CAPITOLO VIII

Amare senza se e senza ma

L’accettazione incondizionata sarà pur auspicabile, ma è fattibile? Prima di dare risposta a questa domanda cruciale, chiariamo bene che cosa ci stiamo chiedendo. Il punto, in questo caso, non è accettare se stessi senza condizioni - ossia se siamo tutti dotati di autostima incondizionata (vedi cap. II), quanto sapere se sia realistico ipotizzare di poter accettare e amare i nostri figli per quello che sono, senza se e senza ma.
A questo punto penso che la risposta sia, ovviamente, sì. Sono tantissimi i genitori a pensarla in questo modo. Ma è possibile, giorno per giorno, trattarli in maniera che non dubitino mai del nostro amore? Ricordate che è necessario infliggere loro qualche frustrazione dicendo dei no. A volte siamo impazienti e ci arrabbiamo pure, e i bambini fanno molta fatica a cogliere i sentimenti nascosti dietro il nostro umore mutevole. Quindi siamo in grado di affermare con certezza che i nostri figli si sentano sempre amati senza condizioni?
Forse no. Tuttavia il nostro obiettivo è quello di avvicinarci il più possibile a questo ideale. Dopo tutto anche la felicità perfetta potrebbe sembrare una meta irrealistica: si tratta, come disse uno scrittore, di uno stato immaginario che di solito gli adulti attribuiscono ai bambini, e i bambini agli adulti. Ciò, tuttavia, non dovrebbe indurci a smettere di cercare di essere più felici1. Lo stesso vale per altre qualità, quali la gentilezza e la saggezza, che non raggiungono mai la perfezione.
Il fatto che tanti genitori sembrino accettare i figli solo in modo condizionato non riduce i danni di una simile abitudine, né la rende più ammissibile.
Ricordate, poi, che non stiamo dicendo di viziarli o di lavarsene le mani. L’amore incondizionato gioca un ruolo attivo nella vita dei figli, proteggendoli e aiutandoli a distinguere il bene dal male. In sostanza il punto non è se dovremmo avvicinarci il più possibile a questo tipo di amore, né ci sono molti dubbi sulla nostra capacità di riuscirci. Il fatto che esista sempre margine di miglioramento non significa che non si possa fare sempre meglio. Si può e si deve. Il problema è come.

Verso l’amore incondizionato

Il primo passo è essere consapevoli del concetto di amore condizionato nella sua interezza. Più ci muoviamo in questa direzione, riflettendo sull’eventualità che quanto diciamo ai nostri figli o il nostro comportamento nei loro riguardi possa essere, a ragione, interpretato come affetto condizionato (e nel caso, perché), più sarà possibile cambiare il nostro atteggiamento.
Pensate a un genitore che afferma: “Stavamo cercando di capire che cosa fare con nostro figlio: quando gli ho chiesto di pulire camera sua, mi ha urlato dietro cattiverie sbattendo la porta. Dovremmo concedergli qualche minuto per calmarsi? Quando dovremmo essere rigidi? Non ci avevo mai pensato prima d’ora, ma mi domando se quello che decideremo di fare gli farà credere di non essere amato quando si arrabbia”. Quello che voglio dire è che già solo considerare tale eventualità rappresenta un passo avanti nella giusta direzione, indipendentemente da come questo genitore finirà di fatto per gestire la situazione.

In secondo luogo dobbiamo abituarci a porci una domanda ben precisa:
“Se il commento che ho appena fatto a mio figlio fosse stato rivolto a me - o se quello che ho appena fatto fosse stato fatto a me - mi sentirei, ioamato senza condizioni?” Non è un’operazione mentale tanto difficile, ma applicarla regolarmente rappresenterebbe un bel cambiamento.
Quando la risposta a tale domanda è un “no” secco, c’è poco da fare: dobbiamo concludere che quanto fatto non va ripetuto. Potremmo sentirci spinti a chiedere scusa, ma se non ci poniamo questa domanda, è facile che andremo avanti a giustificare tutti i nostri comportamenti. In realtà alcuni genitori, quando si accorgono che i loro gesti o le loro parole hanno avuto un brutto effetto sui figli, arrivano a dirsi che il bambino è troppo sensibile.

Quando ci chiediamo “Come mi sarei sentito, io?”, non ce la caviamo più tanto facilmente.
Non appena si ha un figlio è bene pensare al tipo di genitori che si vuol essere, più precisamente al modo di reagire quando le cose non vanno tanto lisce. Ci sinceriamo sempre che il nostro piccino si senta amato e accettato anche quando non smette di piangere, quando sporca il pannolino appena cambiato, o quando non è proprio un “dormiglione”? Alcuni si trasformano tosto in genitori perfetti, amorevoli e presenti fintanto che i figli sono gestibili.
Ma l’amore incondizionato ci vuole proprio quando non lo sono.
Crescendo, i bambini mettono a dura prova la nostra pazienza in modi sempre diversi. Devo elencarvi alcuni esempi? A volte dicono cose insopportabili, o si comportano in modo inaccettabile. Fanno proprio quello che diciamo loro di non fare, il che manda in bestia soprattutto quei genitori che, per loro problemi di carattere psicologico, si ostinano a pretendere obbedienza assoluta. Preferiscono sfacciatamente un genitore all’altro, il che non è molto piacevole quando l’altro genitore sei tu. Colgono i vostri punti deboli, sfruttandoli a loro vantaggio. E ciò nonostante non solo dobbiamo continuare ad accettarli, ma abbiamo il dovere di far loro sapere che li accettiamo ancora.

In altre parole dobbiamo, in qualche modo, comunicare loro il nostro amore anche quando non siamo particolarmente entusiasti del loro comportamento.
Tuttavia si tratta di una raccomandazione spesso buttata lì con troppa nonchalance. Il fatto è che, spesso, è difficile persino per un adulto, figuriamoci poi per un bambino, trovarci un senso. “Accettiamo te, ma non il tuo comportamento” è una frase assai poco convincente se i gesti di nostro figlio che incontrano il nostro favore sono davvero pochi. “Chi sarebbe quel ‘me’ indefinito che dite di amare”, potrebbe chiedersi “visto che non fate altro che criticarmi?”. Come sottolinea Thomas Gordon “I genitori che trovano inaccettabile gran parte di quello che i loro figli fanno o dicono ne incentiveranno inevitabilmente la sensazione di essere persone inaccettabili”2. Le cose non cambieranno solo rivolgendo al figlio un tenero “Ma noi ti vogliamo bene, tesoro, solo che detestiamo quasi tutto quello che fai”.
Come prima cosa, è necessario rendersi conto che le rassicurazioni verbali non sono una scusa per il ricorso alle punizioni o, in alternativa, al controllo. Gli interventi “impositivi” restano sempre inaccettabili, e continuano a comunicare un tipo di accettazione condizionato, per quanto sporadicamente ci capiti di pronunciare qualche parolina magica.

Che cosa limitare

Cosa dovremmo fare quando un bambino si comporta in maniera molesta o inappropriata? Anche nel caso in cui non approviamo la sua condotta e desideriamo farglielo sapere, le nostre reazioni dovranno tener conto del quadro generale - nello specifico dell’imperativo di assicurarsi che si senta amato e amabile. L’obiettivo è quello di non ricadere nell’amore condizionato.
Ecco come è possibile:

Limitate le critiche
Mordetevi la lingua e ricacciatevi in gola molte delle vostre osservazioni.
Innanzitutto risposte negative molto frequenti risultano controproducenti.
Se i nostri figli avvertono che è impossibile accontentarci, smetteranno di provarci. Operare una scelta in merito a quello che critichiamo o vietiamo fa sì che i nostri “no” siano circoscritti alle occasioni in cui sono strettamente necessari (vedi cap. VII). Il problema vero, tuttavia, è che troppe critiche e troppa disapprovazione inducono il bambino a sentirsi non meritevole.

Limitate la portata delle critiche
Concentratevi su quello che c’è di sbagliato in un determinato comportamento (“Ti sei rivolto a tua sorella con un tono proprio scortese”) senza insinuare che ci sia qualcosa che non va nel bambino (“Sei proprio cattivo con gli altri”).

Limitate l’intensità delle critiche
Non importa quante volte abbiate reazioni negative, ma quanto siano negative le vostre reazioni ogni volta. Nel sincerarvi che il vostro messaggio giunga a destinazione, siate il più delicati possibile. Anche la minima emozione può avere grande effetto; il risultato di quello che diciamo è amplificato dal potere insito nell’essere genitori. Anche quando ci sembra che ci ignorino, i bambini assorbono le nostre cattive reazioni - che li influenzano nel profondo - più di quanto non vogliano. In realtà potremmo finire per essere più incisivi proprio quando non ci andiamo con la mano pesante. Siate consapevoli non solo di quello che dite, ma anche del linguaggio del corpo, le espressioni del viso, il tono della voce. Tutti elementi in grado di comunicare disapprovazione o condizionalità al di là delle nostre intenzioni.

Cercate alternative alle critiche
Non solo ha senso, come dire, abbassare il volume ma anche cambiare canale. Quando un bambino si mostra distratto, offensivo o antipatico, provate a considerarla come un’occasione per imparare. Invece di dire “Che c’è? Non t’ho appena detto che non si fa?!” - oppure “Quando fai così mi deludi” - provate a fargli notare le conseguenze delle sue azioni, come rischi di ferire i sentimenti del prossimo o di rendergli la vita difficile.
Le critiche non si renderanno più necessarie se ci limitiamo a dire ciò che vediamo (“Mi sembra che Jeremy ci sia rimasto un po’ male per quello che gli hai detto”) e a fare domande (“La prossima volta che ti senti frustrato, cosa potresti fare al posto di spintonare?”). Non è, ovviamente, garanzia di successo, ma favorisce un notevole miglioramento sul fronte delle possibilità di sviluppare un interesse a comportarsi in maniera più ragionevole.
Possibilità che aumentano ulteriormente se si invita il bambino a pensare a come migliorare le cose, riparandole, spostandole, rimettendole a posto, o chiedendo scusa, a seconda delle situazioni.

Potrebbe sembrarci scontato, ma capita di dimenticarci che anche quando i ragazzini combinano pasticci il nostro obiettivo non dovrebbe essere quello di mortificarli, né di sopprimere per sempre un determinato comportamento, ma di lavorare sul loro modo di pensare e sui loro sentimenti, contribuendo a farli diventare persone che non desiderano essere crudeli.
Nostro ulteriore obiettivo è, chiaramente, quello di evitare che durante il percorso non venga compromessa la relazione con loro.
Un sistema molto pratico per far sì che i vostri interventi non trasmettano accettazione condizionata è quello di non mettere il muso. Con l’esortazione “fai il genitore!” di solito si intende suggerire di tenere tutto sotto controllo e di puntare i piedi. Io invece la intendo come impegno a resistere alla tentazione di un qui pro quo infantile: “Ah sì? Se non pulisci in camera tua, niente dolce, va bene?!?”. Sono molti i manuali che incoraggiano questo metodo educativo (senza l’“Ah sì?” e il “va bene?!?”, certo). Se ci pensate bene risulta piuttosto ovvia l’inutilità di un tale approccio.
Mi ricordo che un giorno, a due anni, mio figlio si era stufato di aspettare che la sorella, di sei, smettesse di giocare con un giocattolo per poterlo usare lui. Cerca quindi di strapparglielo, facendola arrabbiare molto. Con uno spintone lei riprende possesso del giocattolo, proclamando: “Non glielo voglio più dare perché ha cercato di portarmelo via”. Gli stava dando una lezione, spiegandogli che siccome aveva fatto una cosa sbagliata sarebbe stato punito saltando un turno. La domanda è: vogliamo comportarci con i nostri figli come se anche noi avessimo sei anni? Molti atteggiamenti fatti passare per disciplina non sono altro che dispetti per farci avere la sensazione di esserci vendicati.

Essere genitori significa avere obblighi non sempre facili da rispettare.
Mia moglie non manca mai di ricordarmi, specie dopo l’ennesima cena  asciata intatta dai nostri figli, che tutto quello che possiamo fare è preparare pasti nutrienti (tenendo presente i loro gusti laddove possibile) e sperare per il meglio. E non è solo tutto quello che possiamo fare, ma anche quello che dobbiamo continuare a fare, nonostante i pasti finiti nella pattumiera.
Lo stesso vale per l’amore incondizionato. Si continua a fare del proprio meglio per offrirlo nonostante gli sforzi sembrino poco apprezzati e poco corrisposti. A volte i nostri figli ci trattano in un modo che rassomiglia in maniera impressionante alla negazione dell’amore. Ci sputano addosso un “Vattene!”o un “Non ti voglio più bene!” se si sentono traditi o intralciati, o per motivi che a noi sembrano banali. Il nostro compito, tuttavia, è restare calmi, evitando di comportarci alla stessa maniera e prendendo tale comportamento per quello che è - ossia una manifestazione transitoria di frustrazione. In realtà non hanno smesso di volerci bene. È commovente come persino i bambini maltrattati continuino a voler bene ai loro aguzzini. Non dimentichiamo mai l’assenza di simmetria: non si tratta della relazione tra due adulti con la stessa forza. Anche il minimo indizio di un’eventuale negazione dell’amore nei confronti dei vostri figli avrà un effetto assai più deflagrante di un “Ti odio!” urlatovi in faccia da loro.

Che cosa incrementare

Dobbiamo ridurre tutto ciò che rischia di trasmettere un messaggio di accettazione condizionata, ma dobbiamo altresì incrementare tutto ciò che può trasmettere un messaggio di accettazione incondizionata. La prima domanda che vi propongo è tanto ovvia che molti di noi non smettono mai di porsela: come mi sento quando sto con i miei figli? Chiaro che il problema non sussiste per quelle persone con il sorriso perennemente sulle labbra, accada quel che accada. Saprebbero trascorrere l’intera giornata in una casa gremita di bambini vocianti senza mai smettere di rispondere, pazienti, a ogni richiesta, imperturbabili dopo una raffica incessante di domande. Ma tutti gli altri, che guardano a certi genitori cronicamente giulivi con un misto di invidia e di incredulità? Sarà piuttosto difficile che si trasformino in persone più liete o pazienti, ma potranno, e dovranno, investire tutte le loro energie nel cercare di essere il più possibile positivi con i loro figli.

Invece di considerare le differenze di carattere o di capacità come immutabili - certe persone sono nate così mentre altre sono, di natura, cosà - penso sarebbe molto più utile ragionare in termini di sforzi che ognuno di noi deve produrre per raggiungere lo stesso obiettivo. Mio cognato ha una senso dell’orientamento tale da permettergli di orientarsi in luoghi a lui ignoti, senza prestare particolare attenzione. Io, invece, faccio una gran fatica a orizzontarmi in luoghi che non conosco affatto.
Lo stesso può valere anche per gli stati emotivi: i genitori che, per natura, sono meno ottimisti e indulgenti sono tenuti a impegnarsi per esserlo un po’ di più, per lo meno quando sono con i loro figli. I risultati di tale impegno contribuiranno a determinare se, e come, i loro figli si sentiranno amati. Se i nostri bambini sanno che siamo felici di vederli, è già un buon inizio per trasmettere loro qualcosa di simile all’amore incondizionato. Se, al contrario, capita loro di sentirsi di frequente giudicati in modo negativo - cattivo umore (che potrebbero erroneamente interpretare come loro responsabilità), occhi al cielo, sospiri spazientiti - sono sintomo di qualcosa di molto dissimile dall’amore incondizionato.

La domanda più urgente è, naturalmente, come dovremmo trasmettere il nostro amore ai figli dopo che si sono comportati male, anche quando pensiamo che dovrebbero già esserne certi (gliel’avremo ripetuto già un centinaio di volte!). A tale proposito è normale affermare che stanno mettendoci alla prova, definizione molto diffusa in campo disciplinare e spesso utilizzata per giustificare l’imposizione di limiti maggiori e più rigidi. A volte la convinzione che i figli ci stiano mettendo alla prova diventa persino la razionalizzazione delle nostre punizioni. Sospetto, tuttavia, che con la propria disobbedienza, i bambini mettano alla prova tutt’altro - per la precisione l’incondizionalità del nostro amore. Forse si comportano in modo inaccettabile per verificare se smetteremo di voler loro bene.
La nostra reazione deve essere un secco rifiuto ad abboccare. Abbiamo il dovere di rassicurarli: “Indipendentemente da quello che combinerai, per quanto frustrato possa sentirmi, non smetterò mai, mai e poi mai di volerti
bene”. Dirlo con tutte queste parole non nuoce, tuttavia sarà bene dimostrarlo pure con i gesti. I genitori che amano in modo incondizionato rassicurano regolarmente i propri figli, specie nei momenti conflittuali, dell’importanza che essi hanno per loro. Quando un bambino si comporta in maniera tutt’altro che auspicabile quel tipo di genitore tende a considerarlo un fenomeno transitorio che non appartiene al suo carattere, e non rappresenta il bimbo da loro conosciuto e amato (si noti, a tale riguardo, che un sollecito a enfatizzare l’incondizionalità del nostro affetto è cosa ben diversa dal solito consiglio di alternare critiche e lodi. I giudizi positivi non cancellano quelli negativi, poiché il problema risiede proprio nel giudizio. A breve mi dilungherò su questo punto).

Tali raccomandazioni - quale l’intero principio dell’accettazione incondizionata - riguardano altresì gli educatori. Marilyn Watson, psicopedagogista che aiuta gli insegnanti a fare delle proprie classi comunità accoglienti, sottolinea l’importanza di far sentire gli studenti stimati e accettati. Un insegnante può mettere in chiaro la scorrettezza di determinati comportamenti pur continuando a trasmettere “una rassicurazione molto profonda - la rassicurazione di averli ancora a cuore e di non volerli punire o abbandonare, anche quando combinano qualcosa di molto grave”. Posizione che consente “alle loro migliori intenzioni di emergere”, dando così “spazio e sostegno a una riflessione e a un impegno autonomo verso un gesto morale di ammenda” - ossia alla ricerca di una modalità per riaggiustare le cose dopo aver commesso un errore. “Se desideriamo che i nostri studenti siano certi della nostra premura”, conclude Watson, “dobbiamo mostrare il nostro affetto senza pretendere in cambio che si comportino o agiscano in un modo particolare. Non che non auspichiamo o che non ci attendiamo un certo comportamento: in realtà è così. Tuttavia il nostro interesse e il nostro affetto non dipendono da questo”.

La psicopedagogista sottolinea come risulti più facile mantenere tale condotta, nonostante che i ragazzi si mostrino spesso irrispettosi o aggressivi, se si tiene a mente il perché di determinati comportamenti. Il concetto è che l’insegnante deve riflettere sui bisogni degli studenti (da un punto di vista emotivo) che, forse, sono stati disattesi. In tal modo gli è possibile vedere “il bambino vulnerabile nascosto dietro una facciata torva o
turbolenta.”3. Gli educatori, così come i genitori, potrebbero interpretare le provocazioni come il mezzo di cui dispone il bambino per mettere alla prova l’adulto, e verificare la sua intenzione di negargli o no il proprio interesse.

Un insegnante affrontò un suo studente particolarmente difficile sedendosi con lui e dicendogli: “Sai che ti dico? Che mi piaci davvero molto: vai pure avanti così che non riuscirai a farmi cambiare idea. Sembra quasi che tu voglia farti detestare, ma non ti riuscirà. Non mi sogno nemmeno di detestarti”. Poi aggiunse: “Non dico subito, ma un po’ dopo, ha iniziato a contenere il suo comportamento aggressivo”4. La morale è che l’accettazione incondizionata non è solo qualcosa che tutti i bambini meritano, ma anche un sistema molto efficace per renderli persone più gradevoli (certo, è bene essere sinceri nell’assicurarli del nostro amore senza condizioni.
Non c’è niente di peggio della vuota messa in scena di un copione tratto da un libro).

Oltre le minacce

Non è sempre facile sospendere quegli atteggiamenti che, in maniera subdola e spesso inconsapevole, trasmettono l’idea che i bambini debbano guadagnarsi la nostra approvazione. Ironia vuole, però, che alcuni genitori trovino ancor più difficile rinunciare ai metodi più oppressivi, quelli che consistono nell’utilizzo del proprio amore come leva per ottenere l’obbedienza dei figli. Il ricorso a punizioni (tra cui castighi e altre forme di negazione dell’amore) e premi (ad esempio il rinforzo positivo) rende ancor meno probabile che i figli si sentano amati senza se e senza ma.
Eppure, per tutte le ragioni elencate al capitolo VI, risulta tremendamente difficile abbandonare certe abitudini. Come gli ex fumatori, perennemente sottoposti alla tentazione di riaccendere la sigaretta, anche noi restiamo suscettibili al richiamo dell’amore condizionato e dall’apparente convenienza di ricatti e minacce. Persino i numerosi assunti del comportamentismo, impliciti in metodi di questo tipo, possono risultare seducenti. Ogni tanto mi sorprendo a domandarmi se i miei figli considerino mai le espressioni del mio amore incondizionato come premio per la loro disobbedienza.

Certo so bene che non è così. Come ho già detto, ne ho conferma da quanto appreso grazie all’osservazione di genitori esemplari: punizioni e premi non sono mai consigliabili, né necessari. Prima di ammetterlo, tuttavia, molti sono tentati di chiedere “Qual è l’alternativa?”. Domanda più ostica di quanto sembri perché non c’è un metodo particolare in sostituzione di punizioni e premi. Quello che intendo proporre io è la realizzazione di una dinamica genitore-figlio completamente diversa. In altre parole l’“alternativa” non risiede in una tecnica specifica, ma consiste in quanto esposto nella seconda metà del libro.

Molti manuali di comportamento propongono, come avrete avuto modo di constatare, consigli su sistemi più efficaci di applicazione di punizioni e premi, considerando come obiettivo quello di piegare il bambino, facendolo desistere. Ci pensavo proprio l’altro giorno al supermercato, osservando una madre che, tra i denti, ammoniva il figlio “Se vuoi che ti riporti al supermercato, vedi di calmarti!” (non c’è bisogno di precisare che il suo tono era tutt’altro che calmo). Ho pensato che l’esperto-tipo sottolineerebbe, con qualche giustificazione, la stupidità di una minaccia del genere. Innanzitutto la prospettiva di non venir mai più trascinati al supermercato non rappresenta, per la maggioranza dei bambini, una minaccia poi tanto terrificante.
E quand’anche lo fosse, non c’è quasi alcuna possibilità che la madre dia seguito alla minaccia bandendo per sempre il figlio dal supermercato.
Specie con bambini troppo piccoli per essere lasciati soli in casa, si è spesso costretti, volenti o nolenti, a portarseli dietro. Quindi ecco il consiglio dell’esperto: promettete solo ciò che potete effettivamente mantenere.

Dire una cosa del genere ai genitori, tuttavia, è un po’ come avvertire un bambino di non promettere di picchiare un compagno fuori di scuola a meno che non sia certo di avere la meglio. Il punto, in altre parole, è quello di riuscire in un’impresa moralmente dubbia (e controproducente) e non di chiedersi se sia giusto o no compierla. I genitori che amano incondizionatamente desiderano sapere come comportarsi in alternativa alle minacce e alle punizioni. Non considerando quella con i figli una relazione conflittuale, il loro obiettivo è quello di evitare gli scontri, non di vincerli. Il ricorso alle punizioni rende tale obiettivo più difficile da realizzare, e i consigli su come aumentare l’efficacia delle punizioni non aiuta a capirlo.

Prendiamo in esame i tipi di punizione che possono essere definiti negazione
dell’amore. Ignorare un bambino che si è comportato in maniera impropria, imponendogli il silenzio, significa ricorrere a un temporaneo abbandono emotivo, come se se ne ignorasse del tutto l’esistenza fintanto che non si è contenti di lui. Ciò presuppone, alla maniera tipica del comportamentismo, che la nostra attenzione non è altro che un “rinforzo”, e che la sua mancanza farà sì che il bambino smetta di comportarsi in un dato modo. Si tratta di un’analisi incredibilmente semplicistica degli atteggiamenti dei ragazzi, che non tiene conto dei loro bisogni impliciti, per non parlare delle ripercussioni sulla relazione.

Lo psicologo Herbert Lovett ha osservato che, ignorando un bambino che si comporta male, il messaggio trasmesso è: “Non sappiamo perché ti comporti così e non ci interessa”. Giustificare un atteggiamento del genere insistendo che i bambini che fanno i capricci lo fanno solo per “attirare l’attenzione”, precisa Lovett, pare sottintendere che “il desiderio di essere notati [sia] un bisogno sciocco e misterioso”. È come se vi prendessero in giro perché siete andati a cena con gli amici spiegando che lo avete fatto solo per il “desiderio di compagnia”5.

Ci sono momenti, a dire il vero, in cui un bambino arriva a ripetere la stessa richiesta all’infinito. Gli spiegate perché non può mangiare il biscotto prima di cena; sorridendo comprensivi concordate che è proprio difficile resistere a una simile leccornia. Lui ve lo chiede di nuovo, e di nuovo gli ripetete la ragione del vostro no. All’ennesimo annuncio della volontà di mangiare a tutti i costi, e subito, il biscotto, sentite che incomincia a scapparvi la pazienza. Fate presente, con calma, che non serve chiederlo un’altra volta e gli proponete qualcosa di interessante per tenerlo occupato fino all’ora di cena. Se tuttavia non v’è prospettiva di cedimento sul fronte biscotto, credo sia il caso di non dare più risposta. Il motivo però non è quello di mettere a tacere il bimbo (ovvero, ricorrendo al freddo linguaggio comportamentista, di “estinguere il comportamento”). Al contrario, avete smesso di rispondere solo perché non c’è molto altro da aggiungere. E lo avete fatto nel modo più garbato possibile, considerando che vi sentite stanchi e al limite della sopportazione. Non fingete che il bimbo non ci sia; mostrategli che lo sentite, lo vedete, vi interessate a lui. Forse continuerà a sentirsi frustrato, ma in teoria non si sentirà non amato.

Oppure pensate all’altra notissima forma di negazione dell’amore, quella denominata “castigo”. Il punto non è come attuarla o come applicarla in modo intelligente; il problema non è quanto a lungo bisogna isolare il bambino, o dove, o ancora per quale torto. In realtà la questione riguarda quali siano le strategie non punitive a cui ricorrere in alternativa. Come anticipato, può risultare opportuno dare al bimbo l’opportunità di ritirarsi in un luogo tranquillo e tranquillizzante nel momento in cui sente di essere sul punto di esplodere. Opportunità da discutere per tempo, in parte per chiarire che non si intende recluderlo o isolarlo contro la sua volontà. Si tratta di decidere di riprender fiato in una stanza tranquilla, magari per sfogarsi un po’ senza timore di eventuali ripercussioni, magari per passare qualche minuto in compagnia del libro preferito. In un momento di crisi il genitore potrebbe domandargli cortesemente se ha bisogno di ritirarsi, suggerimento che forse dovrebbe giungere in un secondo momento, dopo aver chiesto al bambino che cos’ha, ricordandogli che il suo comportamento ha delle conseguenze sugli altri, spiegandogli perché determinati gesti non possono essere accettati, cercando insieme una soluzione e così via.

E se le circostanze rendono questo tipo di scambio impossibile? E se il piccolo si trova in uno stato di agitazione tale da non poterlo lasciare dove si trova, ma lui declina l’invito a ritirarsi un pochino per conto suo? In quel caso l’ultima spiaggia è quella di allontanarlo con delicatezza dalla situazione e dal luogo in cui è sorto il problema - ma non da voi (“Andiamo a farci un po’ di coccole nella nostra tana”). Si tratta di un intervento che rischia di risultare un’imposizione della vostra volontà su di lui, costringendolo a fare qualcosa che preferirebbe evitare. Ecco perché sarebbe meglio ricorrervi solo in casi estremi. Tuttavia, nell’eventualità, assicuratevi di agire in modo tale che il vostro amore, la vostra attenzione e la vostra presenza non vengano mai meno.
Vorrei inoltre sottolineare che non sarebbe una cattiva idea che i genitori si mettessero in castigo. Quando sentiamo di aver perso la pazienza, se temiamo di dire o fare qualcosa di cui ci pentiremo, è bene scusarsi e andare a sbollire altrove. Ovvio, bisogna spiegare che è solo perché abbiamo bisogno di calmarci, e non per volontà di allontanamento dal bambino o perché è lui a doversi meritare di rientrare nelle nostre grazie.

Oltre i ricatti

Che dire della seconda forma di amore condizionato, quella che consiste nel concedere ai figli quello di cui hanno bisogno (o, semplicemente, che piace loro) solo se sono obbedienti o se ci compiacciono? L’alternativa è quella di offrire loro qualcosa senza alcuna ragione specifica, fare ogni tanto un dono speciale - un’attività divertente, un libro o un giocattolo amati in modo particolare - solo perché volete loro bene. Di fatto è piuttosto sconcertante accorgersi di quanto risulti poco amorevole fare un regalo ai figli come premio per aver obbedito a una nostra richiesta. Siamo capaci di così tanti gesti condizionati nei confronti del comportamento di un figlio che anche il nostro amore per lui finisce per essere visto come condizionato.
Certo i genitori tendono, spesso, a fare regali per motivi tutt’altro che ideali: alcuni, ad esempio, riempono i figli di oggetti perché si sentono in colpa per il poco tempo passato insieme. E i regali possono risultare eccessivi.
Non desideriamo coprire i nostri figli di cianfrusaglie, specie se la loro cameretta è già ingombra al punto di scoppiare6.

Quello che intendo sottolineare è che ogni nostro regalo dovrebbe essere donato senza se e senza ma. Un oggetto non dovrebbe mai essere un incentivo a comportarsi bene, a ottenere voti alti e via dicendo. Una volta ho acquistato i biglietti per uno spettacolo per bambini del Mago di Oz, per cui mia figlia va matta. Il giorno prima della rappresentazione la bimba ha inscenato un capriccio tale che ho dovuto lottare contro la tentazione di minacciarla che non l’avrei portata a teatro se non si fosse comportata bene.
Ho fatto presente a me stesso che, cedendo a tale tentazione, l’uscita sarebbe risultata uno strumento di controllo e non espressione del mio amore. Le due cose non possono coesistere.

Se è possibile viziare i figli riempiendoli di oggetti, lo stesso non vale per il troppo amore (incondizionato). Come scrive un autore il problema dei bambini che definiremmo viziati è che “ricevono troppo di quello che vogliono, e pochissimo di quello di cui hanno bisogno”7. Quindi, date loro affetto (di cui hanno bisogno) senza limiti, senza riserve, e senza scuse.
Prestate loro tutta l’attenzione possibile, indipendentemente dagli umori e dalle circostanze. Fate loro sapere che è una gioia per voi stare in loro compagnia, e che volete loro bene qualsiasi cosa accada. Atteggiamento, questo, che - come ho avuto modo di osservare - differisce completamente dalle lodi, che vengono elargite in risposta a un particolare gesto del bambino.

Con questo non voglio dire che i sentimenti ispiratici dai nostri figli debbano rimanere perfettamente stabili e uniformi. Come potrebbero? I nostri figli ci danno gioia, rabbia, perplessità. Ci fanno salire le lacrime agli occhi solo perché così teneri, o vulnerabili, oppure perché cresciuti tanto in fretta, e piangere perché ci fanno anche tanto arrabbiare. Ci capita persino di provare sentimenti contrastanti nello stesso momento, e molto di quello che sentiamo affiora sui nostri volti e dalla nostra voce. Non ci faranno sempre contenti, e loro lo sanno bene; ecco perché si rende necessario sforzarsi di trasmettere loro in tanti modi diversi che la base della nostra accettazione nei loro confronti è un dato di fatto, una roccia che resiste a prescindere da quanto ci capita di provare, e da quello che capita loro di fare, oggi.

Allo stesso modo non voglio dire che non sia giusto esser fieri di un determinato risultato. È strano, tuttavia, come i genitori che amano in modo incondizionato si sentano orgogliosi anche quando i figli registrano degli insuccessi.
Paradosso che ho trovato difficile da spiegare fintanto che non ho avuto figli a mia volta, e che continuo a trovare difficile da spiegare. Si può provare una gioia speciale quando un figlio fa qualcosa di notevole; tuttavia, ripeto, non tanto da far pensare che l’amore per lui dipenda unicamente da tale impresa. Se si riesce a mantenere questo equilibrio, i nostri figli non rischieranno di crescere nella convinzione di essere degni solo se hanno successo. Potranno fallire senza concludere di essere loro stessi dei falliti.

La forma più devastante di lode è quella che intende rinforzare esplicitamente il comportamento del bambino. Quando ci viene consigliato di “sorprendere i bambini quando fanno bene” (cioè obbedienti) per dar loro uno zuccherino verbale, abbiamo a che fare con il tentativo calcolato di manipolarli attraverso l’amore condizionato. Ma se la lode non è che una spontanea manifestazione di compiacimento per un gesto del bambino, senza la volontà di “rinforzare” alcun particolare comportamento?8
Si tratta senza dubbio di un enorme miglioramento sul fronte delle nostre motivazioni; tuttavia, di nuovo, l’importante non è il messaggio trasmesso - e neppure la ragione per cui l’avete trasmesso. L’importante è il messaggio ricevuto dal bambino. Ciò che più colpisce di un giudizio positivo non è il suo essere positivo (in quel caso la sola, vera alternativa alla lode sarebbe la critica). No: ciò che più colpisce è il suo essere un giudizio.
Perché mai sentiamo il bisogno di valutare di continuo le azioni dei nostri figli, facendo di esse un “lavoro” da ritenere, se sono fortunati, “buono”?
Da questo punto di vista, diventa chiaro che quello che stiamo in realtà cercando è un modo di essere positivi senza esprimere giudizi.

La buona notizia è che non c’è bisogno di valutare i nostri figli per incoraggiarli. La fortuna delle lodi risiede in parte nella mancata distinzione tra questi due princìpi. Prestare semplicemente attenzione ai loro gesti, mostrando interesse per le loro attività è una forma di incoraggiamento.
In realtà è assai più importante delle parole che seguono un’impresa meravigliosa da loro svolta. Quando l’amore incondizionato e il sincero entusiasmo sono sempre presenti, dire “Bravo!” non è necessario; quando mancano, dire “Bravo!” non serve.

Nel caso in cui non sappiate proprio che cosa dire, ecco diverse possibilità in linea con l’amore incondizionato (a tale proposito consultate la tabella più avanti). Un’opzione è quella di non dire nulla. C’è chi insiste con l’affermare che bisogna lodare i bambini quando si dimostrano servizievoli perché, subdolamente o inconsapevolmente, convinti che si tratti di un caso fortunato. Se i bambini sono fondamentalmente cattivi, hanno bisogno di avere una ragione fittizia per essere garbati (ossia ricevere un premio verbale); altrimenti non lo sarebbero mai più. Tuttavia se questa cinica convinzione si rivela infondata, allora non c’è alcun bisogno delle lodi.
A tutta prima potrebbe risultare strano trattenersi se si ha l’abitudine di esprimere valutazioni in maniera costante (“Che bel disegno!” “Che bella bevuta!” “Che bella sbavata!”). Potreste dare l’impressione di non essere incoraggianti. Ma dall’osservazione di un vasto numero di genitori, me compreso, mi sono convinto che la lode non dipende tanto da quello che i bambini hanno bisogno di sentire, quanto da quello che noi abbiamo bisogno di dire.

Se ciò è vero, allora è il momento di ripensare a quanto stiamo facendo.
Nelle occasioni in cui sentiamo che sarebbe il caso di dire qualcosa, possiamo limitarci a sottolineare quanto osservato, lasciando il bambino libero di decidere che cosa pensarne (piuttosto che suggerirglielo noi). Una semplice osservazione, scevra di valutazioni, indica al bambino che lo avete notato,
permettendogli altresì di essere orgoglioso del proprio lavoro. Quando, a due anni, mia figlia è finalmente riuscita a salire le scale da sola ne sono stato, com’è ovvio, entusiasta, ma non ho avvertito il bisogno di sottoporla al mio giudizio. Le ho solo detto: “Ce l’hai fatta” in modo che sapesse che l’avevo guardata con interesse e che fosse pure orgogliosa di sé.

In altre circostanze potrebbe rendersi necessaria una descrizione più elaborata, ma senza la contaminazione di eventuali valutazioni. Basterebbe un semplice riscontro rispetto a quanto osservato. Se un bambino fa qualcosa di gentile o di generoso, si può fargli notare l’effetto della sua azione nei confronti dell’altro. È un atteggiamento completamente diverso dalla lode, che mette l’accento sul sentimento del genitore rispetto al gesto di condivisione.

Infine le domande sono ancora meglio delle descrizioni: perché mai riferire al bambino quello che si pensa del suo gesto se si può domandargli che cosa ne pensi lui? In questo modo è possibile favorire un’utile riflessione sui motivi per cui risulta più indicato comportarsi in una maniera piuttosto che in un’altra. Porgergli domande su quanto scritto, fatto o disegnato da lui, intanto, è un invito a valutare quanto prodotto e come lo ha prodotto, spronandolo a migliorarsi e a nutrire interesse per il compito svolto. Ricordo che, come rivelano le ricerche, la lode rischia di avere l’effetto opposto, spostando l’attenzione dal compito alla reazione del genitore.

Di recente ho partecipato a un laboratorio organizzato dalla biblioteca di zona, in cui si invitavano i bambini a creare fiocchi di neve con scovolini e perline. Un bimbo di quattro-cinque anni seduto accanto a me mostra alla madre il suo lavoretto, e subito lei ne esalta con entusiasmo la bellezza.
Dopo di che, essendo io l’altro adulto al tavolo, il fiocco di neve viene mostrato pure a me. Guardandolo da vicino, invece di darne una valutazione, chiedo al bambino se a lui piace. “Non molto”, confessa. Gli domando perché, e lui me lo spiega con un tono che rivela un sincero interesse nell’individuare modalità alternative di utilizzo del materiale. Ecco il tipo di elaborazione e di riflessione che viene soffocata quando i figli vengono sommersi di lodi. Non appena ne giudichiamo il lavoro, loro tendono a smettere di pensarci e di parlarne.

Invece di dire...
Provate a …
“Mi piace come hai…”
Non dire niente
(limitandovi a prestare attenzione)
“Che bel disegno!
Come l’hai fatto bene!”
Descrivere, e non a valutare, quanto vedete:
“Oh, c’è qualcosa di nuovo nei piedi dei personaggi
che hai disegnato: le dita”.
“Sei stato di grande aiuto!”
Spiegare gli effetti delle sue azioni sul prossimo:
“Hai apparecchiato! Accidenti, mi hai semplificato
la vita, visto che sto cucinando”.
“Che bel tema hai scritto.”
Intavolare una riflessione: “Come hai fatto a
catturare l’attenzione del lettore già dalle prime
righe?”
“Sei stato proprio generoso,
Michael.”
Chiedere invece di giudicare: “Che cosa ti ha
convinto a offrire i tuoi biscotti a Deirdre senza
che ce ne fosse bisogno?”

Le risposte suggerite in tabella contribuiscono a non inviare alcun messaggio di approvazione condizionata, né paternalistiche pacche sulla spalla per essere stati all’altezza dei vostri standard e delle vostre aspettative. Allo stesso tempo garantiscono la conferma, l’incoraggiamento e l’attenzione di cui i nostri figli hanno bisogno (non dire niente non realizza, di per sé, tali obiettivi, è ovvio, ma in realtà dovremmo già essere costantemente impegnati a raggiungerli).
Ecco un metodo per il quale nutro sentimenti contrastanti: se nostro obiettivo è quello di aiutare i figli a essere persone generose, secondo un ricercatore dovremmo attribuire loro inclinazioni alla generosità. Quello che pensiamo di noi stessi influenza il nostro modo di agire, quindi l’idea sarebbe quella di convincere i figli che già le loro motivazioni sono generose.
Desideriamo che si vedano come persone altruiste piuttosto che come individui gentili solo per interesse. Uno studio ha messo in evidenza che, dopo aver imitato un adulto comportatosi in modo generoso, i bambini messi al corrente del fatto di aver agito così “perché persone che amano prestare aiuto al prossimo” risultavano più generosi anche in seguito rispetto ai bambini a cui veniva riferito che il loro gesto era frutto di aspettative esterne9.

Se questo tipo di strategia risulta, senza dubbio, più efficace del semplice rinforzo positivo, non sono altrettanto sicuro che sia meno manipolatoria.
Non si sta rispondendo in modo autentico e spontaneo a un determinato comportamento del bambino; si sta facendo deliberatamente un’osservazione (vera o non vera) per produrre l’effetto auspicato. Tuttavia anche in questo caso vale la pena prendere sul serio il principio generale: piuttosto che ricorrere alla lode, che si concentra su comportamenti precisi - e rischia di spingere i bambini a sentirsi amati solo a determinate condizioni - dobbiamo aiutarli a riflettere su quello che sono e su quello che intendono essere.

Spesso mi si domanda se ciò non significhi smettere di fare loro complimenti o di dir loro grazie. Io rispondo che dipende da tre fattori: perché lo diciamo, a chi lo diciamo, e gli effetti che ne conseguono.

Perché: il nostro commento vuol essere soprattutto un gesto carino per far sentire bene chi lo riceve (“Che bella maglietta!”, “Sono proprio contento che tu mi sia venuto a trovare”)? Oppure non è altro che un modo diverso di esprimere un rinforzo contingente per avere il controllo sul suo comportamento futuro? In quest’ultimo caso rielaborare una lode in forma di gratitudine non servirà a granché.

A chi: ancor meno mi preoccupa lo scambio di ringraziamenti e di commenti, che suonano come veri e propri elogi, tra due adulti dello stesso livello, specie se nessuno dei due si trova in una posizione di particolare dipendenza dovuta ad amore e ad accettazione. Se ringrazio il vicino per avermi prestato l’automobile o se dico a un collega di aver molto apprezzato il suo libro non sto cercando di manipolarli, né avrei grandi possibilità di riuscita se anche fosse il mio intento. Non mi preoccupa neppure l’eventualità che l’incondizionalità del mio bene nei loro confronti venga compromessa perché tra noi non è in atto alcuna relazione di quel tipo. Siamo tenuti a usare una maggiore cautela rispetto a quanto diciamo (al come e al perché) quando ci rivolgiamo ai nostri figli.

Gli effetti: esistono molte zone grigie quando si parla di elogi, molti esempi in cui non è affatto chiaro se un determinato commento rischi di essere dannoso o innocuo. In questi casi il consiglio più indicato è quello di fare attenzione alle reazioni che provoca. Se avete l’abitudine di rivolgere ai vostri figli osservazioni interpretabili come lodi, verificate se loro ve le richiedono - o paiono averne bisogno - regolarmente. Cercate di capire se la loro motivazione intrinseca (l’impegno in un determinato comportamento o l’interesse per una particolare attività) pare essere venuta meno in ragione dei vostri commenti.

In sintesi non sto consigliando di sospendere qualsiasi apprezzamento nei confronti dei figli, ma di analizzare il senso implicito nelle nostre parole e il modo in cui vengono colte, più che il loro semplice utilizzo o non utilizzo. Se il bambino percepisce che stiamo semplicemente condividendo con loro la gioia per quanto realizzato, bene. Ma se percepisce l’imposizione di una nostra valutazione, è facile che venga meno l’occasione e la motivazione di sentirsi fiero di sé. Presto giungerebbe a definire il valore delle proprie azioni a seconda che esse riescano a ottenere la nostra approvazione - e, successivamente, quella di altri individui che detengono l’autorità.
Non è facile smettere di ricorrere a metodi legati all’amore condizionato, ma piuttosto che rischiare una crisi di astinenza sarebbe opportuno concedersi un periodo transitorio durante il quale continuare a esprimere valutazioni, ma anche descrizioni e domande. Abituandosi con gradualità a questo genere di risposte, riuscirete infine a bloccare l’abitudine di partire con un giudizio.

Allo stesso tempo ha senso discutere con i figli del vostro atteggiamento e del perché. Se sono stati abituati ad aspettarsi un “Bravo!” in determinati contesti, l’improvvisa assenza di lodi potrebbe risultare destabilizzante. È probabile che interpretino la mancanza di giudizi positivi al pari di un giudizio
negativo. Chiarite, quindi, che non è vostra intenzione essere meno incoraggianti, ma di esserlo in modo incondizionato - offrendo il vostro bene e la vostra approvazione gratuitamente e non in risposta a determinati comportamenti da voi giudicati lodevoli (e alla fine andate avanti solo così).
Inoltre, conformemente al consiglio di parlare meno e chiedere di più, invitate i bambini più grandi a condividere le proprie sensazioni di apprezzamento, non limitandovi a domandare loro se ne sono felici. Chiedete loro se si sentono dipendenti da tali riconoscimenti verbali, o come considerano le attività che producono tale apprezzamento (si tratta di attività che perdono di interesse nel momento in cui nessuno ne incoraggia lo svolgimento attraverso il rinforzo positivo?). O ancora se hanno qualche idea in merito ad altri modi di offrire incoraggiamento.

Dei successi e degli insuccessi

Molti bambini percepiscono che l’approvazione dei genitori non dipende tanto se si sono comportati bene, quanto dai successi ottenuti, come anticipato al capitolo V. Quindi sarebbe determinante considerare se tali dinamiche siano già in atto all’interno delle nostre case, osservando, come attraverso gli occhi di uno spettatore esterno, quello che insegnamo ai figli riguardo l’importanza di riuscire bene nelle attività svolte, come reagiamo di fronte a un loro successo o a un insuccesso e come rispondono loro alle nostre reazioni. In certi casi potrebbe essere utile limitarsi a domandare loro a bruciapelo: “A volte ti sembra che io ti voglia più bene se prendi dei bei voti [o vai bene] nello sport o fai qualcosa di cui potermi vantare con gli amici?” Certo è una domanda utile solo nel caso in cui i nostri figli sanno di poter essere del tutto onesti con noi, il che significa, tra l’altro, esser certi che noi siamo in grado di ascoltare tutto quello che hanno da dirci senza metterci sulla difensiva e senza arrabbiarci.

Parte del problema di molte famiglie non risiede solo nel grado di percezione dell’amore condizionato, ma sull’enfasi data al successo. Fra pochi anni non importerà più a nessuno (e forse nessuno più ricorderà) chi ha vinto il campionato scolastico o che voto ha preso vostro figlio in matematica.
Tuttavia le ripercussioni psicologiche della sensazione di dover guadagnarsi
l’affetto del genitore continueranno a produrre ferite sempre più profonde. È necessario che misuriamo i nostri gesti e le nostre motivazioni, guardandoci allo specchio e chiedendoci se è possibile che stiamo forzando la mano ai nostri figli - e, oltretutto, se i loro successi sono così determinanti per il riflesso che hanno su di noi. Persino quei genitori che senza esitare condividono l’affermazione “Voglio solo che mio figlio sia felice” con il loro atteggiamento trasmettono, a volte, un’impressione diversa.

Molti di noi conoscono persone che hanno (o hanno avuto) successo nel senso più abituale del termine, finendo però per condurre un’esistenza francamente infelice. Magari conosciamo anche persone che hanno sempre
dato l’impressione che non sarebbero mai approdate a nulla, ma che invece ci sono riuscite. Moltissimi adulti brillanti e realizzati sono stati studenti mediocri, così come tantissime stelle promettenti hanno finito per esaurirsi.
Un ricercatore che ha dedicato più di quindici anni all’analisi delle carriere di liceali modello è giunto alla conclusione che gran parte di loro “sanno come cavarsela a scuola, senza essere il gruppo da prendere ad esempio in quanto a creatività e spirito d’innovazione… o per le spiccate doti di leadership in particolari ambiti”10.

In sintesi le persone potenzialmente felici non sempre sono felici. È nostro dovere mettere in guardia i nostri figli dai rischi di diventare dipendenti dai ‘dieci’, dal denaro e dai riconoscimenti, per non rendersi fautori di tali dipendenze. Dobbiamo indirizzare il loro - e il nostro - interesse verso ciò che conta davvero, rafforzando il legame con loro, chiarendo che il nostro amore è assolutamente slegato dall’esito delle loro azioni; rimettendo in discussione le nostre reazioni di fronte alle centinaia di piccole vittorie e sconfitte che costellano l’infanzia.

Emergono due conclusioni: la prima è che è proprio nel momento in cui un figlio fallisce e si sente incapace che ha più bisogno del nostro amore - e non della nostra delusione. La seconda è che altrettanto rischio si corre quando, davanti a un successo, lo sommergiamo di rinforzi positivi al punto tale da fargli credere che il nostro bene dipenda da quello che fa, non da quello che è - e che quindi è meglio continuare a fare le cose per bene, altrimenti…
Per quanto determinante possa risultare per noi che i nostri figli eccellano, è bene ricordare che, di solito, gli individui più sensibili e creativi sono quelli che amano profondamente ciò che fanno. Di regola è l’interesse a produrre l’eccellenza - e con questo intendo dire che è l’interesse nel compito in sé, non l’interesse ad aver successo o a essere meglio degli altri.

Sono innumerevoli le prove a dimostrazione che, quando un bambino viene spinto a preoccuparsi di fare bene, spesso perde interesse in quello che fa11. Risultato molto triste di per sé, spesso causa di fortissimo stress, che tuttavia ha pure l’effetto paradossale di trattenere il bambino dal dare il meglio. Quando gli studenti si sentono spinti a preoccuparsi della qualità del proprio lavoro (“Questo progetto è andato bene? Ho raggiunto gli standard richiesti? Ho dimostrato di esser migliorato?”), lo studio tende a diventare una corvè invece che motivo di entusiasmo. Non si tratta più di roba da capire, ma di roba in cui esser sempre più bravi.

Invece di esercitare pressioni, quindi, dovremmo offrire il nostro sostegno: una guida premurosa, incoraggiamento, fiducia nelle competenze sempre più sviluppate di nostro figlio e, all’occorrenza, aiuto. Al posto di attività competitive dovremmo dargli occasione di imparare e di divertirsi senza bisogno di battere il prossimo.
Invece di concentrarci all’eccesso sui risultati scolastici, dovremmo nutrire un vivo interesse per quello che impara nostro figlio. “Quindi, qual è la tua opinione riguardo la causa dell’estinzione dei dinosauri?” è una domanda che incoraggia la crescita intellettiva. “Come mai hai preso solo 6-?” non la incoraggia affatto. Se un bambino scrive un tema ha più senso concentrarsi sul contenuto (e sulla sua elaborazione) e non sul fatto che sia più o meno bello. Un genitore potrebbe chiedere: “Come hai deciso che cosa scrivere? Che cosa hai imparato dalla ricerca svolta? Perché hai scelto di lasciare quel punto così importante alla fine? La tua opinione circa l’argomento è mutata dopo aver iniziato a scrivere?”

Ripeto, il metodo più efficace (e meno deleterio) per aiutare un bambino nella riuscita - che debba scrivere o sciare, suonare la tromba o giocare ai videogames - è fare tutto il possibile affinché si innamori di quello che fa, prestando meno attenzione al successo ottenuto (o da ottenere) e mostrando più interesse nei confronti del compito. Non è che una diversa maniera di ribadire il fatto che dobbiamo essere più incoraggianti, meno giudicanti, e sempre amorevoli.

Insegnanti e genitori uniti

Se certi insegnanti d’eccezione (come quelli citati in precedenza) donano ai propri studenti il sostegno incondizionato di cui hanno bisogno, la triste realtà è che molte classi non sono impostate in quest’ottica - e, se è per questo, neppure per onorare i princìpi descritti nel capitolo precedente.
Gli ambienti scolastici si distinguono spesso per tutta una serie di premi e punizioni, elaborati sistemi di gestione della disciplina, “riconoscimenti” per chi si dimostra obbediente, e sanzioni per chi non lo è. I bambini non vengono aiutati a diventare membri attivi di una comunità, o individui in grado di elaborare decisioni etiche, o pensatori critici, educati come sono a seguire direttive. Nei casi più tristi il sostegno all’apprendimento viene relegato in coda all’imposizione dell’ordine. Si tratta di ambienti per nulla adatti ai bambini, né ad altri esseri viventi.

Spesso ascolto genitori che mi raccontano i loro sforzi per creare un ambiente domestico “collaborativo” - per poi accorgersi di mandare, ogni giorno, i figli in istituti scolastici “impositivi” (certo, mi capita anche di ascoltare insegnanti frustrati che mi descrivono la situazione opposta: “Teniamo riunioni democratiche di classe per una comune risoluzione dei problemi - e poi, tornati a casa, gli alunni vengono manipolati con stellette d’oro e castighi!”). Le cose vanno, ovviamente, meglio quando sia genitori sia insegnanti contribuiscono a fare dei ragazzi adulti perbene - meglio ancora se si adoperano attivamente gli uni a sostegno degli altri.
La prima cosa che un genitore deve fare è informarsi di quanto accade a scuola.

  • È un luogo in cui viene data priorità alla soddisfazione dei bisogni degli alunni oppure all’ottenimento dell’obbedienza?
  • I comportamenti trasgressivi vengono vissuti come problemi da risolvere o come infrazioni da punire?
  • Gli insegnanti prevedono, tra i loro compiti, quello di aiutare gli alunni a imparare a prendere le giuste decisioni - o insistono nel prendere da soli tutte le decisioni?
  • Gli studenti sono incoraggiati a collaborare fra loro o la maggior parte dei compiti assegnati deve essere svolta in modo autonomo (e magari in competizione con i compagni)?
  • Se foste voi a frequentare quella scuola e a entrare in classe, vi sentireste accettati in modo incondizionato? Vorreste rimanerci?
Se quello che vedete e che sentite non vi piace, dovrete far appello a tutta la vostra diplomazia per invitare l’insegnante di vostro figlio a rivedere alcuni dei suoi sistemi. Magari sollevando la questione degli obiettivi a lungo termine. Dopo tutto gli educatori sono, in genere, impegnati negli stessi progetti dei genitori: desiderano che i loro studenti siano responsabili, sensibili, virtuosi, curiosi e sempre volenterosi di apprendere. Potreste portare il discorso sugli obiettivi condivisi, sollevando garbatamente l’eventualità di adottare, per il loro raggiungimento, sistemi più efficaci dei metodi disciplinari tradizionali, che di rado contribuiscono a fare degli studenti individui in grado di prendere decisioni responsabili.

Dovreste prepararvi a proporre all’insegnante di vostro figlio articoli, libri e video che mostrino come realizzare classi “collaborative”12. Informatevi così da poter illustrare le modalità attraverso cui altri colleghi sono riusciti a muoversi in tale direzione, proponendo la visita di altre classi (o il colloquio con altri insegnanti), o suggerendo letture che mettano in luce casi esemplari di scuole esistenti. Potrebbe risultare rassicurante, per voi e per l’insegnante, rendersi conto che la scuola non deve per forza essere un luogo “impositivo”, ma che, al contrario, esistono diversi istituti nel Paese esempio di come sia possibile realizzare un contesto educativo attraente e rispettoso, senza ricorrere al sistema del bastone e della carota.
Tuttavia se l’insegnante si dimostra insensibile alle vostre opinioni e ai vostri consigli, per quanto rispettosi, forse è il caso che valutiate se valga la pena rischiare di reagire a una situazione tanto molesta. Quante probabilità ci sono che i vostri sforzi abbiano successo? Il problema è circoscritto a un’unica classe? In questo caso si potrebbe forse pensare di far cambiare sezione a vostro figlio. La strategia da applicare può dipendere dal fatto che il preside sia o no in linea con il vostro punto di vista o, per lo meno, disposto all’ascolto. Potreste avere la volontà di trovare altri genitori che nutrano le stesse vostre preoccupazioni: più persone dissentono da un metodo o da una politica e più difficile sarà ignorare la protesta.
In questo contesto, specie se prevedete che la situazione non cambierà a breve, è essenziale che facciate tutto il possibile per tutelare vostro figlio.
Ecco il percorso da seguire: da un lato, non incoraggiatelo a ignorare l’insegnante o a mancargli di rispetto - quand’anche quest’ultimo mancasse di rispetto all’alunno. Dall’altro non intraprendete azioni che ritenete insostenibili, o che facciano pensare a vostro figlio che gli adulti tendano a prendere le difese l’uno dell’altro (o a coalizzarsi contro i ragazzi) anche senza buone ragioni. Il vostro dovere principale è quello di fare l’interesse di vostro figlio.

Naturalmente quanto dite, e come lo dite, dovrà tener conto dall’età del bambino, così come dell’eventualità che consideriate quanto accade a scuola semplicemente tutt’altro che l’ideale oppure assolutamente irreprensibile.
Fate come se il vostro obiettivo fosse quello di vaccinare vostro figlio, somministrandogli amore incondizionato, rispetto, fiducia e una visione in prospettiva che lo rendano immune dagli effetti più nefasti di un ambiente troppo dispotico o di una autorità irragionevole. Il bambino dovrebbe essere incoraggiato a riflettere sui motivi per cui alcuni adulti sentono il bisogno di ricorrere a premi e punizioni, sulle possibili alternative, sull’eventualità che anche il suo comportamento potrebbe essere diverso.
Nella migliore delle ipotesi si tratterebbe di un atteggiamento che non solo contribuirebbe a neutralizzare le ripercussioni di dubbie politiche educative, ma rappresenterebbe altresì un’occasione di apprendimento.

Ricordate che i nostri figli imparano osservando la nostra reazione di fronte alle difficoltà: se abbiamo preso sul serio le loro preoccupazioni (invece di schierarci automaticamente dalla parte dell’insegnante) e se lo coinvolgiamo nella risoluzione dei problemi (invece di affrontarli in maniera unilaterale). Inoltre i bambini riescono a cogliere quanto rispetto nutriamo per l’insegnante anche se esprimiamo il nostro disaccordo rispetto ad alcune sue decisioni, e la nostra volontà di capire e prendere atto della posizione del docente o del preside rispetto a determinate questioni.
Dal momento che vostro figlio assiste a tutto questo, dal momento che è la cosa giusta da fare, dal momento che è l’approccio più efficace, è bene chiarire che non è vostra intenzione instaurare con l’insegnante un rapporto conflittuale. Vostro obiettivo è quello di lavorare insieme, tenendo conto dei reciproci bisogni - non solo quelli di vostro figlio, ma anche quelli di tutti gli altri bambini e degli adulti. Allo stesso tempo potrete restare fermi sul principio dell’inaccettabilità di ricorrere a metodi coercitivi quali ricatti e minacce.

Forse il risultato resterà quello per cui vostro figlio continuerà a essere trattato in un modo a casa e in un altro a scuola. Nel primo caso l’accento viene posto sulle ragioni e sui valori; nel secondo sui comportamenti. Nel primo caso il bambino viene spinto a valutare le conseguenze delle proprie azioni sul prossimo; nel secondo, quelle su se stesso. Nel primo caso, lo si incoraggia a pensare; nel secondo a fare quello che gli viene detto. Nel primo caso viene apprezzato per quello che è; nel secondo, solo per quello che fa. Tale mancanza di coerenza risulterà destabilizzante; non è mai l’ideale, tuttavia è meglio che la perfetta armonia, tra casa e scuola, nel recar danno ai bambini.

Amarli senza se e senza ma
Amarli senza se e senza ma
Alfie Kohn
Dalla logica dei premi e delle punizioni a quella dell’amore e della ragione.Un classico dell’amore incondizionato. Come crescere i figli eliminando finalmente i piccoli ricatti, le minacce, le promesse e i premi. Crescere un figlio non è un gioco da ragazzi!Diventare genitori è un esame costante sulle capacità di affrontare disordine e imprevedibilità, un ruolo per cui non ci si può preparare davvero.Una delle difficoltà maggiori è la tentazione di domare l’atteggiamento di opposizione dei figli alle nostre richieste, rischiando di trasformarli in burattini addomesticati o, al contrario, di provocare danni approvando tutto ciò che dicono e fanno.Allora, come farsi obbedire dai propri figli?Sistemi educativi quali punizioni, castighi, premi e altre forme di controllo inducono i nostri figli a credere di essere amati solo se ci compiacciono o ci colpiscono in modo favorevole.Nel suo libro Alfie Kohn si allontana dai messaggi veicolati da certi metodi convenzionali e ribalta la prospettiva, chiedendosi quali siano i bisogni dei nostri figli e come possiamo soddisfarli.L’autore suggerisce una serie di idee per allontanarsi da metodi abituali che prevedono l’imposizione di qualcosa ai bambini, per approcciarsi a modalità che portino invece alla collaborazione con loro.Amarli senza se e senza ma risponde a una domanda cruciale: le nostre azioni quotidiane possono contribuire a rendere nostro figlio l’adulto che vorremmo?Consigli utili affinché il bambino possa aspirare a diventare un adulto sano, responsabile ma allo stesso tempo sensibile e premuroso.Un libro rivoluzionario e illuminante per diventare a tutti gli effetti genitori senza se e senza ma, poiché uno dei bisogni fondamentali del bambino è proprio essere amato in maniera incondizionata ed essere accettato anche quando combina guai o fallisce: in sintesi, essere amato per quello che è e non per quello che fa. Conosci l’autore Alfie Kohn ha pubblicato diversi libri, tra cui Punished by Rewards e The Schools Our Children Deserve, che hanno dato un forte contributo all’operato di educatori e genitori. Vive con la famiglia nei pressi di Boston, dove tiene conferenze e seminari, ed è raggiungibile sul web all’indirizzo www.alfiekohn.org.