CAPITOLO I

La metamorfosi dell’adolescente

L’età della muta

I giorni scivolano via velocemente, come perle di una collana a cui si è spezzato il filo, e la percezione dello scorrere del tempo risulta amplificata se si condivide la quotidianità con i figli. È ancora vivo il ricordo delle notti insonni trascorse fra una poppata e una ninna nanna, delle ore passate a tenere in equilibrio una bicicletta senza rotelle, delle parole spese per consolare dalle prime delusioni, dei pomeriggi dedicati allo studio della tabellina del sette o del modo congiuntivo e ci si ritrova smarriti davanti a un corpo in trasformazione che sorprende, non solo i nostri figli, ma anche noi. Appare incredibile come quel ragazzo, che ormai ci sovrasta di un palmo, sia stato per nove mesi accoccolato nel nostro grembo, come sembra impossibile che la piccola di casa abbia già fatto esperienza della sua natura ciclica.

Questa età della muta viene, sovente, vissuta dai diretti interessati con ansia e apprensione in quanto vorrebbero comprendere subito cosa ne sarà del loro corpo: asseconderà le aspettative o le deluderà aprendo la strada a complesse problematiche? I ragazzi vivono la trasformazione con un senso di estraniamento dalla propria corporeità che, modificandosi repentinamente, offre un’immagine che loro stessi faticano ad accettare o rifiutano drasticamente.


Si tratta di una delicata fase di transizione, un passaggio previsto dal ciclo biologico da vivere all’insegna della gradualità, che richiede un immenso sforzo, anche da parte dei genitori che devono apprendere come gestire conflittualità e comportamenti ambivalenti del figlio.
Le trasformazioni sono continue nel corso della vita; quelle puberali e adolescenziali tuttavia sono le prime che vengono affrontate con consapevolezza e disagio dai soggetti interessati, che si trovano a dover elaborare, impreparati, una strategia di crescita.

Un corpo da affamare

In una società dove i mass media veicolano, costantemente, il messaggio secondo cui si è vincenti solo se si aderisce a determinati canoni estetici, che identificano la bellezza con la magrezza nella femmine e con la muscolosità nei maschi, diventa difficile accettare un corpo che non possegga tali requisiti. Questo accade poiché fra i giovani l’aspetto esteriore è il primo, e spesso unico, biglietto da visita che si spende nei rapporti con gli altri.


Per un ragazzo è un’impresa ciclopica affrancarsi dalla schiavitù del good looking, portare avanti con orgoglio le proprie peculiarità corporee, resistere alla derisione e all’emarginazione provenienti dal gruppo dei pari. Risulta complicato per un adolescente liberarsi dalla dittatura del branco in quanto, crescendo nell’epoca dei social network, percepisce il cyberbullismo come la più grande minaccia dalla quale difendersi: sono molti, infatti, i gruppi online nati al fine di prendere di mira un coetaneo considerato diverso per l’aspetto fisico. Fra le categorie più discriminate dai giovani quella delle persone grasse si attesta al terzo posto, dopo quella degli omosessuali e dei rom: un pregiudizio che si è rapidamente diffuso con la complicità della televisione e, soprattutto, di Internet. Una gogna digitale incontrollabile che non resta circoscritta a un determinato ambiente ma segue, ovunque, la giovane vittima colpevole di avere dei chili di troppo. Nonostante la creazione di portali di moda per donne plus size, con foto di splendide e burrose modelle curvy, e di giornate ribattezzate dell’“orgoglio morbido”, nelle quali si danno appuntamento persone molto in carne, appare come un miraggio sradicare il pregiudizio che considera l’obeso un individuo con scarsa forza di volontà e l’eccesso ponderale una colpa da espiare. La feroce violenza perpetrata da un giovane, in un autolavaggio di Napoli, ai danni di un ragazzino sovrappeso ha messo drammaticamente in evidenza la deriva valoriale alla quale si sta assistendo, con la muta complicità di coloro che ritengono normale relegare le persone obese ai margini della società.


Il web ha permesso, inoltre, la proliferazione dei siti pro-ana nei quali si esalta la magrezza e vengono suggeriti pericolosi espedienti per vincere lo stimolo della fame all’insegna della thinspiration (letteralmente ispirazione al magro): un movimento nato in America, alla fine degli anni Novanta, che promuove la correlazione positiva fra il sottopeso e l’accettazione sociale. Sempre dagli Stati Uniti arrivano notizie di nuove mode, promosse dallo star system per perseguire la magrezza, come quella di sottoporsi a flebo di cocktail vitaminici somministrati in coffee shop o “spa della goccia” e documentati da autoscatti con l’ago infilato nella vena del braccio: il costosissimo Vitamin drip promette di essere più magri, più performanti e di smaltire prima i postumi di una sbornia…

Vivendo immersi nella sottocultura del narcisismo, dove il proprio aspetto è divenuto la misura principale del proprio valore, si comprende perché i disturbi del comportamento alimentare (DCA) siano dilagati, fino a diventare la prima causa di morte per malattia fra gli adolescenti.


Anoressia (dal greco an-orexis: letteralmente mancanza di appetito, ma in realtà è una lotta continua per tenere a bada i morsi della fame), bulimia (dal greco bous e limos: letteralmente una fame da bue che si traduce in abbuffate seguite da condotte di eliminazione), binge eating disorder (termine inglese per definire il disturbo da alimentazione incontrollata) ma anche forme più recenti quali vigoressia (dal latino vigor e dal greco orexis: letteralmente fame di forza, indica l’eccessiva attenzione per la forma fisica e per lo sviluppo muscolare), ortoressia (dal greco orthos e orexis: letteralmente corretto appetito, indica chi si nutre esclusivamente con cibi presunti sani eliminando intere categorie di alimenti), drunkoressia (neologismo coniato per indicare la tendenza a digiunare, o limitare l’assunzione di cibo, per poter assumere forti quantità di alcolici) risparmiano pochi giovani anche se, talvolta, li colpiscono sotto forma di sindromi parziali che tendono a risolversi spontaneamente. I genitori non devono sottovalutare i primi campanelli d’allarme di questo disagio: dimagrimenti repentini, sbalzi dell’umore, eccessive sedute in palestra, utilizzo di lassativi, attenzione maniacale per le calorie contenute negli alimenti o drastica esclusione di determinati cibi. Sono tutte situazioni da affrontare senza indugio, con coesione e abbandonando i sensi di colpa, mediante l’ausilio del medico di famiglia e di specialisti, quali psicoterapeuti, psichiatri, nutrizionisti, per evitare la cronicizzazione di una malattia che difficilmente il giovane riconosce insita in sé e che, talora, si accompagna alla dismorfofobia, l’errata percezione della propria immagine corporea.


Simili condotte alimentari offrono in poco tempo un corpo che soddisfa, regalano l’accettazione del gruppo e, come qualsiasi dipendenza, illudono di poter essere facilmente controllabili da parte di chi le pone in atto. Invece sfuggono di mano: le ragazze si affamano, dimagriscono e vorrebbero essere sempre più magre, i ragazzi assumono sostanze anabolizzanti, aumentano la massa muscolare e vorrebbero essere sempre più muscolosi e prestanti. I disturbi del comportamento alimentare rispondono, con straordinaria rapidità, alle richieste di controllo e miglioramento fisico di un giovane che non ha la pazienza di aspettare, senza mettere in atto forzature, per vedere cosa ne sarà del proprio corpo. Ma attraverso i DCA gli adolescenti, in preda a un vero e proprio delirio di onnipotenza, pensano di poter controllare anche le emozioni per riportare ordine nella loro vita.

A volte accade che all’interno della stessa famiglia siano presenti modelli negativi di riferimento. Madri eccessivamente preoccupate del proprio aspetto fisico, pressanti nel riprendere la figlia con qualche chilo di troppo o poco attente al corretto stile di vita, che coniuga alimentazione e attività sportiva, possono generare ulteriore confusione in un giovane alle prese con il suo caos interiore e vittima di quell’epidemia di sospetta bruttezza che l’attuale società narcisistica ha contribuito a diffondere.

Riscoprire il sapore della convivialità e degli alimenti genuini

Per un adolescente il cibo può trasformarsi in un vero e proprio nemico, come nel caso dei disturbi del comportamento alimentare, ma può anche diventare una forma di consolazione nell’affrontare le prime delusioni amorose o le prime difficoltà scolastiche, delle quali sta imparando ad assumersi la responsabilità. Gli alimenti possono servire anche per ingannare la noia, la monotonia di giornate trascorse sui libri o davanti alla televisione.


A questa età il genitore non è in grado di controllare quello che il figlio mangia quando è fuori casa con gli amici e, sovente, la scelta di un ragazzo che non sia stato abituato fin dalla culla a un’alimentazione sana e variata, ricade sul cibo spazzatura, cioè sui prodotti industriali ricchi di additivi chimici che, esaltando il sapore e procrastinando il senso di sazietà, inducono a un consumo sempre maggiore e sviluppano nel tempo una dipendenza. L’educazione a un corretto approccio con gli alimenti e al gusto, avviata nell’infanzia, deve essere mantenuta con fermezza anche durante l’adolescenza, periodo nel quale fioriscono fastidiosi problemi estetici quali i brufoli nei ragazzi e le linee eccessivamente morbide nelle ragazze. È opportuno far passare il messaggio che si tratta di inconvenienti transitori di un corpo in trasformazione, da accettare e cercare di controllare senza assurde restrizioni alimentari. Problemi da minimizzare ma dei quali farsi carico accompagnando, se necessario, il figlio da uno specialista per scongiurare l’utilizzo di miracolosi intrugli per l’acne, suggeriti dal compagno di banco, o di diete insensate scovate sulla rivista di moda dell’amica: diventa fondamentale tenere sotto controllo la loro metamorfosi corporea al fine di impedire pericolosi e clandestini rimedi “fai da te”.


È necessario, poi, non assecondare la tendenza dell’adolescente di saltare la prima colazione per dormire dieci minuti in più al mattino: essa rappresenta uno dei pasti principali che rifornisce il corpo, rimasto a digiuno tutta la notte, dell’energia necessaria per affrontare le prime ore di scuola. Si cerchi anche di evitare che durante la ricreazione consumi cibi confezionati e bibite zuccherate: molto meglio mettergli in cartella uno spuntino nutriente preparato in casa. Bisogna poi accoglierlo a pranzo, compatibilmente con i propri impegni lavorativi, presentando in tavola pasta o riso, pane, carne o pesce o latticini, verdura e frutta; eviteremo così che spilucchi junk food per tutto il pomeriggio. La giornata si conclude con la cena che ormai rappresenta l’unico momento in cui l’intera famiglia si riunisce intorno a un tavolo. Il pasto serale diventa l’occasione per servire, insieme a pietanze sane, un’attenzione sincera verso i ragazzi, dopo aver provveduto a spegnere televisione e cellulari.


Gli ingredienti per una corretta alimentazione, improntata al gusto e alla semplicità, non sono quindi solo i cibi freschi, variati e di stagione, ma anche la cura e il tempo che si dedicano alla loro preparazione e al loro consumo: all’insegna della convivialità nutriamo i nostri ragazzi con vitamine, proteine, carboidrati, affetto e ascolto. Apparecchiare in tal modo la tavola favorisce anche un approccio equilibrato verso gli alimenti che, spesso, i giovani tendono a cercare compulsivamente o a rifiutare categoricamente, fedeli a quella visione, tipica dell’adolescenza, del tutto o niente, del bianco o nero che non permette loro di percepire le mille interessanti tonalità di grigi comprese nell’intervallo.

Vincere non è l’unico obiettivo

Gli adolescenti hanno la tendenza ad abbandonare qualsiasi attività fisica, con un conseguente sviluppo del sovrappeso, dovuto al mancato bilanciamento fra l’energia consumata e le calorie introdotte. Talvolta rinunciano agli allenamenti in quanto, da bambini, hanno vissuto lo sport come un’imposizione da parte di genitori ambiziosi che accarezzavano l’idea di avere un futuro olimpionico in famiglia.


L’overparenting, cioè la propensione a ossessionare i propri figli con pretese e aspettative, sta dilagando in ambito sportivo, scolastico e sociale: fin da piccoli, per esempio, vengono coinvolti in intense attività fuori dalle rassicuranti pareti domestiche e passano, senza soluzione di continuità, da un impegno extra scolastico a una festicciola di compleanno. Il desiderio di coltivare un campione spinge un padre, che crede di riconoscere indizi di straordinarietà nel figlio, a spendere tempo e denaro per uno sport intrapreso a quattro o cinque anni e ben presto, con la complicità della società sportiva, divenuto totalizzante per le ore consumate negli allenamenti. E divenuto, per di più, fonte di stress per le gare, vissute dal giovane con l’ansia da prestazione per il timore di deludere parenti e mister.

L’allenatrice di nuoto Rose Snyder ha stilato un decalogo per i genitori, per difendere il diritto di ogni giovane a non diventare un olimpionico:

  1. Non imporre al figlio le proprie ambizioni;

  2. A fine allenamento o a fine gara esiste una sola domanda: “Ti sei divertito?”;

  3. Non cercare mai di sostituirsi all’allenatore;

  4. Durante le gare non criticare il figlio o l’allenatore;

  5. Non sgridare il figlio, rispettando le sue paure;

  6. Non contestare gli accompagnatori che si spendono per tutta la squadra;

  7. Stimare l’allenatore del figlio concedendogli fiducia;

  8. Sostenere la squadra senza spostare il figlio da un team a un altro;

  9. Ricordarsi sempre che vincere non è l’unico obiettivo;

  10. Lo sport aiuta un figlio a crescere anche se non diventerà un olimpionico.


Consigli spesso disattesi da genitori desiderosi di avere figli speciali, fuori dal comune, che possano compensare antichi fallimenti e frustrazioni. Si comprende quindi il motivo che spinge un adolescente, ossessionato dal perseguire la performance in uno sport che non lo ha mai divertito, ad abbandonare tutto non appena si sente nella condizione di contraddire la volontà genitoriale.

L’inclinazione dei ragazzi a lasciare l’attività sportiva e a limitare, in generale, quella motoria a poche ore di palestra alla settimana va a braccetto con l’abitudine a camminare sempre meno. Alcune ricerche internazionali hanno evidenziato come i ragazzi, dopo i dieci anni, scendano da una media di circa 13.000 passi al giorno a 7.000. Lo psicologo Rocco Cardamone, presidente dell’AIPA, Associazione Italiana Psicologia, Alimentazione e Stili di Vita, ha definito questo fenomeno “sindrome delle scarpe slacciate”, dal vezzo giovanile di non allacciare le calzature, moda che mal si coniuga con passeggiate salutari e con il movimento in generale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, OMS, ha recentemente ribadito l’importanza di camminare per proteggere l’intero sistema cardiovascolare; l’indicazione è di un minimo di 10.000 passi al giorno, pari a circa sette chilometri.


L’abbandono di qualsiasi attività sportiva non solo rappresenta uno dei fattori di incremento dell’obesità fra i giovani ma regala molto tempo libero da spendere bighellonando con il gruppo nei centri commerciali, con in mano una birra e una sigaretta, oppure navigando lungamente sul web in totale solitudine.

Al contrario, il corretto approccio, fin da piccoli, con lo sport garantisce ai giovani una valvola di sfogo per le ore passate a scuola sui libri e insegna la difficile arte dell’impegno per perseguire un risultato senza però soccombere sotto il peso della sconfitta. Rappresenta una valida strategia per contrastare il rischio di cadere nella trappola dei disturbi del comportamento alimentare, dell’alcol o delle droghe. E infine, qualora si pratichi uno sport di squadra, insegna a lavorare in gruppo apportando ognuno il proprio contributo, senza protagonismi e nel rispetto dei compagni.


Ciò nondimeno, ancora una volta, il cattivo esempio arriva dai genitori: gli italiani che non praticano alcuno sport, in base ai dati forniti nell’ottobre 2014 da una ricerca del Censis, sono sei su dieci e, fra coloro che si dedicano a un’attività sportiva, la maggioranza improvvisa senza seguire i consigli di allenatori o medici. Adulti, quindi, campioni nello sport “da divano” che si lamentano per i figli perennemente sdraiati sul medesimo sofà. Oppure adulti che, seguendo a bordo campo la partita del figlio, non sanno gestire l’aggressività. L’ennesimo episodio di un papà che, durante un incontro di calcio, ha schiaffeggiato con violenza il giovane arbitro ha avuto, però, un epilogo inaspettato e sorprendente: la reazione del figlio quattordicenne che, in lacrime, ha chiesto scusa per il pessimo comportamento del genitore. Un ulteriore esempio della difficoltà che si incontra a gestire, con equilibrio, amore e impegno educativo, esercitando correttamente le funzioni di controllo e di guida, arriva da Torino, dove un padre è stato condannato per maltrattamenti verso le figlie adolescenti, costrette a praticare sport agonistico allo scopo di perdere il peso in eccesso.

Il bisturi per esaudire il desiderio di perfezione

Sono molti gli adolescenti che non esiterebbero a ricorrere alla chirurgia per correggere problemi estetici, spesso lievi o presunti, alla ricerca di quella perfezione fisica fissata in fotografie, ritoccate al computer, che ritraggono modelli da imitare. Via libera quindi a liposuzione, mastoplastica additiva, addominoplastica, rinoplastica soprattutto se in famiglia un genitore ha già percorso la via del bisturi che, promettendo un cambiamento immediato, illude di garantire maggior sicurezza e visibilità nel mondo, incluso quello virtuale.

 

Con il dilagare della moda del selfie – l’autoscatto postato sulle reti sociali quali Facebook o Instagram alla ricerca del maggior numero di I like (il tasto “Mi piace” che si clicca per esprimere il proprio gradimento a una notizia o una fotografia pubblicati) per dimostrare a se stessi e agli altri di valere per come si appare e non per quello che si è – sono nati anche i beauty contest dove un esercito di Lolite con trucco eccessivo, abiti succinti e pose provocanti si sfidano in gare di bellezza online. La regola di questo gioco, che prevede un’impietosa X rossa sulle foto delle ragazze giudicate poco avvenenti da almeno cinque persone, può contribuire a minare la fragile autostima delle adolescenti in trasformazione. Sono pochissime, infatti, le giovani soddisfatte della loro metamorfosi corporea: otto ragazze su dieci non si piacciono, vorrebbero essere più belle e sarebbero disposte a tutto pur di entrare nell’olimpo delle veneri invidiate dalle coetanee e corteggiate dai coetanei, compreso un costoso intervento chirurgico regalato per Natale da genitori accondiscendenti che, malati di narcisismo, sono a loro volta ricorsi all’odierna arte plastica. Un’arte che, unendo polimero alla carne, regala l’illusione di una giovinezza eterna e perfetta.

La trasformazione interiore

Alla trasformazione del corpo se ne accompagna una meno evidente, una metamorfosi silenziosa destinata, tuttavia, a manifestarsi con la forza dirompente di un corso d’acqua sotterraneo quando trova sbocco in superficie. Si tratta di un cambiamento interiore che coinvolge le modalità di pensarsi e di comportarsi, unitamente al modo di osservare e valutare il mondo nel quale si vive. Un processo che, sovente, riconsegna al genitore un individuo enigmatico e inafferrabile: uno sconosciuto che si aggira inquieto fra le consuete mura domestiche.

Si osserva questa nuova persona con un misto di sgomento e senso di impotenza, come accadeva quando era neonato e si assisteva al suo pianto disperato faticando a comprendere se fosse dovuto alle coliche, alla fame oppure a un qualche altro malessere. Adesso però i genitori non sono più depositari della soluzione che placherà il suo disagio, in quanto è mutato lo sguardo che il figlio rivolge loro: non li osserva più come esseri invincibili capaci di offrirgli prontamente un rimedio. Gli adulti diventano testimoni della sua determinazione nell’evitare qualsiasi ingerenza esterna mentre, forse, non desidererebbe altro che cercare rifugio e conforto in un loro abbraccio. I genitori devono saper trasformare il loro atteggiamento, restando in disparte, ai margini della sua intima e personale “tragedia”, pur percependo la difficoltà nel gestire l’ingarbugliata matassa di emozioni.


Gli adulti non possono interferire in questo processo: l’atteggiamento ostile di un figlio, mentre si tenta di invadere il suo campo, non lascia spazio a dubbi circa l’inconsueto ruolo di apparenti comparse nella sua esistenza. Devono imparare a diventare delle presenze discrete, disposte a entrare in scena solo quando e se verrà loro richiesto. Pronte a disinfettare le ferite che il giovane si è procurato con una iniziativa avventata, ma tacendo su come, secondo loro, abbia sbagliato strategia.

I genitori sanno in che modo comportarsi, lo apprendono per istinto come quando imparano a decifrare i bisogni sottesi dal pianto del bimbo piccolo. Ma, a differenza di prima, non sempre riescono a seguire il copione che buonsenso e raziocinio suggeriscono: nel vederlo in questo modo perdono lucidità e pazienza e diventano insofferenti. Non resistono ed entrano in azione, orgogliosi di sentirsi ancora una volta quei genitori-eroi ai quali il piccolo tendeva le braccia in cerca di aiuto mentre il magone gli serrava la gola.


Risulta complicato rivestire il ruolo di testimoni della fragilità che si sviluppa in un giovane incerto sulla sua trasformazione. Talvolta diventa insostenibile far fronte all’umore mutevole che lo fa oscillare dall’intimità alla distanza: è gravoso per un genitore intercettare nel proprio figlio la vulnerabilità che scaturisce dall’essere incompleto, dall’esplorare possibili identità senza porre in essere scelte definitive.

La trappola del benessere

Hänsel e Gretel, Pollicino, Peter Pan sono favole che raccontano il timore del genitore nel lasciare andare il figlio, permettendogli di spiccare il volo dal nido. Parlano dell’angoscia al pensiero che un giovane si avventuri da solo nell’oscuro e insidioso bosco rappresentato dall’odierna società. In tal modo si trasmettono a un ragazzo le proprie ansie rischiando di bloccarlo in quella zona liminale, l’adolescenza, che dovrebbe traghettarlo verso un’età adulta caratterizzata da autonomia e consapevolezza. Autonomia e consapevolezza che, ormai, sembra raggiungere sempre più tardi, alla soglia dei trent’anni.


I giovani vengono spesso descritti come annoiati, viziati, dipendenti, frustrati e isolati. Sono dipinti come individui che stanno bene nella famiglia intesa come un luogo di tolleranza dalla quale attingere, grazie a genitori-bancomat, certezze esclusivamente materiali: una cospicua paghetta o frequenti vacanze all’estero. Ma i compiti della crescita per conquistare l’età adulta sono altri. Le certezze da perseguire non sono quelle economiche, della famiglia d’origine, che tendono a dilatare il percorso di studi e le energie profuse nel divertimento, procrastinando l’ingresso nel mondo del lavoro. Un ingresso rimandato grazie al privilegio acquisito dell’attesa, vissuta nell’ambiente ovattato che i famigliari mettono a disposizione, senza responsabilità e progetti per il futuro. Tale situazione, caratterizzata da troppi stimoli e comodità, spesso apre le porte alla noia, condizione che l’attuale adolescente non è più in grado di gestire senza ricorrere a comportamenti trasgressivi e rischiosi.


La mancanza di desideri colpisce anche i neet, acronimo di not in education, employment or training cioè non impegnati nello studio, nel lavoro o non inseriti in un programma di formazione specifica: sono circa due milioni i ragazzi fra i 15 e i 25 anni che vivono “parcheggiati”, senza studiare né lavorare, arresi alla mancanza di prospettive future o condannati a lavori in nero o stage privi di sbocchi. Siamo di fronte alla prima generazione che andrà a marcia indietro, rispetto a quella dei loro padri e dei loro nonni, se non avrà accanto degli educatori in grado di spronarla per organizzare e rielaborare la speranza. Gli economisti parlano della fine della mobilità sociale intergenerazionale, caratterizzata da un segno positivo, come fenomeno responsabile di aver prodotto un sentimento diffuso di preoccupazione tra gli adulti e di rassegnazione tra i giovani. L’Unicef in un recente rapporto, “Figli della recessione: l’impatto della crisi economica sul benessere dei bambini nei Paesi ricchi”, definisce come futuri “adulti perduti” quel milione e mezzo di bambini italiani, uno su tre, che vive in uno stato di povertà tale da non permettere di abitare in case con condizioni igieniche accettabili, di nutrirsi adeguatamente, di acquistare i libri di scuola, di praticare attività fisica.


Pure, i maggiori artefici dell’attuale mancanza di desiderio nei figli risultano essere i genitori incapaci di trasmettere il senso dell’avvenire attraverso una testimonianza di vita vissuta con slancio, impegno e senso di responsabilità. Adolescenti confusi sulla strada da intraprendere in quanto orfani di modelli genitoriali che li possano sostenere nella ricerca di un significato e di una identità. Giovani desiderosi di trovare il loro spazio nel mondo, nel quale essere pienamente se stessi e non copie conformi all’unico modello presunto vincente. Ragazzi che chiedono di essere ascoltati da genitori troppo distratti dai molteplici impegni e sempre poco propensi a conceder loro fiducia.

I figli non sono marziani iperconnessi ma semplicemente persone nuove, diverse dai genitori, e desiderose di inseguire sogni e ideali per costruire la loro storia proiettata in un futuro che non appartiene agli adulti.


Anche dalla scuola i giovani non traggono aiuto, in quanto solo sporadicamente trasmette curiosità, passione, stimoli e di rado suggerisce loro il senso del vivere. È un sistema educativo fondato su nozionismo e valutazioni in risposta alle specifiche richieste di genitori poco attenti alle tematiche adolescenziali, genitori che dalla scuola si aspettano solo nozioni e voti ritenendo superfluo lo sviluppo di altre competenze, quelle che renderebbero i ragazzi maggiormente capaci di comunicare, relazionarsi, trovare lo spazio e il tempo per porre e porsi domande significative in vista di comprendere se stessi e accogliere gli altri.

La difficoltà a gestire l’attesa

Nei paragrafi precedenti si è affrontato il problema di come gli adolescenti abbiano difficoltà a gestire l’attesa di un corpo e di una personalità in trasformazione. Nell’odierna società del qui e ora, del tutto e subito, dell’elogio alla scorciatoia si è smarrito anche l’aspetto educativo dell’attesa, di quel lasso di tempo durante il quale nella mente prende forma l’obiettivo da perseguire e l’energia che va profusa per raggiungere tale traguardo.


Un giovane al quale i genitori, durante l’infanzia, abbiano soddisfatto qualsiasi desiderio, incontrerà difficoltà nel farsi carico dell’incertezza e dell’impegno che una sfida comporta nonché del peso di sperimentare il dolore per un’eventuale sconfitta. Un adolescente cresciuto nella convinzione, trasmessa dai genitori, di essere prezioso e con indizi di straordinarietà, ricercherà tale riconoscimento anche al di fuori della famiglia; se non lo trova avrà problemi di autostima difficili da gestire, soprattutto nell’ambito di una società che non accetta la mediocrità e il fallimento.


È compito dei genitori permettere al figlio di maturare in modo lento e naturale, senza forzare le tappe del suo sviluppo. Il rischio infatti è di condannare l’adolescente, precoce nella sfera mentale/cognitiva ma immaturo in quella emotiva, a un’autonomia apparente. Oggigiorno è fondamentale fargli comprendere come il suo valore non si fondi sull’aspetto esteriore o sui successi, siano essi scolastici o sportivi, bensì sull’individuo nuovo che si appresta, con impegno e fatica, a diventare nella sua unicità. Una persona che, attraverso la difficile arte dell’essere se stessi, cerchi di realizzare i propri autentici desideri e non quei desideri-spot che gli strateghi del marketing tendono a imporre a tutti indistintamente. Un uomo che continuerà per tutta la vita a ricercare il proprio senso, attraverso sogni e aspirazioni, per vivere dentro il presente progettando il futuro.


In questo periodo di metamorfosi e di attesa l’adolescente procede per tentativi ed errori, imparando anche dall’esperienza di non-onnipotenza, che rappresenta una limitazione positiva nell’ambito del suo processo di trasformazione. Appare evidente che precisi limiti e regole gli debbano provenire dalla famiglia la quale, proprio all’opposto, favorisce l’illusione del “tutto è possibile adesso” per non contrariarlo o rattristarlo; di conseguenza coltiva l’impazienza e l’insaziabilità di un figlio che non sa più attendere i regali a Natale o quando compie gli anni, ma li esige subito: come Alice nel Paese delle Meraviglie pretende di festeggiare ogni giorno il suo non-compleanno. Una generazione cresciuta in modalità on demand dove basta chiedere per avere subito a disposizione qualsiasi cosa: dai cartoni animati allo smartphone, dal vestito griffato alla minicar.


In Inghilterra si definiscono “genitori-spazzaneve” quei padri e quelle madri che “ripuliscono” la strada al figlio, spinti dall’ansia di farlo primeggiare in ambito scolastico, sportivo, sociale e di evitargli quegli insuccessi che potrebbero scalfire un’autostima resa fragile proprio dall’assenza di esperienze frustranti e fallimentari.

La crisi delle istituzioni: scuola e famiglia

Si è esaminato come i giovani, alla ricerca della loro unicità, abbiano bisogno del sostegno della famiglia e della scuola, che dovrebbero indicar loro anche limiti e regole. Sempre più spesso, però, si assiste a genitori che delegano ai docenti non solo l’istruzione dei figli ma anche la loro educazione. È all’ordine del giorno la raccolta delle lamentele di insegnanti nell’impossibilità di svolgere le lezioni, in quanto la maggior parte dei ragazzi è ingestibile e non ha rispetto dell’autorità che, in ambito scolastico, il professore dovrebbe incarnare. Molto sovente è lo stesso genitore a non avere considerazione per il corpo docenti, rompendo in tal modo il patto educativo con la scuola posto alla base del corretto sviluppo di un giovane. Le recenti cronache raccontano di denunce per abuso dei mezzi di correzione, e di richieste di risarcimento danni per migliaia di euro, avviate dai famigliari di alunni ripresi dagli insegnanti per episodi di bullismo o per non aver svolto i compiti loro assegnati. Risulta chiaro come, in simili circostanze, i giovani siano confusi e vengano privati delle più basilari norme di educazione civica: in presenza di genitori che contestano insegnanti e voti, e assumono sempre posizioni difensive nei confronti dei propri figli, la scuola non potrà che continuare a perdere autorevolezza; e questo andrà a discapito del percorso formativo degli adolescenti.


In modo simmetrico, molti insegnanti appaiono sfiduciati e portano avanti stancamente un programma ministeriale logoro e depauperato di qualsiasi elemento di stimolo. Professori dimissionari che non sanno più accendere la passione e la curiosità verso la propria materia, il gusto dell’approfondimento e del confronto, l’amore per la cultura che rende un giovane assetato di quella conoscenza che dovrebbe traghettarlo verso la maturità. La scuola non ha raccolto la sfida di orientare i giovani allo sviluppo della capacità introspettiva e della competenza sociale. Fornendo solo nozioni senza indicare un metodo di ricerca, che aprirebbe le porte a un giudizio critico, l’istituzione scolastica ha abdicato al suo ruolo precipuo: coltivare esseri umani completi, pronti al dialogo e al confronto con l’altro, capaci di sentirsi come i musicisti dell’orchestra-classe in grado di sviluppare l’arte del contrappunto per creare armonia. La scuola, specchiandosi in una società caratterizzata da individualismo e competizione, richiede ai giovani l’alta prestazione rappresentata dal voto ma trascura le peculiarità del singolo studente: scarsa, infatti, risulta l’attenzione alle problematiche adolescenziali, sempre più critiche e amplificate nell’era digitale.

Anche la famiglia è in affanno e sembra non riuscire più a contrastare efficacemente la forte pressione mediatica che difatti tende a travolgerla. In questi ultimi anni si è assistito a un azzeramento del divario generazionale fra genitori e figli, il che ha reso i primi amici e complici dei secondi in una pericolosa confusione di ruoli. Da una parte vi sono gli adulti che, rincorrendo l’eterna giovinezza e l’esasperato consumismo, rifuggono qualsiasi forma di responsabilità genitoriale e non pongono alcun limite né a se stessi né ai propri figli. Dall’altra si collocano gli adolescenti alla disperata ricerca di regole da contestare o infrangere, ma in presenza delle quali sentirsi rassicurati e protetti.


L’unica protezione che i genitori procurano al figlio è rappresentata dal telefono cellulare, che permette loro di monitorare i suoi spostamenti senza prestare troppa attenzione ai suoi compagni di avventura. Apparecchi che spengono il dialogo in quanto sempre accesi e attraverso i quali i giovani possono entrare, in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento della giornata, in contatto con le insidie che la realtà virtuale riserva a sprovveduti navigatori.

Anche il significato della parola “amore verso un figlio” sembra aver subìto una profonda trasformazione: amarlo, ormai, significa assecondare ogni sua richiesta e desiderio, purché non si senta in difetto verso i coetanei e non soffra per un rifiuto. È con un regalo che si cerca di esaudirlo senza indugio, mettendo a tacere l’eventuale senso di colpa che attanaglia i genitori per i pochi momenti che gli dedicano. Ciò avviene nel tentativo di convincersi che, prima nell’infanzia e dopo nell’adolescenza, conta la qualità e non la quantità del tempo dedicato a un figlio, mentre è solo quest’ultima che permette di condividere esperienze, raggiungendo l’obiettivo del vivere insieme intensamente anche situazioni difficili. Si rincorre l’illusione che sia più importante offrirgli abiti griffati e gadget elettronici di ultima generazione anziché tempo e disponibilità ad ascoltarlo o a percepire il disagio che lo sta affliggendo. Ma in tal modo si sta drammaticamente contribuendo a commercializzare anche la vita intima, crescendo giovani consumatori al posto di individui.


I beni materiali sono diventati un surrogato dell’amore e questo gli strateghi del marketing lo hanno compreso da molto tempo sostenendo l’“adultizzazione” di bambini che ormai orientano i consumi dell’intera famiglia e piegando gli adolescenti alle regole del carattere mimetico del desiderio, secondo cui si sceglie un prodotto pensando all’immagine che, attraverso quell’oggetto, si vuole trasmettere agli altri di se stessi. Anche la moda gioca con l’identità degli adulti e, specularmente, con quella dei ragazzi: indossando un vestito si diventa qualcuno senza doversi impegnare per essere realmente quell’individuo.

I genitori devono tornare al più presto a rappresentare un fattore di protezione per gli odierni adolescenti abbandonati in autogestione, devono sottrarli all’influenza negativa dei media e impegnarsi a trasmetter loro il principio che sancisce come la maggior parte dei beni necessari per essere felici non siano in vendita. Il calore di una famiglia unita, la solidarietà di un’amicizia sincera, l’orgoglio per aver svolto un lavoro con impegno e dedizione, l’appagamento per essersi presi cura in maniera disinteressata di chi era in difficoltà costituiscono straordinari strumenti di soddisfazione che non sottostanno alle leggi di mercato. Queste ultime, al contrario, sono improntate sul concetto di gratificazione istantanea, sull’idea di vita usa-e-getta nella quale la gioia è subordinata al consumo e non alla relazione. L’identità si misura oramai con gli oggetti che si possiedono e i genitori rinunciano a esortare i propri figli affinché vadano contro corrente e cantino con voci fuori dal coro per non diventare quello che gli altri impongono loro di essere. Gli adulti non si preoccupano di indicare ai giovani quali strumenti sarebbero indispensabili per diventare davvero autonomi, per non piegarsi al consumismo passivo che li vorrebbe tutti omologati nei desideri e nelle aspettative, bulimici di sensazioni forti e di appagamenti immediati.


È proprio in questa frenesia del fare e dell’avere, a discapito dell’essere, che affonda le sue radici la crisi morale dell’individuo; crisi che si riverbera nell’assenza di rispetto per se stessi e per gli altri, figli compresi, e nella conseguente mancanza di dignità che preclude ai genitori la possibilità di proporsi come guide degne di fiducia, punti di riferimento solidi e affidabili per l’adolescente che si aggira confuso per casa. Troppi adulti ritengono che la strada dell’accudimento e della protezione dei propri figli non passi attraverso le regole e i limiti, bensì attraverso la soddisfazione immediata di ogni loro bisogno economico e sociale, l’ipervalorizzazione e l’incentivazione della frenesia del fare. Si stimolano i ragazzi a fare esperienze, esortandoli a partire per vacanze-studio all’estero e scegliendo per loro mete sempre più lontane, con l’obiettivo di convincersi di avere figli già perfettamente autonomi. Non ci si preoccupa, invece, delle esperienze interiori che gli adolescenti dovrebbero maturare per progredire e rendersi realmente autonomi, capaci di reggere all’urto dell’aspettativa di perfezione delusa, o dell’invisibilità sociale che oggigiorno viene identificata con la mancata realizzazione personale.


Fagocitati da una società altamente performante, gli adulti si sono dimenticati che la competizione non seleziona i migliori ma, semplicemente, premia i meno sensibili inducendo le persone timide e introverse a dichiarare fallimento. Un numero sempre maggiore di giovani inoltre, se non sperimenta il sentimento delle frustrazioni a livello materiale, soffre però di un immenso vuoto emotivo, creatosi all’interno di una casa dove non si respira più il senso di appartenenza e di compartecipazione. Una casa dove i genitori tengono costantemente il piede premuto sull’acceleratore e si preoccupano se il figlio, anziché uscire e socializzare, si ritaglia dei momenti per perder tempo, per fantasticare, per oziare, provando in tal modo a familiarizzare con le nuove emozioni che stanno affiorando in lui e che chiedono a gran voce di essere decodificate e riordinate.

Adolescenza
Adolescenza
Ilaria Caprioglio
Genitori e figli in trasformazione.Come affrontare la fase critica dell’adolescenza dei figli, assumendo il ruolo di guida, educando i giovani a un genuino desiderio di crescita. L’adolescenza è un periodo di metamorfosi, fisica e psicologica, vissuta dai nostri figli sotto l’influenza (sovente negativa) del mondo digitale.I ragazzi, lasciati soli in “autogestione”, tendono a orientarsi sulla linea dei coetanei, subendo la pressione della società odierna, improntata al narcisismo, al consumismo e alla competizione.Nel libro Adolescenza di Ilaria Caprioglio i genitori scoprono come tornare ad assumere, con coerenza e responsabilità, il ruolo di guida per educare i giovani a un genuino desiderio di crescita. Conosci l’autore Ilaria Caprioglio, avvocato e scrittrice, è sposata e madre di tre figli. Sostiene iniziative sociali rivolte ai giovani e promuove, nelle scuole italiane, progetti di sensibilizzazione sugli effetti della pressione mediatica e sulle insidie del web.È vice-presidente dell’associazione Mi nutro di vita e ideatrice della Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla contro i disturbi del comportamento alimentare.