CAPITOLO VI

Che cosa ci trattiene?

La domanda genera un ulteriore, drammatico interrogativo: perché ci comportiamo così? Se l’educazione basata sull’amore condizionato e sul controllo è davvero deleteria come affermo - ma, più importante ancora, come dimostrato dalla ricerca scientifica e dall’esperienza quotidiana - perché mai è tanto diffusa? O, detto in altri termini, che cosa trattiene tanti di noi dall’essere genitori migliori?
A questo punto sarete desiderosi di sapere qualcosa in più sulle alternative.
Tuttavia sarà ben difficile che consigli specifici su che cosa dire o su che cosa fare con i nostri figli attecchiscano davvero e abbiano effetto se prima non vogliamo affrontare i motivi che ci hanno spinto tanto a lungo a comportarci diversamente. Per ripetere quel che faccio, bisogna che ripeta quel che penso, il che significa identificare le origini di uno stile educativo abituale e condizionato. Saltare questa fase implica trovare tante scuse per rifiutare qualsiasi idea nuova o, nel caso in cui si decidesse di abbracciarla, finire per ritornare, al primo intoppo, alle modalità note e rassicuranti.
I motivi che ci spingono a essere genitori di un certo tipo si possono dividere grosso modo in quattro categorie: quello che vediamo e sentiamo; quello che crediamo; quello che proviamo e, come risultato delle prime tre categorie, quello che temiamo. Si tratta di definizioni poco precise, le cui spiegazioni stesse tendono a convergere. Tuttavia è possibile iniziare a comprendere i metodi educativi esistenti a partire da ciò che influenza i nostri comportamenti in superficie, per poi individuare le principali convinzioni e norme culturali alla base di tali influenze e, infine, concentrare l’attenzione su come bisogni e timori - che dipendono sostanzialmente dalla maniera in cui si è stati educati - influenzino le modalità di interazione con i figli.

Quello che vediamo e sentiamo

C’è genitore a cui non sia mai capitato, almeno una volta nella vita, di meravigliarsi per aver detto ai propri figli le stesse identiche cose - a volte con lo stesso identico tono di voce - che si sentiva dire dai suoi stessi genitori?
Io lo definisco “Come ha fatto mia madre a entrarmi nella laringe?”
È la spiegazione più ovvia del modo in cui trattiamo i nostri bambini: abbiamo appreso la maniera in cui avremmo educato i nostri figli osservando come siamo stati educati noi, magari cogliendo precise regole (in casa non si corre; niente dolce se non finisci di cenare), se non addirittura precise espressioni (“Quante volte ti devo dire che…?”, “Bene, ma guai a te se vieni a piangere…”). Più importante ancora, è probabile che abbiamo colto l’idea generale di quale sia il ruolo di un genitore - ossia, di come una mamma e un papà dovrebbero comportarsi con i figli.

Meno consapevoli siamo di tale processo di apprendimento, più facilmente rischiamo di riprodurre lo stesso modello educativo senza preoccuparci di chiederci se abbia senso o no. Fare un passo indietro per definire quali valori e quali abitudini introdurre nella nostra nuova famiglia, e quali invece considerare inutili, se non addirittura dannosi, richiede impegno, acume e anche un certo coraggio. Diversamente, non ci resta che recitare un copione che non abbiamo scritto noi, facendo come il vicino della poesia di Robert Frost che ricostruisce il muro e “si muove […] nel buio” perché “non andrà oltre le parole di suo padre”1. In breve, non saremmo in grado di rispondere alla domanda “Perché ti comporti così con tuo figlio?” fornendo una spiegazione piuttosto che facendo spalluccia e borbottando un “Perché è così che mi hanno cresciuto”.

Ancor più difficile intraprendere un cammino diverso se gli stessi genitori
(o parenti) dei genitori continuano a esercitare la loro influenza, offrendo suggerimenti o giudizi espliciti riguardo la maniera più consona di trattare i figli. Persino amici e perfetti sconosciuti si dimostrano spesso prodighi nel dispensar consigli, tanto quanto giornalisti, opinionisti e autori di manuali sull’educazione dei figli. Per non parlare dei pediatri, le cui opinioni e posizioni di parte circa tematiche di ordine psicologico vengono prese sul serio in ragione delle loro credenziali mediche. Ho ricevuto di recente una mail da parte di una pediatra (e madre) la quale, dopo aver letto degli effetti devastanti imputabili alla disciplina basata sui premi e sulle ricompense, mi confessava di trovare 

frustrante che nulla di tutto questo abbia fatto parte del mio tirocinio [medico].
Ci hanno insegnato la solita solfa sul comportamentismo, i castighi ecc. - e nonostante che, nel profondo, fossi consapevole di quanto fosse sbagliato, non sono riuscita a individuarne il perché. Seguivo sin dalla nascita bimbi che, a cinque anni, i genitori portavano in studio esclamando “così non va”. Per un po’ ho ritenuto fosse solo il caso di adottare un metodo diverso per modificarne il comportamento. [Ma documentandomi di più] mi sono resa conto che ci eravamo infatuati di un metodo educativo davvero orribile.

Se tutti i consigli ricevuti da medici, vicini di casa e familiari riflettessero un’ampia varietà di opinioni, molto probabilmente tali pillole di saggezza colliderebbero l’una con l’altra, forse persino annullandosi a vicenda.
Ci lascerebbero pressoché indifferenti (ad eccezione, come è ovvio, di quanto espresso dai parenti). In realtà quanto colto da diverse fonti non è così vario: con qualche sporadica eccezione, i consigli ricevuti tendono in genere verso un’unica direzione. Esattamente quella che vi consiglio di mettere in discussione.
Spesso i neogenitori riferiscono, ad esempio, che i nonni tendono a fare presente - sbagliando, a quanto dimostrano i dati scientifici - che se si prende in braccio un bimbo al minimo pianto non si fa che viziarlo. E che se lo si lascia prender parte a una decisione che lo riguarda, è bene sapere, senza tanti giri di parole, di “essere in sua balìa”.
Amici e vicini di casa, a seconda del temperamento, potranno dirvelo in maniera esplicita o velata, ma anche loro riterranno, con ogni probabilità, che i figli vadano rimessi in riga con un certo vigore; che la soluzione del problema risieda in una maggior disciplina e in “limiti” più netti. Nei luoghi pubblici il giudizio degli sconosciuti spesso è persino palpabile - di solito per la troppa indulgenza, raramente per l’eccessivo controllo. E anche qualora quelle stesse persone tenessero la propria opinione per sé, il modo di educare i loro figli risulterebbe molto eloquente, specie quando il medesimo metodo viene riproposto giorno dopo giorno, di luogo in luogo. Il dilagare dell’approccio convenzionale potrebbe indurci a credere che non è possibile che tanti genitori abbiano torto.

E, come già puntualizzato in precedenza, la maggior parte degli autori di manuali per genitori non dà il minimo contributo per colmare tale divario, per cui, consultando gli esperti, non facciamo altro che trovare conferma alle nostre supposizioni. Se, al contrario, esperti e conoscenti ci mettessero alla prova, domandandoci se siamo certi che il nostro comportamento nei confronti dei figli non sia riflesso dell’amore condizionato, ricordandoci che premi e punizioni sono inutili e poco proficui, ci penseremmo due volte a quello che facciamo. Per come stanno invece le cose non c’è neppure motivo di pensarci una volta.
Riguardo la giustificazione che vediamo e sentiamo dare del perché tanti di noi continuano a rapportarsi con i figli in maniera poco auspicabile, essa può risultare plausibile fino a un certo punto, dopo di che ci costringe a fare un passo indietro. “Va bene”, direte voi, “siamo influenzati da tutta questa gente. Ma perché loro trattano i figli a quel modo? Che cosa spinge tanti genitori a scegliere - e a caldeggiare - un simile approccio?”

Le caratteristiche intrinseche della peggior disciplina rispondono in parte a tale domanda: persino la persona più sensata riesce a fossilizzarsi in comportamenti senza senso. Prima di tutto la cattiva disciplina è semplice:
non richiede grandi sforzi reagire alla disobbedienza di un bambino con
qualcosa di sgradevole. I metodi “impositivi” sono per lo più automatici.
Per contro, quelli “collaborativi” richiedono maggiori sforzi, ma se di questi ultimi non ne abbiamo mai avuto neppure il sentore, è chiaro che continueremo ad applicare i primi, proprio perché non conosciamo alternativa.
In secondo luogo la cattiva disciplina è spesso “efficace”. Con questo intendo dire che sono molti i casi in cui attraverso minacce, ricatti o altri metodi coercitivi si ottiene la momentanea obbedienza del bambino all’adulto.
Di certo esclamando “Puoi scordarti di andare alla festa di sabato se non spegni subito il videogioco!” otterremo che il gioco si interrompa. L’effetto cumulativo di un certo tipo di metodi, non essendo immediatamente percepibile, non ci permette di valutarne gli svantaggi che ci scoraggerebbero dal rimetterli in atto.

Quello che crediamo

Gli effetti immediati, o l’apparente attrattiva, dei metodi educativi convenzionali spiegano molte cose, così come l’influenza esercitata su di noi
da chi ci circonda. Tuttavia è necessario considerare come valori e princìpi ampiamente condivisi ci rendano più ricettivi nei confronti di tali approcci.

Come consideriamo i bambini
La nostra è una società davvero rispettosa dei bambini? Certo tutti noi amiamo i nostri figli, ma è impressionante constatare quanti genitori dimostrino il più totale disprezzo per i figli degli altri. E se si pensa a chi non è neppure genitore, risulta ancor più lampante come la nostra sia una cultura non esattamente a favore dell’infanzia in generale, né particolarmente simpatizzante di alcuna categoria di bambini se non quelli belli ed educati. Se mai si potesse parlare di amore collettivo, nella migliore delle ipotesi sarebbe condizionato. Invece un’indagine condotta su adulti americani rivelerebbe a tutti i livelli quello che viene definito da una testata giornalistica “un impressionante livello di antagonismo non solo verso gli adolescenti ma anche verso i bambini molto piccoli”. La stragrande maggioranza dei cittadini americani ammette la propria disapprovazione nei confronti dei bambini di ogni età, definendoli pigri, maleducati, irresponsabili e senza valori2.

Politici e imprenditori fingono di esigere scuole “di livello internazionale”, riferendosi però a punteggi eccelsi e alla preparazione di una futura classe lavorativa competente e non alle esigenze degli alunni che le frequenteranno.
È vero, come affermano due sociologi, che “alcuni genitori - quelli che godono di un certo reddito - spendono generose somme di denaro per i propri figli, diffondendo l’idea che la nostra sia una società “bimbocentrica” - impressione facilmente confermata dall’enorme attenzione che pubblicità e televisione rivolgono ai più piccoli. Tuttavia, proseguono i due autori,

la spesa pubblica per l’infanzia è spesso insufficiente e sempre accompagnata da aspri dibattiti, oltre a essere espressione del particolare principio secondo cui i bambini non sarebbero individui degni di per sé ma solo in quanto adulti in fieri… Il mito edulcorato [secondo cui]… i bambini rappresentano la risorsa naturale più preziosa [d’America] è di fatto falsificato dalla nostra ostilità nei confronti dei bambini altrui oltre che dalla nostra riluttanza a dar loro sostegno3.

Sono recenti i dati secondo cui, ogni anno, negli Stati Uniti si registrano oltre un milione e trecentomila bambini senza tetto; sono definiti poveri tra il ventidue e il ventisei per cento dei bambini molto piccoli, un tasso di gran lunga più alto che nei restanti Paesi industrializzati4. Gli americani continuano a tollerare la sofferenza reale nascosta dietro certi dati, e questo la dice lunga sul nostro atteggiamento nei confronti dell’infanzia, tanto quanto il numero di persone che si lamentano dei “bambini di oggi”.

Questo è il punto: se i bambini in generale non sono tenuti in grande stima, diventa più facile che i genitori, anche quelli sostanzialmente bravi, manchino di rispetto ai propri; e più noi stessi nutriamo una visione tetra dell’infanzia, meno saremo in grado, come suggerito al capitolo I, di dare amore incondizionato a qualsiasi bambino, figli compresi, nel timore che essi ne approfittino per farla franca, sempre e comunque. Se non ci si fida di loro, si finisce per controllarli in modo sproporzionato. Non a caso i genitori autoritari, che pretendono assoluta obbedienza, tendono ad affibbiare ai bambini - a volte alla gente in genere - attributi poco lusinghieri. Uno studio condotto su oltre trecento genitori ha rivelato che quelli con una visione negativa della natura umana avevano una maggior tendenza all’ipercontrollo sui figli5.

Come pensiamo che vengano trattati
Come ho già spiegato in precedenza, è molto più improbabile che un genitore lasci suo figlio libero di correre che non reprimerlo inutilmente, sgridarlo, minacciarlo o maltrattarlo. Tuttavia non è questa l’impressione diffusa: è assai più comune ignorare il dilagare degli stili educativi punitivi, concentrandosi, al contrario, su qualche sparuto esempio di permissivismo - spingendosi talvolta fino al punto di definire quella attuale un’intera generazione di viziati. È illuminante, e per certi versi divertente, notare come probabilmente lo stesso tipo di allarme sia stato lanciato per ogni generazione nel corso della storia.
Un quadro così distorto ha, tuttavia, serie ripercussioni: dare l’impressione che i ragazzi di oggi siano fuori controllo significa gettare le basi per un messaggio secondo cui è necessario smettere di assecondarli, ritornando a un tipo di disciplina più convenzionale e via di questo passo. I genitori che accettano una simile descrizione (quella di ragazzi non abbastanza sotto controllo) risultano più ricettivi nei confronti di prescrizioni del genere (per un maggior controllo).

Lo stesso vale anche quando ci si lamenta che i giovani di oggi hanno la vita facile perché cerchiamo oltre ogni limite di proteggerli dai duri colpi della vita. Affermazione in genere suffragata da qualche aneddoto divertente più che da una vaga parvenza di prova, e molto più diffusa perché utile a giustificare un metodo educativo ormai antiquato e non particolarmente affettuoso ed empatico, che non per la sua fondatezza. Questo modo di impostare la questione ci invita, oltretutto, a puntare il dito contro genitori e figli e non a individuare le cause profonde dei problemi che tutti noi ci troviamo ad affrontare6.
Il fatto che alcuni ragazzini vangano ignorati, lasciati in balìa di se stessi senza alcuna interazione significativa con gli adulti, non rappresenta una prova tangibile che quella in cui viviamo sia una cultura bimbocentrica o indulgente, e non significa neppure che i nostri figli non siano abituati ad affrontare le frustrazioni della vita. In realtà i bambini sono molto frustrati, soprattutto perché il loro punto di vista non viene preso sul serio. I genitori che non si accorgono di quanto i loro figli risultino fastidiosi agli occhi degli altri e dei guai in cui si infilano, spesso neppure si accorgono dei loro bisogni. Con ciò non voglio raccomandare di ricorrere a una disciplina più ferrea, bensì di trascorrere più tempo con i propri figli, facendo loro da guida e trattandoli con maggior rispetto.

Competizione
Ho già spiegato come la competizione sia diventata la nostra religione di stato. Sul lavoro come nel gioco, a scuola e persino in famiglia, obiettivi e valori diversi vengono spesso eclissati dal costante imperativo a essere “numeri uno”. Non ci sorprenda, quindi, di vedere così tanti genitori insistere affinché i figli surclassino i compagni - ricorrendo alle tecniche dell’amore condizionato perché questo avvenga.
A ciò si aggiunga che le relazioni con i nostri figli tendono a essere valutate in termini di somma zero. Numerosi manuali per genitori danno indicazioni su come batterli quando ci si scontra con loro, sulle mosse da mettere in atto per farli obbedire alle nostre richieste, ottenendo una vittoria schiacciante. Il punto è, naturalmente, chiederci se davvero intendiamo considerare i nostri figli al pari di nemici da battere. Se ci domandiamo come mai la relazione genitori-figli risulti spesso antagonistica, la risposta è da leggere come ulteriore sintomo di una società ipercompetitiva. Le madri e i padri che hanno maggior tendenza a tenere i figli sotto controllo, recando loro gravi sofferenze, sono quelli che sentono il bisogno di vincere.

Le competenze dei bambini
La severità nei confronti dei bambini pare comportare il disprezzo per quello che sanno fare e l’incapacità di vederli come individui con punti di vista propri. Tuttavia, per altri versi, è significativo constatare come chi si rivolge a stili educativi tradizionali abbia la tendenza a sovrastimare l’autonomia dei piccoli. Quei genitori non capiscono - o forse semplicemente ignorano - come non sia possibile aspettarsi che bambini sotto una certa età mangino senza sporcarsi e facciano silenzio in un luogo pubblico. I bimbi più piccoli non sono ancora dotati delle competenze per cui avrebbe senso ritenerli responsabili del loro comportamento al pari di un adulto o di un bambino più grande.
Secondo alcuni studi scientifici i genitori che “attribuiscono maggior competenza e responsabilità ai bambini che si comportano male” sono quelli che tendono ad arrabbiarsi di più con loro, biasimandoli e punendoli.
Si sentono frustrati da quello che, ai loro occhi, risulta essere un comportamento inappropriato, finendo, in pratica, per punire severamente i bambini piccoli perché bambini piccoli. È una cosa straziante da vedere. Per contro i genitori che comprendono i limiti evolutivi dei loro figli tendono a preferire “spiegazioni calme e ragionevoli” in risposta ai medesimi comportamenti7.
Essi sanno che il loro compito è quello di insegnare - e, in un certo senso, di portare solo un po’ di pazienza.
I genitori che rimproverano i figli, ricorrendo a misure coercitive, in parte lo fanno perché nutrono aspettative irrealistiche sul fronte del comportamento; le stesse aspettative irrealistiche che, spesso, si riscontrano pure su quello delle capacità intellettive: insistere affinché un bambino di cinque anni abbia un’ortografia perfetta di solito è sintomo di un’incapacità di comprendere come i bimbi, prima o poi e passo dopo passo, raggiungano la padronanza linguistica, con il risultato di far loro vivere la scrittura come un’esperienza penosa. In genere molti genitori orgogliosi degli “elevati standard” richiesti ai figli forse, di fatto, si aspettano troppo da loro - magari rischiando di peggiorare le cose mettendo in atto varie strategie di controllo, se le stesse aspettative vengono disattese.

Obbedienza
Secondo le ricerche, più una cultura richiede ai bambini di adeguarsi a regole e autorità tradizionali (e non di pensare con la propria testa), più gli appartenenti a quella cultura ricorreranno alle punizioni corporali. Gli Stati Uniti vengono spesso descritti come luogo in cui autonomia e fiducia in se stessi vengono tenuti in gran valore, a volte all’eccesso. Tuttavia alcuni cittadini e certe sottoculture continuano a caldeggiare l’obbedienza. Più ciò si verifica in famiglia, più certi genitori imporranno limiti ai figli, tenendoli a freno attraverso una ferrea disciplina8.

Giustizia e pena da scontare
Sono molti a ritenere giusto che se un individuo, bimbi piccoli compresi, fa qualcosa di male, qualcosa di male debba essergli fatta in cambio.
“L’idea di far scontare al colpevole la sua stessa colpa affonda le radici nella ‘legge del taglione’ vigente nelle società primitive”9; ma è altresì riconducibile a un modello economico delle relazioni umane per cui siamo portati a credere che tutto, amore compreso, debba essere guadagnato (vedere cap. I). Non importa se la punizione servirà a qualcosa, se riuscirà a trasmettere un utile insegnamento o se sarà costruttiva per i princìpi e il comportamento del bambino. Molti genitori continuano a ricorrervi perché lo considerano un imperativo morale. Ecco perché è contro corrente scegliere di trattare la disobbedienza di un bimbo in modo alternativo all’imposizione di sgradevoli punizioni come vuole la cultura imperante.

Religione
Non esiste una corrispondenza univoca tra convinzioni religiose e filosofia educativa. È possibile notare individui di fedi diverse, o niente affatto religiosi, che trattano i propri figli nei modi più disparati. Tuttavia non si può negare che approcci autoritari affondino le proprie radici in certi credo religiosi. A detta di un esperto “Quello di piegare la volontà del bambino è stato indicato come compito principale dei genitori da generazioni di predicatori, la cui disciplina si basava su precetti biblici che consideravano la volontà individuale male e peccato”10. Ideologia questa, per giunta affiancata a una visione tetra della natura umana, che ha iniziato a diffondersi ben prima dei Padri Pellegrini grazie agli scritti di James Dobson e altri fondamentalisti.
A volte il termine amore viene utilizzato per giustificare il triste processo che conduce il bimbo alla capitolazione11.
Inoltre se molte religioni equiparano l’idea dell’incondizionalità ad aspetti della loro fede, le pagine dei testi sacri della Cristianità e del Giudaismo dipingono divinità che sono un esempio perfetto di amore condizionato.
Nell’Antico come nel Nuovo Testamento vengono continuamente promesse straordinarie ricompense per chi dimostra la giusta devozione, e le pene più orribili per chi non lo fa. Dio ama solo e soltanto se Lo si ama - e, in certi casi, se si soddisfano anche altri requisiti. Fa’ quel che ti viene detto: sarai ricco e vedrai morire i tuoi nemici. Allontanati dalla fede: patirai tutta una serie di pene che la Bibbia descrive con particolari che rasentano il sadismo12. Per alcuni fedeli esistono di certo benedizioni o maledizioni ancor più significative dopo la morte. Non è poi tanto difficile, quindi, rilevare il grande influsso di certe tradizioni religiose nei riguardi di uno stile educativo condizionato e basato sul controllo.

La scelta tra due sole alternative
Se dovessi individuare un unico principio davvero responsabile dell’utilizzo di metodi educativi discutibili, credo sarebbe la tendenza a credere nell’esistenza di sue soli sistemi per crescere i figli. Si può fare così o colà, e dal momento che tra le due possibilità una è di certo improponibile, non resta che scegliere la seconda (che comporta ugualmente una certa forma di controllo).
La dicotomia più sbagliata e più diffusa recita: “Con i figli bisogna adottare la linea dura e smettere di lasciargli fare come gli pare”. Di fatto la disciplina convenzionale si oppone al permissivismo: o punire o “passar sopra” quello che un figlio combina; o usare le maniere forti o lasciar completamente perdere. Se un figlio combina qualcosa di sbagliato, la maggior parte di noi sente di dover fare qualcosa piuttosto che niente; ma se la scelta si limita alle punizioni, ecco che vi ricorriamo in automatico.
È paradossale, ma punire e sorvolare non sono proprio così all’opposto: hanno entrambi la caratteristica di non offrire quella guida proficua e rispettosa che i ragazzini hanno bisogno di ricevere dagli adulti. Non ci si stupisca di notare come alcuni genitori tendano a volte a punire e a volte a sorvolare. Quando una delle alternative si rivela disastrosa, ricorrono all’altra. Una mamma confessava: “Con i miei figli sono permissiva fintanto che riesco a sopportarli, dopo di che divento tanto autoritaria da non sopportare me stessa”13. In altre famiglie accade, invece, che i genitori si dividano i ruoli: uno è autoritario, l’altro permissivo - come se la somma di due strategie sbagliate potesse risultare in un approccio proficuo.
Se fossimo obbligati a scegliere tra i due metodi, neppure i dati scientifici a disposizione riuscirebbero a chiarire se punire sia meglio che sorvolare14.

In realtà non siamo costretti a scegliere perché esistono altre possibilità. Il fatto che non sia confortevole vivere a temperature polari non significa che bisogna sopportare il caldo tropicale. Lo stesso vale, casualmente, anche per altre scelte obbligate: “Invece di punire (o criticare) i figli quando fanno i cattivi, provate a premiarli (o a lodarli) quando fanno i bravi”. Il fatto è che premi e punizioni sono, in realtà, due facce della stessa medaglia… medaglia che non vale un granché. Per fortuna esistono diverse alternative al metodo manipolatorio del “bastone e della carota”.
In teoria sarebbe meglio poter scegliere tra tre possibilità, e non tra due, ma anche in questo caso è bene prestare attenzione. Sono molti gli autori di opere sull’educazione e la disciplina che hanno tentato di rendere più accettabile il proprio punto di vista scegliendo il “giusto mezzo” tra i due estremi.

Un po’ come nella fiaba di Riccioli d’Oro: alcune scelte sono troppo in un modo, altre sono troppo in un altro, ma la mia è proprio quella giusta.
Le prime di solito si riferiscono a un sistema educativo basato sul ricorso eccessivo all’uso della forza e delle punizioni; le seconde invece sarebbero una variante dell’approccio facilone, all’acqua di rose.
In teoria la stragrande maggioranza di noi concorda con il ritenere preferibile una posizione intermedia tra due estremi - e in determinati casi, io stesso consiglio una “terza alternativa”. Tuttavia non dovremmo mai farci convincere ad accettare certi suggerimenti solo perché a metà tra due alternative grottesche. Alcuni autori, inoltre, partono, a volte, da domande le cui premesse risultano dubbie: “Fino a che punto dovremmo controllare i nostri figli?” Scegli tra a) sempre e a dismisura, b) mai, o c) il giusto, come spiegato nei cinque punti del programma elaborato - e depositato - dall’autore. Invece di accettare la scelta più ovvia potremmo mettere in discussione l’impostazione dell’intera questione, considerando le possibili alternative al principio del controllo.
Il “giusto mezzo”, se considerato nel suo valore, potrebbe, in realtà, non risultare poi tanto giusto. Nel campo dell’educazione, ne è un esempio lo schema di Diana Baumrind, adottato da un vasto numero di ricercatori e di praticanti: essa divide i genitori in “autoritari” da un lato, “permissivi” dall’altro, e “autorevoli” (cioè “giusti”) in mezzo. In realtà quest’approccio - in apparenza un misto di severità e di amorevolezza accolto con grande favore - risulta altrettanto convenzionale e orientato al controllo - seppur in misura minore dell’opzione a). Da una lettura più approfondita degli studi della Baumrind sorgono, di fatto, dubbi circa i consigli proposti, specie riguardo l’imposizione di un “rigido controllo”15.
Più in generale potremmo sentirci tentati di adottare un determinato approccio solo per l’impostazione data al dibattito sull’educazione dei figli, e più in particolare perché convinti che il rifiuto di una o due opzioni comporti l’accettazione di una terza alternativa. Riconoscere che esistono molti modi diversi di crescere i figli e mettere in discussione la validità di tante ideologie diverse significa sentirsi liberi di muoversi in direzioni del tutto nuove, che potrebbero rivelarsi ben più sensate di quelle convenzionali.

Quello che proviamo

I nostri genitori ci hanno insegnato come fare i genitori, dandoci l’esempio di come rivolgerci ai bambini e di come comportarci con loro. Tuttavia quanto vissuto nella famiglia di origine ha ripercussioni su di noi, e sul genere di madre o di padre che saremo, che vanno oltre gli stili educativi che finiremo per riproporre. Crescere un figlio non è esattamente un mestiere che si impara, come cucinare o lavorare il legno; le energie psicologiche richieste rendono il compito ben più complesso. Spesso molte di queste energie vengono sprigionate senza neppure esserne consapevoli.
A essere onesti, esito ad addentrarmi in certe questioni perché molte delle discussioni in merito, infarcite come sono di riferimenti convinti al “bambino interiore” che è in noi e da altre simili amenità, mi danno sui nervi. Tuttavia non vedo come evitarlo: è inutile affrontare quello che ci trattiene dall’essere genitori migliori se non riflettiamo su come il modo in cui siamo stati cresciuti abbia modellato la nostra struttura interiore. Ciò influisce non solo su quello che fate con i vostri figli, ma anche su quello che non fate; si ripercuote sul vostro modo di ripartire le responsabilità tra i membri della famiglia e sull’eventualità di trattare figli e figlie in modo diverso; contribuisce a stabilire se il vostro atteggiamento quotidiano denota fondamentalmente rispetto o mancanza di rispetto nei confronti dei bambini; riguarda ciò che vi fa arrabbiare o vi rattrista e le modalità di espressione di sentimenti come questi.

Di certo non è sempre necessario ricorrere a brillanti spiegazioni psicologiche per giustificare le scelte sbagliate che si fanno da genitore. A volte si perde la pazienza solo perché i figli ne richiedono tanta: i bambini sanno essere così rumorosi, disordinati ed egoisti. Come ho già detto all’inizio del libro, crescere un figlio non è un gioco da ragazzi, e con alcuni figli è più dura che con altri. Tuttavia il fatto che un bambino sia particolarmente difficile da tenere a freno non è una spiegazione sufficiente a giustificare il ricorso alla negazione dell’amore o ad altri strumenti di controllo. Secondo un buon numero di studi scientifici, infatti, gli stili educativi di base risulterebbero “essere già stabiliti prima di avere esperienza diretta con la propria prole”. Stili che affondano le radici nelle esperienze di molti anni prima16.

Di recente ho letto un messaggio lasciatomi da un uomo sul mio sito internet, che a un certo punto scriveva “Guardo, come lo spettatore di un disastro ferroviario, gli amici assumere gli stessi comportamenti con i quali i loro genitori riuscivano a ferirli. Non è un bello spettacolo”. Né, aggiungerei, è cosa facile capire perché ciò avvenga. È probabile che le persone a cui si riferisce quest’uomo non abbiano deciso a tavolino di condannare i figli alla loro stessa infelicità. Ci deve essere un’altra spiegazione a tale ripetizione. Ci deve essere un’altra spiegazione dell’incomprensibile, per non dire tragica, illogicità con cui anche molti di coloro che si dimostrano più critici nei confronti dei propri genitori finiscono tuttavia per ricrearsi una famiglia sinistramente simile a quella dalla quale sono fuggiti. (O quella dalla quale credono di essere fuggiti).

La spiegazione ci giunge da Alice Miller: “Molti individui continuano a trasmettere ad altri la crudeltà sperimentata in passato e riescono in tal modo a mantenere viva in sé l’immagine idealizzata dei genitori”17.
La premessa è che tutti noi abbiamo il bisogno, stringente e inconscio, di credere che tutto quanto fattoci dai nostri genitori sia davvero per il nostro bene e frutto del loro amore. Risulta troppo minaccioso, per molti di noi, solo ventilare la possibilità che non siano stati del tutto in buona fede - o all’altezza. Quindi, per cancellare ogni dubbio, facciamo ai nostri figli quello che i nostri genitori hanno fatto a noi.
Un’altra spiegazione plausibile ci viene indicata da John Bowlby, lo psichiatra inglese ideatore della nota teoria dell’attaccamento. Bowlby sostiene che se non si è sperimentato un rapporto empatico con i propri genitori, difficilmente si è in grado di diventare genitori empatici. Lo stesso varrebbe per l’amore incondizionato: se non è stato ricevuto, non se ne ha da offrire. Chi, da bambino, è stato accettato solo in maniera condizionata tenderà ad accettare gli altri (figli inclusi) allo stesso modo. Ci sono prove che lo dimostrano (vedi cap. I). Genitori di questo genere imparano a considerare l’amore come un bene che scarseggia e che va, quindi, razionato.
Sostengono che i bambini vadano controllati con rigore, siano come siano.
Di regola, quando i bisogni emotivi fondamentali non vengono soddisfatti, non si limitano a svanire con l’età; al contrario, si continua a cercare di soddisfarli, spesso in maniera indiretta e contorta, in uno sforzo che, spesso, richiede un’attenzione spasmodica e pressoché continua su di sé, per dar prova della propria intelligenza, bellezza e amabilità. Per di più, coloro che avrebbero bisogno di quell’attenzione su di sé, ossia i figli, rischiano di trovare un individuo emotivamente assente: troppo impegnato a ottenere ciò che gli è mancato. Come dimostrato da due ricercatori canadesi, i genitori troppo concentrati sui propri bisogni e sui propri obiettivi tendono ad accettare i figli con maggior difficoltà - e a ricorrere più spesso alle punizioni e al controllo - rispetto ai genitori interessati alle necessità dei figli o dell’intera famiglia. Chi mette di norma i propri bisogni davanti a tutto tende altresì a pensare che il cattivo comportamento dei figli sia volontario e radicato nella loro natura e personalità, e non generato da un contesto particolare18.
Spesso i piccoli vengono messi nella posizione di sentire che il loro compito è quello di rendere felici mamma e papà, rassicurandoli e facendoli sentire all’altezza. A volte vengono spinti in modo subdolo a garantire a un genitore quello che quest’ultimo non riesce a ottenere dal compagno (se non da se stesso), magari facendogli compagnia come un adulto. A quel punto i bimbi vengono forzati a essere amici, persino genitori, del genitore, senza che nessuno si accorga di quanto sta avvenendo. Che il figlio riesca o no a capire come diventare quello che vuole il genitore, il suo sviluppo rischia di restarne compromesso perché sono i bisogni degli adulti a essere al centro di tutto.

Quello che temiamo

Quando mettiamo assieme i sentimenti, i princìpi e i comportamenti che ci influenzano - sia da un punto di vista personale che culturale, conscio e inconscio - spesso ci accorgiamo che essi possono in parte influire sul nostro essere genitori nella misura in cui ci spaventano. Per alcuni individui le paure risultano più devastanti e meno razionali che per altri, ma tutte possono contribuire a spiegare perché i bambini vengano trattati nei modi descritti.

Paura di non essere all’altezza
Onestamente mi preoccuperei se un neo genitore non si mostrasse affatto spaventato da quanto lo attende. Io e mia moglie ricordiamo bene il rilascio di adrenalina (e di pitocina) che ci ha portato a uno stadio molto simile al panico: fuori dall’ospedale, perché l’assicurazione aveva sentenziato che vi eravamo rimasti anche troppo, a cullare un neonato che dormiva sul sedile dell’auto, come due baccalà, e a pensare “Ci dev’essere un errore, noi non sappiamo proprio da che parte prenderlo, un coso del genere” (peggio sarebbe stato rendersi conto che non ci stavamo portando a casa un neonato e basta, ma anche un futuro treenne, ottenne e quattordicenne).
Nessuno pensa di essere un cattivo genitore già in partenza. Tutti noi amiamo i nostri figli e desideriamo renderli felici e tenerli al sicuro più di ogni altra cosa al mondo. A volte però ci sentiamo anche impotenti, confusi, frustrati se le cose non vanno come stabilito, e (più o meno) segretamente insicuri della nostra capacità di fare il nostro dovere. Il timore di non sapere cosa fare ci può spingere in varie direzioni, tutte problematiche: alla strenua ricerca di consigli rassicuranti ma cattivi (“Non so che fare, chiederò consiglio a mia suocera che mi sembra tanto sicura del fatto suo quando dice che i bambini vanno lasciati piangere ‘finché non si stancano’”; oppure “farò come dice questo esperto, che mi consiglia di assegnare a mio figlio una stelletta d’oro ogni volta che fa quel che gli dico”).
Il timore dell’incompetenza19 spinge molti genitori a cedere a ogni richiesta dei figli, il che, com’è ovvio, è ben diverso dal soddisfarne i bisogni, collaborando con loro per la risoluzione dei problemi. Altri, invece, mettono a tacere i dubbi fingendo di essere sicuri di tutto e di avere ogni cosa sotto controllo. In breve tempo il ruolo del genitore con la G maiuscola, dichiaratamente dispotico e autoritario senza cedimenti, diventa tanto comodo da dimenticare che si tratta solo di un ruolo, ancor più i motivi per cui lo si è adottato. Genitori del genere impongono ai figli regole rigide che non possono essere né giudicate, né messe in discussione, come a voler convincere chiunque, a partire da se stessi, di quanto siano convinti del fatto loro.

Paura di sentirsi impotenti
Ognuno di noi è stato, un tempo, completamente esposto e dipendente da qualcun altro. A livello inconscio alcuni individui temono che la minima scalfittura nella propria corteccia di adulti possa riportarli di colpo a quello stato di vulnerabilità, e gestiscono tale paura fingendo di essere adulti invulnerabili.
Poiché la mancanza di controllo li terrorizza, hanno bisogno di credere di avere sempre tutto sotto controllo.
Purtroppo è una condizione che rischia facilmente di trasformarsi in un bisogno di esercitare il proprio controllo sugli altri, di ergersi al primo posto e dominare, di considerare il disaccordo degli stessi figli come una battaglia da vincere. Certi adulti temono che fare un passo indietro, cambiare opinione, ammettere di avere torto o non puntare i piedi significhi perdere tutto.
Questo capita soprattutto a chi è cresciuto in famiglie di tipo tradizionale, dove la parola dei genitori era legge. Esperienza che ha portato quei bambini a “imparare che non c’è nessuno disposto a dare ascolto ai tuoi bisogni o ai tuoi desideri in situazioni di conflitto”, come dichiarano due ricercatori. Il senso di impotenza che ne deriva non svanisce mai del tutto, con il risultato che, negli anni, quei bambini tenderanno a voler ottenere un certo grado di controllo controllando i loro stessi figli20. Così, per quanto possa apparire paradossale, i genitori che “si considerano meno forti tenderanno a ricorrere a tecniche di controllo coercitive”21.

C’è chi imposta la propria esistenza sulla necessità di mostrarsi forte, o di comportarsi in tal senso, così da scampare al terrore di sentirsi in balìa del prossimo. L’interesse a controllare gli altri non si limita ai bambini: si avverte l’obbligo di dimostrare la propria superiorità anche nei confronti degli adulti. Tuttavia risulta più semplice, e più accettabile dal punto di vista sociale, comportarsi così con i più piccoli. Norman Kunc, nei suoi corsi sull’istruzione integrata e i metodi non coercitivi, sottolinea come “quelli che vengono definiti ‘disturbi del comportamento’ sono spesso situazioni di legittimo conflitto. Tendiamo a definirle disturbi del comportamento perché abbiamo più potere” di quanto non ne abbiano i bambini (non siamo autorizzati a dire che il coniuge soffre di disturbi del comportamento)22.
Esistono studi che dimostrano come i genitori irrispettosi tendano per lo più a “considerarsi vittime delle malevoli intenzioni dei figli”. Ma che cosa viene prima: il comportamento o la convinzione? Forse, spacciandoci per vittime, o denunciando quanto possano essere “manipolatori” i bambini, “tentiamo di giustificare le nostre reazioni negative cercando nel bambino ragioni altrettanto negative”23.

Anche i genitori più rispettosi possono sentirsi spinti dall’impulso di esercitare il controllo per timore di perderlo. Per gran parte di noi è destabilizzante accorgersi che, nella notte, qualcuno si sia intrufolato in casa, sostituendo l’innocuo neonato con un bimbetto che sa già il fatto suo. Quello che, un tempo, era un adorabile piccino ora ha il coraggio di perseguire i propri programmi, trasgredendo ad alcune delle nostre richieste. Sapremo resistere alla tentazione di trovare la maniera di superarlo in furbizia? Sa premo passare dall’imposizione alla collaborazione? Si tratta di un test che non tutti superano (il test si riproporrà, volente o nolente, una decina d’anni dopo, quando la voglia di autonomia del figlio si farà di nuovo sentire - e sarà ancor più difficile ottenere l’obbedienza di un individuo più grande, più scaltro e meno dipendente da noi).
Le nostre paure spesso ci fanno impuntare, sbagliando di grosso. Una sera il mio bambino di tre anni si oppone - più che altro con l’immobilità e l’ascolto selettivo - alle mie ripetute richieste di interrompere il gioco per andarsi a spogliare. Passano i minuti e gli propongo di scegliere tra togliersi la maglietta da solo o farsela levare da me. Siccome non risponde, lo spoglio io e lo porto di sopra. Pianti e urla disperate e inconsolabili perché voleva togliersi la maglietta da solo. Gli ricordo (credo in modo calmo e ragionevole) che gli era stato proposto ma che non ne aveva approfittato.
Lui continua a piangere, ha tre anni, e io sto parlando a me stesso.
Adesso lui vuole tornare di sotto, e gli dovrei rimettere la maglietta così da potersela levare da solo. “No”, gli dico, “è troppo tardi”. Sono già oltre, agli abiti ancora da togliere e all’acqua nella vasca che si sta raffreddando.
Lui però non vuole andare oltre, e non si muove. Siamo a un punto morto - finché mi rendo conto che mi sto comportando in maniera irrazionale tanto quanto lui. Insistere nel fare le cose come dico io non solo ci rende entrambi infelici, ma ci fa perdere tempo. Quindi facciamo così: scendiamo, rimettiamo la maglietta, la togliamo, torniamo su ed entriamo nella vasca.
Tuttavia, come risultato della mia resistenza a rinunciare al controllo, ci vogliono una o due ore prima che gli spunti un sorriso e che la relazione torni serena.

Paura di essere giudicati
Alcuni genitori vivono nel terrore di quello che terze persone - non solo amici e parenti, ma anche l’anonimo e onnipresente giudice noto come “gli altri” - potrebbero pensare dei loro figli, e quindi della loro competenza di educatori. Paura particolarmente debilitante se accompagnata dalle due appena descritte. Ogni tanto, però, anche i genitori più sicuri di sé si sentono
a disagio nell’eventualità che qualcuno, da qualche parte, possa pensare “Mamma mia, quella non sa fare la madre. Basta guardare i suoi figli!”
Pensate a quanto di quello che facciamo con i nostri bambini è dettato dal timore di come verremo percepiti dagli altri adulti. Un signore offre qualche cosa al nostro piccolo e subito sbottiamo con un “Come si dice?” - rivolgendoci chiaramente al bimbo che, ovvio, non sa dire grazie e forse è pure troppo piccolo per imparare dal nostro esempio. Quel che facciamo è, in realtà, parlare all’adulto attraverso il bambino, mettendo in chiaro che noi sappiamo quale risposta dare, e come si educano i figli.

Come ho già detto, nella nostra cultura i genitori vengono incolpati assai più spesso per la mancanza di controllo che per il suo eccesso - e i bambini più elogiati perché “beneducati” e non perché, ad esempio, curiosi. Quindi, sommando l’ansia del genitore per gli eventuali giudizi con la probabile destinazione del giudizio, il risultato finale è sorprendente: è più probabile che ricorriamo a metodi coercitivi e che ci preoccupiamo di controllare i nostri figli quando siamo in pubblico24. Così come per molte altre paure, la previsione si avvera, per cui dare una strapazzata ai propri figli per timore di quello che gli altri possono pensare rischia di innescare proprio quel comportamento che non vorremmo fosse visto.

Paura per l’incolumità dei nostri figli
Qualsiasi genitore premuroso teme per il bene dei propri figli, soprattutto quando i giornali sono pieni di storie di fattacci da far rizzare i capelli in testa, accaduti a gente perbene. Prima di diventare padre non mi rendevo conto di quanto sia difficile distinguere quando certe preoccupazioni sono fondate e quando sono esagerate - e quando le nostre reazioni superano il limite che separa la ragionevole premura dall’iperprotezione soffocante.
Eppure risulta piuttosto chiaro come alcuni genitori razionalizzino un inopportuno controllo sui figli basandosi sulle terribili conseguenze che ne deriverebbero altrimenti. Non mi riferisco al tenere un occhio vigile su un bambino, per sapere che cosa combina durante la giornata e per porgli i giusti limiti. È chiaro che questo ha senso. Mi riferisco, in realtà, al genere di controllo descritto al capitolo III, quello per cui i genitori danno ai figli poco spazio per decidere di quello che vogliono fare, perché si vuole proteggerli (ancor peggio quando l’eccessivo controllo su un bambino viene
esercitato perché si teme per la sicurezza degli oggetti - ovvero dei beni).
Questo ci fa subito intuire il livello di autostima di quel bambino e il suo rapporto con i genitori.

Paura che non crescano abbastanza in fretta
Non è la semplice nausea da pannolino a spingere alcuni genitori ad anticipare l’uso del vasino, così come non è il semplice desiderio di introdurre i piccoli alla magia della parola scritta che li spinge a propinare l’ABC ai bimbi in età di asilo. Ho visto bambini spinti a imparare a camminare, criticati perché gattonavano, incoraggiati a salire le scale da soli perché era il momento giusto. Ho visto forchette impugnate da mani troppo piccole, con l’ordine di “mangiare come i bambini grandi”.
Il presupposto che prima è meglio è, forse deriva dal timore che sia troppo tardi. Paura che, a sua volta, forse riflette il principio che i bambini non dovrebbero essere “piccoli”: è ora di svezzarli, di passare al vasino, di iniziare a camminare, a parlare, a fare le cose da soli. I genitori si preoccupano se i loro figli si comportano come i bambini troppo piccoli. Perché?

Un mio amico, più lungimirante, pone questa domanda retorica: “Pensate davvero che vostro figlio gattonerà ancora (o indosserà ancora il pannolino) alle medie? Che fretta avete? (E parlando di scuole medie, quando mai vi è capitato di sentire i genitori di un adolescente incoraggiare quel bambino a crescere più in fretta - a truccarsi di più, ad andare da solo alle feste, ad avere una vita sessualmente attiva, a prendere subito la patente?)
Quelli che riescono meglio ad accettare di prenderla con più calma sono i genitori di bambini con disabilità, che si sono trovati costretti ad affrontare le peggiori paure e a superarle. Ma il segreto per tutti i genitori è quello di tranquillizzarsi e lasciare che i bambini procedano al proprio ritmo. Una cosa è sentirsi sfiniti dal tenere in braccio un bimbo di quattro anni; un’altra è rifiutarsi di prenderlo in braccio perché a quell’età non si può più fare - e, più in generale, perché i bambini devono fare sempre quello che sono in grado di fare.

In questi giorni alla mia bambina di nove anni è venuto il ghiribizzo di guardare programmi destinati a bimbi più piccoli di lei. All’inizio mi sono sentito a disagio, ma poi mi sono reso conto che: primo, mia figlia riceve già abbastanza stimoli intellettivi durante il giorno e ha anche il diritto di godersi qualche attività poco impegnativa (se gli adulti possono distendersi con stupide telenovele o qualche libro giallo, perché mai un bambino di quarta elementare non dovrebbe immergersi in programmi per bimbi dell’asilo?); secondo, guardando uno di quei programmi insieme a lei, ho capito che mia figlia in realtà utilizza i sofisticati strumenti di cui dispone per prevedere gli sviluppi della trama, criticare le incongruenze, considerare vicende alternative per i personaggi e intuire i trucchi nascosti dietro ogni illusione25; terzo, e più importante ancora, guardare un programma alla TV (o leggere un libro) “al di sotto del suo livello” non la fa rimbambire. Il vero pericolo è quello di volerla forzare a crescere più in fretta.

Il timore che i nostri figli non crescano abbastanza in fretta è parente del timore che rimangano indietro. Ciò spiega l’enorme successo di manuali angoscianti e pericolosi con titoli del tipo Tutto quello che vostro figlio dovrebbe sapere a due giorni. Tutte le volte che mi capita di vedere come taluni genitori si mettono a fissare gli altri bambini presenti per captare quello che sono già in grado di fare, mi vengono in mente certi fratellini che, davanti al dolce, subito si sbirciano l’un l’altro per capire a chi è toccata la porzione più grossa. Il bisogno compulsivo di fare paragoni riflette la paura, coltivata esclusivamente dalla nostra società malata di competizione, che i figli degli altri siano più avanti dei nostri. Chi considera l’infanzia alla stregua di una corsa non mancherà di imporre tutta una serie di inutili pressioni sui propri figli.

Paura di essere troppo permissivi
Come il timore che i nostri figli vengano superati in bravura dai coetanei è riconducibile a una malsana spinta verso il successo, così la paura di essere troppo permissivi rischia di condurre a un controllo altrettanto malsano.
Come già evidenziato, non è il permissivismo in sé, ma la paura di essere troppo permissivi a causare i problemi più gravi nella nostra cultura. Paura spesso alimentata dai manuali per genitori, come già dichiarava Thomas Gordon, che “Prima sbagliano imputando al permissivismo la colpa di tutti i mali; poi atterriscono i genitori facendo loro credere che l’unica soluzione per andare avanti è quella di esercitare una ferrea autorità - restando inflessibili, dettando regole da rispettare alla lettera, stabilendo limiti rigorosi, ricorrendo alle punizioni corporali ed esigendo obbedienza”26.
La relazione empirica tra princìpi e paure, da un lato, e metodi educativi, dall’altro, è già stata accertata: le madri convinte, ad esempio, che si rischia di viziare un neonato manifestandogli troppo affetto tendono di fatto
a ricreare un contesto di minor sostegno27. Anche nei bimbi più grandi, tuttavia, è difficile quantificare il danno prodotto da genitori che impongono diktat assoluti, o che manifestano un amore condizionato, per il terrore che tutto il resto risulterebbe troppo permissivo. Liberare quei padri e quelle madri da tale paura sarebbe un decisivo passo avanti nel cammino per renderli i genitori amorevoli che potrebbero essere.

Nella mia esperienza, ciò che fa di un genitore un genitore davvero in gamba è la volontà di mettere in discussione il proprio modo di educare i figli e il modo in cui loro stessi sono stati educati. Se gli si suggerisce un modo più efficace di gestire il conflitto con i figli, quel genitore sa resistere alla tentazione di mettersi sulla difensiva con un “Beh, così è stato fatto con me e non mi son trovato male”. Per svolgere al meglio il mestiere di genitori, è necessario essere disponibili a guardare anche i lati più sgradevoli, per cogliere ciò che di buono hanno fatto i nostri stessi genitori e per capire che cosa migliorare rispetto a loro. Chi di noi ha avuto la fortuna di essere trattato con rispetto desidererà, come è logico, fare altrettanto con i propri figli.
Gli altri dovranno imparare a non far subire ai figli lo stesso trattamento, ma a trattarli come avrebbero voluto essere trattati loro.
Nell’elencare i presupposti legati alla retribuzione, alla religione, alla competitività e all’obbedienza il mio intento non era quello di confutarli, ma di metterli in evidenza alla ricerca di eventuali ripercussioni sui metodi educativi scelti. Intento ancor più limitato quando ci si addentra in questioni strettamente personali. Nonostante quanto riferito da certi autori, le prospettive di reale cambiamento al termine della lettura di un manuale non sono rosee. Posso solo sperare che Freud avesse ragione di credere che il primo passo verso il cambiamento è l’introspezione. La vera comprensione, quella di testa e di pancia, magari non basterà a farci comportare in modo diverso con i nostri figli, ma forse è necessaria.
Questa è la conclusione: non raggiungeremo nessuno degli obiettivi a lungo termine che ci siamo prefissi per i nostri figli a meno che non ci decidiamo a rispondere a questa domanda: è possibile che quello che faccio dipenda più dai miei bisogni, dalle mie paure, dalla mia educazione che dal bene dei miei figli? La risposta potrebbe essere un rassicurante “no” - nella speranza che, andando avanti, i no siano superiori ai sì. Dobbiamo, tuttavia, avere la volontà di continuare a porcela, questa domanda. Se riusciremo a interrogarci sui possibili motivi che ci spingono a comportarci in un certo modo - i quali non si limitano certo a quelli indicati in questo capitolo - saremo in grado di passare a prendere in considerazione alcuni suggerimenti specifici per diventare genitori migliori.

Amarli senza se e senza ma
Amarli senza se e senza ma
Alfie Kohn
Dalla logica dei premi e delle punizioni a quella dell’amore e della ragione.Un classico dell’amore incondizionato. Come crescere i figli eliminando finalmente i piccoli ricatti, le minacce, le promesse e i premi. Crescere un figlio non è un gioco da ragazzi!Diventare genitori è un esame costante sulle capacità di affrontare disordine e imprevedibilità, un ruolo per cui non ci si può preparare davvero.Una delle difficoltà maggiori è la tentazione di domare l’atteggiamento di opposizione dei figli alle nostre richieste, rischiando di trasformarli in burattini addomesticati o, al contrario, di provocare danni approvando tutto ciò che dicono e fanno.Allora, come farsi obbedire dai propri figli?Sistemi educativi quali punizioni, castighi, premi e altre forme di controllo inducono i nostri figli a credere di essere amati solo se ci compiacciono o ci colpiscono in modo favorevole.Nel suo libro Alfie Kohn si allontana dai messaggi veicolati da certi metodi convenzionali e ribalta la prospettiva, chiedendosi quali siano i bisogni dei nostri figli e come possiamo soddisfarli.L’autore suggerisce una serie di idee per allontanarsi da metodi abituali che prevedono l’imposizione di qualcosa ai bambini, per approcciarsi a modalità che portino invece alla collaborazione con loro.Amarli senza se e senza ma risponde a una domanda cruciale: le nostre azioni quotidiane possono contribuire a rendere nostro figlio l’adulto che vorremmo?Consigli utili affinché il bambino possa aspirare a diventare un adulto sano, responsabile ma allo stesso tempo sensibile e premuroso.Un libro rivoluzionario e illuminante per diventare a tutti gli effetti genitori senza se e senza ma, poiché uno dei bisogni fondamentali del bambino è proprio essere amato in maniera incondizionata ed essere accettato anche quando combina guai o fallisce: in sintesi, essere amato per quello che è e non per quello che fa. Conosci l’autore Alfie Kohn ha pubblicato diversi libri, tra cui Punished by Rewards e The Schools Our Children Deserve, che hanno dato un forte contributo all’operato di educatori e genitori. Vive con la famiglia nei pressi di Boston, dove tiene conferenze e seminari, ed è raggiungibile sul web all’indirizzo www.alfiekohn.org.