni giorno possono assistere ai nostri sforzi per vedere nello sconosciuto un essere umano - oppure assistere alla nostra incapacità di riuscirci.
Oltre a dare l’esempio è possibile sviluppare il perspective taking discutendo con loro di libri e di programmi televisivi in maniera tale da mettere in luce i punti di vista dei diversi personaggi (“Adesso stiamo guardando le cose dal punto di vista del dottore, vero? Ma come pensi si senta la bambina rispetto a quanto accaduto?”). Tale approccio può essere altresì utilizzato come strumento di risoluzione dei conflitti tra fratelli.

“Ok”, potremmo dire dopo una sfuriata. “Raccontami cos’è successo, ma prova a far finta di essere in tuo fratello e descrivimi come può essere sembrato a lui”12.
Infine è possibile sviluppare la sensibilità dei più piccoli nei confronti delle emozioni altrui facendoli concentrare con garbo su un tono di voce, un gesto, o un’espressione del volto, chiedendo loro di riflettere in merito a cosa stia pensando o a cosa stia provando quella persona. Lo scopo è quello di acquisire una competenza (imparare a interpretare l’altro), ma anche quello di sviluppare un’inclinazione (la volontà di sapere come si sentono gli altri e il desiderio di scoprirlo). “Lo so che nonna ti ha detto di voler fare un’altra passeggiata con te, ma ho notato che ha atteso un attimo prima di dirti di sì. Non hai visto quanto sembrava stanca ora che si è seduta?”
L’atto stesso di insegnare ai figli a cogliere certi segnali contribuisce a svilupparne l’abitudine a guardare gli altri più in profondità, spingendoli a vivere nel mondo come farebbe un’altra persona, magari facendosi un’idea di come sarebbe essere quella persona. Un passo importante verso la volontà di aiutare piuttosto che di offendere - e, in definitiva, verso la trasformazione in persone migliori.

Attraverso gli occhi di vostro figlio

Se il perspective taking è un dono che intendiamo fare ai nostri figli, è altrettanto cruciale che assumiamo il loro punto di vista. Si tratta, di per sé, di un enorme cambio di prospettiva. Possiamo aiutare un figlio a imparare a immaginare il punto di vista di un altro, ma come genitori abbiamo il compito principale di immaginare come la realtà appaia dal suo punto di vista. Non si tratta solo di una modalità di acquisizione di una particolare competenza: è un fattore che indica se siamo o no bravi genitori, e basta.

Il perspective taking è di fatto comun denominatore di molti elementi discussi in questo libro. Per esempio le conseguenze delle punizioni - quali, ad esempio, quello di far sì che il bambino si concentri soprattutto sul sistema per non farsi prendere - diventano molto più evidenti se ci mettiamo nei panni di chi viene punito. Lo stesso vale, anche, nel caso dell’effetto prodotto dalla coalizione di entrambi i genitori in un fronte comune, o del rinforzo positivo per comportamenti di cui ci compiaciamo. L’effetto negativo di certi atteggiamenti ci sorprende molto meno se immaginiamo come li vive un bambino.

Continuiamo a insegnare ai nostri figli, ma per scoprire che cosa stiamo insegnando loro è utile mettersi nell’ottica del bambino. Ricordate che, secondo alcuni studi, è il messaggio che gli arriva - rispetto a quello che pensiamo di aver inviato - a determinare gli effetti dei nostri comportamenti.
Quindi quel che conta è che i figli si sentano amati incondizionatamente, che siano loro a credere di avere la possibilità di decidere e così via13. Ma facciamo un esempio più concreto: potremmo avere le migliori intenzioni
quando riferiamo a un adolescente rientrato tardi che salterà la cena. Pensiamo che, in quel caso, la lezione sia: “La prossima volta forse sarai più puntuale e rispettoso”. Forse però il ragazzino intenderebbe: “A loro non interessano i motivi del mio ritardo, o quello che succede nella mia vita.
Basterebbero due minuti per riscaldarmi la cena, ma loro preferiscono farmi morire di fame. Certo che le loro stupide regole contano più del mio benessere… Forse non mi merito di star loro a cuore?

Il perspective taking passa altresì attraverso le raccomandazioni che ho descritto negli ultimi capitoli. “Prendere sul serio” i bambini significa considerarli individui con punti di vista propri. “Parlare meno e ascoltare di più” è un modo per sapere come loro vedano la realtà. Una volta che ci riusciamo, una volta resici conto che le nostre richieste ai loro occhi possano sembrare molto meno ragionevoli, forse saremo in grado di “rivederle” piuttosto che di imporle. Ho altresì raccomandato che, dovendo insistere sull’obbedienza, bisognerebbe che riconoscessimo (a voce alta) la nostra empatia rispetto ai sentimenti suscitati nel bambino. E dovesse scoppiare l’inferno, il nostro intervento risulterà più efficace se, ancora una volta, ci mettiamo nei suoi panni: come ci si sente a essere fuori di sé, e come possiamo essergli d’aiuto alla luce di questo stato?

Il perspective taking è un valido aiuto per soddisfare, e apprendere, i bisogni dei figli. Alcune ricerche rivelano che i genitori in grado di metterlo in pratica tendono a impostare la relazione ricorrendo con minor frequenza al controllo o alle punizioni14. In realtà esistono prove più dirette degli effetti del perspective taking. Un gruppo di ricercatori olandesi ha trascorso del tempo in compagnia di 125 famiglie, intervistando i genitori e osservandoli giocare con i figli, di età compresa tra i sei e gli undici anni. Ne è risultato che l’elemento più indicativo della qualità del loro accudimento era la capacità di comprendere gli interessi e i bisogni unici dei figli, e la volontà di considerare il loro punto di vista diverso dal proprio.

Nel 1997, anno in cui viene pubblicato lo studio, altre due riviste rendono note alcune indagini sul medesimo argomento. La prima rivela che i genitori, canadesi, più in grado di “percepire con precisione i pensieri e i sentimenti dei figli [adolescenti] nel corso di un litigio” hanno meno diverbi con i figli stessi - o giungono, per lo meno, a una risoluzione dei conflitti più soddisfacente. La seconda consiste in un’indagine statunitense su famiglie con figli di due-tre anni, che rivela come i genitori “in grado di assumere il punto di vista del figlio” risultino più solerti nei confronti dei suoi bisogni. In cambio la maggiore solerzia fa sì che il bambino tenda ad adottare gli stessi valori dei genitori e a rispondere in maniera più positiva alle richieste.

Quindi si ha conferma che per i genitori di figli di età compresa tra i due e i quindici anni, in tre Paesi diversi, risulta davvero utile cercare di vedere la realtà dal punto di vista del bambino15. Poche delle cose che un genitore può fare possono sortire lo stesso effetto dello sforzo di immaginare come vengano recepite le nostre parole e le nostre azioni dai figli. Tale effetto è, di fatto, triplice:
Il perspective taking contribuisce a farci capire che cosa stia effettivamente
accadendo, specie quando il bambino non sa o non vuole spiegarci le sue ragioni. In questo modo non saltiamo a conclusioni sbagliate - ricorrendo quindi a una reazione punitiva. Acquisiamo informazioni che ci aiutano ad andare oltre l’apparenza invece di rispondere a un comportamento.
In questo modo ci è possibile elaborare una strategia per la gestione dei significati più profondi e delle problematiche sottese.
Il perspective taking ci rende più pazienti rispetto agli stati d’animo dei
nostri figli. Quando guardiamo il mondo attraverso gli occhi dei nostri figli riusciamo a essere più gentili e rispettosi nei loro confronti rispetto a quando lo osserviamo dall’esterno. In cambio tale atteggiamento contribuisce a far sentire i figli più a proprio agio con se stessi e più al sicuro con noi, più uniti e più apprezzati da noi.
Siamo d’esempio, invitando i figli ad adottare anch’essi il perspective taking.

Il problema è che per molti il perspective taking è difficile da applicare.
Quando un neonato piange molti di noi cercano di capire che cosa lo stia disturbando, ma siamo assai meno disposti a entrare idealmente nel mondo di un bambino più grande che strilla e pesta i piedi. In quel caso il nostro primo impulso sarebbe quello di rimproverare o di controllare, e non di
capire. Paradossalmente, quindi, i contesti in cui siamo meno propensi ad adottare il perspective taking sono quelli in cui si renderebbe più necessario farlo. Se non si è in grado di abbandonare il proprio punto di vista, è più difficile mettersi in ascolto, più difficile riconoscere che esiste un modo diverso e legittimo di capire quello che accade, più difficile cogliere come evitare di far esplodere il conflitto. Più si resta intrappolati nella propria visione, più si è tentati di ricorrere alla coercizione - peggiorando le cose.

La mancanza di perspective taking nel genitore si manifesta in modi diversi.
Quello più grave può assomigliare - o portare - alla totale negazione dei sentimenti del bambino, o al tentativo di imporgli il proprio stato (come nel classico “Ho freddo. Mettiti il maglione”). Di solito ci limitiamo a non apprezzare la differenza tra il suo mondo, e i suoi timori, e i nostri. Un giorno, a cinque anni, mia figlia si è dilungata nel raccontarmi quanto fosse preoccupata dell’eventualità, indossando un cappuccio per Halloween (la festa era ancora molto lontana), di non riuscire a vedere bene attraverso i fori per gli occhi, con il rischio di scegliere, per sbaglio, una caramella che non le piace.
L’ultima cosa da dire a un bambino è che le sue ansie sono sciocche, specie se sta piangendo. Secondo il nostro modo di pensare, i bimbi piccoli piangono spesso per nulla, ma per loro non è affatto così: la ragione della crisi importa eccome. Il pianto dirotto di un bambino ci esaspera - e, in pubblico, ci imbarazza -, dimenticandoci che l’esperienza, per lui, rischia di essere straziante, più che semplicemente irritante.

Certo è difficile essere genitori, ma forse è ancor più difficile essere figli.
Non intendiamo farli sentire stupidi o abbandonati a se stessi, tuttavia è quanto accade quando ne banalizziamo le paure e le lacrime. Con i bambini in
età prescolare ci scappa la pazienza: “Allora, tesoro! Che differenza fa infilarsi il calzino sinistro prima del destro?”. Pretendiamo di risolvere, con logica spietata, gli intimi tumulti di un adolescente: “Allora chiedile di uscire se ti piace.
Il peggio che ti possa capitare è che ti dica di no, ti pare? Lo supererai”.
Non lo sapevate? Dopo tutto la ricerca scientifica dimostra che anche la maggior parte degli adulti erano, un tempo, bambini. Abbiamo dimenticato come ci si sente quando il proprio mondo va a pallino per ragioni che gli adulti non capiscono - e, peggio ancora, come ci si sente quando gli stessi
adulti prendono sottogamba quei sentimenti?
Alcuni psicoterapeuti rispondono alla domanda in modo provocatorio.

Alice Miller, ad esempio, sostiene che non vi sia nulla di paradossale o di particolarmente sorprendente in tale atteggiamento, convinta che non sia corretto affermare che molti genitori ignorino le paure dei figli, o che non siano in grado di vedere la realtà attraverso il loro punto di vista, nonostante che vi siano passati pure loro. Al contrario, lo fanno proprio perché vi sono passati pure loro. È difficile assumere il punto di vista di un bambino perché ancor più difficile è assumere il punto di vista di se stessi da bambini. È troppo doloroso ammettere quello che si è subìto in un lontano passato.

“Il disprezzo è l’arma del debole”, osserva Miller, e la mancanza di rispetto di molti genitori nei confronti dei sentimenti dei figli è in funzione della loro debolezza nascosta dietro un’esile facciata di forza. Primo, gli adulti continuano ad avere le proprie paure, quindi li fa sentire forti ridicolizzare quelle, stupide, di un bambino. Secondo, alcuni genitori stanno forse cercando di vendicarsi “delle umiliazioni da loro stessi patite”. È plausibilissimo che tale modello funzioni a livello inconscio, dal momento che risulta troppo doloroso ricordare, per non dire rivivere, il proprio strazio e la propria impotenza16.

Onestamente non so quanto ci sia di vero in questa teoria o quante persone rispecchi. Forse esistono altre ragioni, più superficiali e contingenti, per cui accade spesso che i genitori non riescano a immedesimarsi nei sentimenti dei figli. Forse hanno poco tempo o pazienza per chiedersi: “Che interpretazione dà mio figlio a quanto accaduto?”. A esser sinceri preferirei pensare che la spiegazione fosse così semplice, perché in questo modo il problema potrebbe esser risolto più facilmente. Altrimenti dovremmo fare del nostro meglio per rammentarci esperienze particolari della nostra infanzia per aver ben presente quello che sta passando nostro figlio. Potrebbe risultare utile recuperare persino quelle esperienze vissute da adulti simili a quelle che sta provando il bambino - ad esempio come ci si sente ad essere comandati a bacchetta, o a veder ignorati i nostri gusti, o a sentirsi ordinare di interrompere qualcosa di divertente.

Si tratta, naturalmente, di puri esercizi - in vista dell’evento reale, di immaginazione della prospettiva del bambino. Si tratta di una pratica da attuare a partire da subito. Quando mia figlia aveva solo pochi mesi detestava che le si cambiasse il pannolino. All’inizio le rispondevo, in sostanza: “Mi spiace, tesoro, ma bisogna farlo, che ti piaccia o no”. Poi ho notato che il cambio le risultava particolarmente fastidioso appena dopo il risveglio. Ho provato a mettermi nei suoi panni: Hey! Sono ancora mezza addormentata e già mi sbattete su Quel Coso Dove Si Armeggia Con Il Mio Sederino! Ho provato a concederle dieci minuti, un quarto d’ora per svegliarsi per bene per poi cambiarle il pannolino, e vi assicuro che la reazione è stata molto, molto migliore.

È utile adottare il punto di vista di un neonato, in parte perché ci aiuta a prenderci l’abitudine anche più tardi. Dovremo di certo farlo al momento in cui nostro figlio inizierà a parlare, se non altro per smentire i soliti luoghi comuni sui bambini. Ad esempio i bimbi di due anni sono famosi per i loro numerosissimi no. Tuttavia dal punto di vista del bambino il problema sta nel fatto che siamo noi a dire sempre di no, impedendogli di fare così, di andare colà, di giocare con quella cosina tanto interessante sul tavolo in cucina17.
I bambini, di tutte le età, spesso vengono definiti “manipolatori”. Ma, ancora una volta, dal loro punto di vista forse stanno solo dibattendosi per avere voce in capitolo rispetto a quanto sta loro capitando. Se c’è qualche manipolatore, forse è l’adulto. I bambini potrebbero aver bisogno di un manuale intitolato Come gestire genitori difficili. Visto il tempo che sprechiamo a giudicarli e a correggerli, è divertente immaginarli disporre regolarmente della possibilità di fare altrettanto con noi - magari con un Gambero rosso dei piccoli sui piatti che rifiliamo loro:

I clienti promuovono entusiasti i “mitici” hot dog e i raffinatissimi dessert (“sempre che siate abbastanza fortunati da aggiudicarvene uno”), tuttavia raccomandano cautela per alcuni contorni “davvero disgustosi”; i cereali cotti in particolare, che hanno un aspetto “vomitevole”. Il servizio è valutato in modo disomogeneo: ottimo il punteggio per l’attenzione riservata al cliente, tuttavia tra gli ospiti ce n’è almeno uno che lamenta di poter fare a meno della “signorina che continua a ripetere di star seduto dritto e di non ciondolare”.

L’umorismo è strettamente collegato al perspective taking perché la risata è spesso diretto risultato di un cambio di prospettiva, e può essere uno strumento efficace per sdrammatizzare un momento di tensione o per rompere il ghiaccio in un incontro potenzialmente freddino. Se vi sedete accanto a vostro figlio per parlare di un lato del suo carattere che vorreste modificasse, potreste invitarlo a imitare il vostro tipico modo di rampognarlo su quel punto. È un sistema per sciogliere le tensioni, per farlo sentire responsabilizzato e per fargli capire che sapete come appaiono le cose dal suo punto di vista - tutto nello stesso tempo.
Il perspective taking si rivela utile anche quando passate del tempo in compagnia dei figli degli altri. È impressionante quanti siano gli adulti che, di corsa tra un impegno e l’altro, ignorano gli evidenti segnali non verbali dei bambini che, rimasti indietro, si sentono apostrofare con un “vergogna!” (se non peggio). Al contrario gli adulti che si sentono dire di “saperci fare con i bambini” mostrano, di solito, un certo intuito riguardo il loro modo di vedere le cose. Quando viene presentato loro un bimbo non si aspettano un calore immediato, sapendo che il loro stesso figlio, di solito tanto esuberante, con ogni probabilità non si comporterebbe con uno sconosciuto come si comporta con il genitore. Non soffocano il nuovo amico con il proprio entusiasmo, né lo sottopongono a un controinterrogatorio (“Quanti anni hai? Che scuola fai?”), ma, sulle prime, mantengono le distanze lasciando che sia il bambino ad avvicinarsi, magari perché ha visto qualcosa di interessante e vorrebbe porre qualche domanda in merito.

Potrebbero poi trovare qualche attività da fare insieme, facendosi un’idea del bimbo osservando quello che gli interessa, se ha voglia di parlare o di giocare e così via.
Sarà più semplice farsi un’idea, che siamo noi o qualcun altro, del bambino se riusciamo a vedere il mondo attraverso i suoi occhi. Giorno dopo giorno il perspective taking migliora il nostro modo di essere genitori. Anche quando non sappiamo rispettare i gusti dei nostri figli, è di vitale importanza fare del nostro meglio per comprenderne e riconoscerne il punto di vista (“Immagino che a te sembri…”). In questo modo li faremo sentire ascoltati, accuditi e amati incondizionatamente.
Chiaro che non è “o tutto, o niente”: quando si discute sulla frequenza e sulla capacità del genitore di immaginare la realtà attraverso il punto di vista dei figli, esistono molte gradazioni intermedie tra “sempre” e “mai” - o tra “eccellente” e “pessimo”. Lo stesso vale per tutti i temi discussi in questo libro. Sono pochi i genitori ad applicare tecniche esclusivamente impositive o collaborative, o a nutrire un amore puramente condizionato o incondizionato. Gran parte di noi si trova, spesso, nel mezzo. Per la stessa ragione non posso dirvi che esistono interruttori che, premuti, ci facciano smettere di colpo di essere in un modo per essere in un altro. Possiamo, al contrario, pensare di essere partiti per un viaggio in cui ci impegneremo a migliorare progressivamente seguendo la giusta direzione.

Non è mai troppo tardi per intraprendere il viaggio? A volte mi vengono chieste rassicurazioni circa la possibilità di cancellare i danni eventualmente causati da anni di amore condizionato e di eccessivo controllo. È ovvio che risulta impossibile dare una risposta certa, ma ci vuole un enorme coraggio per ammettere di aver battuto la strada sbagliata, coraggio di per sé di ottimo auspicio per il futuro. C’è motivo di credere che, a prescindere dall’età del bambino, non è mai troppo tardi per iniziare ad avere un rapporto positivo. Tutti noi disponiamo di ampi margini di miglioramento. Per quanto, e per qualsivoglia ragione, possiate aver educato i vostri figli in modo non molto costruttivo, ogni momento è buono per cambiare le cose.

Amarli senza se e senza ma
Amarli senza se e senza ma
Alfie Kohn
Dalla logica dei premi e delle punizioni a quella dell’amore e della ragione.Un classico dell’amore incondizionato. Come crescere i figli eliminando finalmente i piccoli ricatti, le minacce, le promesse e i premi. Crescere un figlio non è un gioco da ragazzi!Diventare genitori è un esame costante sulle capacità di affrontare disordine e imprevedibilità, un ruolo per cui non ci si può preparare davvero.Una delle difficoltà maggiori è la tentazione di domare l’atteggiamento di opposizione dei figli alle nostre richieste, rischiando di trasformarli in burattini addomesticati o, al contrario, di provocare danni approvando tutto ciò che dicono e fanno.Allora, come farsi obbedire dai propri figli?Sistemi educativi quali punizioni, castighi, premi e altre forme di controllo inducono i nostri figli a credere di essere amati solo se ci compiacciono o ci colpiscono in modo favorevole.Nel suo libro Alfie Kohn si allontana dai messaggi veicolati da certi metodi convenzionali e ribalta la prospettiva, chiedendosi quali siano i bisogni dei nostri figli e come possiamo soddisfarli.L’autore suggerisce una serie di idee per allontanarsi da metodi abituali che prevedono l’imposizione di qualcosa ai bambini, per approcciarsi a modalità che portino invece alla collaborazione con loro.Amarli senza se e senza ma risponde a una domanda cruciale: le nostre azioni quotidiane possono contribuire a rendere nostro figlio l’adulto che vorremmo?Consigli utili affinché il bambino possa aspirare a diventare un adulto sano, responsabile ma allo stesso tempo sensibile e premuroso.Un libro rivoluzionario e illuminante per diventare a tutti gli effetti genitori senza se e senza ma, poiché uno dei bisogni fondamentali del bambino è proprio essere amato in maniera incondizionata ed essere accettato anche quando combina guai o fallisce: in sintesi, essere amato per quello che è e non per quello che fa. Conosci l’autore Alfie Kohn ha pubblicato diversi libri, tra cui Punished by Rewards e The Schools Our Children Deserve, che hanno dato un forte contributo all’operato di educatori e genitori. Vive con la famiglia nei pressi di Boston, dove tiene conferenze e seminari, ed è raggiungibile sul web all’indirizzo www.alfiekohn.org.