Capitolo 5

Crescere: il lutto evolutivo

Per qualche istante il Bruco e Alice si guardarono in silenzio. Infine il bruco si tolse di bocca la pipa e,
con voce languida e assonnata, chiese: “E tu chi sei?”.
Questa non era certamente la maniera
più incoraggiante per iniziare una conversazione.
Alice rispose con voce timida: “Io… io non lo so,
per il momento, signore…
al massimo potrei dire chi ero stamattina
quando mi sono alzata,
ma da allora ci sono stati parecchi cambiamenti. 

Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie

Dalla nascita in poi, passando per l’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta, la senilità (e oltre) il nostro corpo giorno dopo giorno impercettibilmente cambia, cambiano i nostri pensieri, capacità e competenze, in quel gioco costante di trasformazione e reinvenzione di sé che è crescere


Il grandissimo autore e illustratore britannico Quentin Blake, in Zagazoo63, dà una sua versione ironica ma “vera” delle metamorfosi che caratterizzano le fasi di crescita di ogni individuo dalla nascita all’età adulta, giocando su quanto siano complessi da gestire, per ogni genitore, i repentini cambi di “forma” dei propri figli. George e Bella sono una splendida coppia felice alla quale un bel giorno viene consegnato uno strano pacco. «Dentro c’era una creaturina rosa, la più graziosa che si possa immaginare. Aveva addosso un cartellino che diceva: “Si chiama Zagazoo”». I due si innamorano immediatamente della graziosa creatura, ma ben presto si accorgono che Zagazoo è tutt’altro che perfetto. (Fig. 11


Non esiste genitore che non sappia leggere nelle metamorfosi di Zagazoo quelle già viste nei propri figli, come non esiste figlio che non sappia riconoscerle in se stesso: ogni bambino ben presto si rivela essere un avvoltoio urlante; poi un elefante che travolge e distrugge ogni cosa al proprio passaggio; poi un facocero coperto di fango e un irascibile draghetto sputafuoco, in un continuo andirivieni tra una forma e l’altra, attraverso i tipici momenti di passaggio tra l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta.

Il tempo di una vita è fatto di ritmi naturali e biologici, di cadenze convenzionali scandite da orologi e calendari, e di ritmi soggettivi dettati dalla nostra percezione di ciò che nel tempo accade. L’albo illustrato Io aspetto64, scritto da Davide Calì e illustrato da Serge Bloch, racconta meravigliosamente questo processo in continuo divenire, fatto di attese ed eventi inattesi, che è l’esperienza umana di vivere. Nella prima tavola un bambino tira con forza la cima di un filo rosso, dichiarando: «Io aspetto… di crescere». È un sentire tipico dell’infanzia quello di voler “tirare il tempo”, nell’attesa impaziente del bacio della buonanotte, del dolce che è in forno, del Natale. 

La sequenza narrativa biografica prosegue poi nella direzione di nuove e differenti attese: «Io aspetto… l’amore… di entrare al cinema… di rivederla”. (Fig. 12)

Ancora e di nuovo la vita si mette in attesa di eventi anche inaspettati e stravolgenti, come la nascita di un figlio, ma anche la guerra, l’incontro con la malattia e con la morte. Il filo rosso intanto continua a condurre e a tenere uniti i vari e diversi momenti di trasformazione, attesa, rinascita e speranza di questa vita narrata. L’oggi e il domani, il prima e il dopo, la gioia e il dolore, la vita e la morte: è il farsi e disfarsi tipico dell’esistenza, che viene qui metaforicamente rappresentato attraverso il filo rosso di un gomitolo che si dipana, si attorciglia e si snoda attraverso i punti cuciti addosso alla vita di ciascuno di noi. Crescere, vivere, significa tenere saldo questo filo tra le mani. 


I bambini colgono facilmente nella crescita tutta quella parte eccitante ed entusiasmante che effettivamente tale esperienza rappresenta: nel domani vi è tutta la forza generativa e trainante del futuro, come anche la sensazione frustrante che questo futuro non arrivi mai, che la crescita sia un processo talmente lento da risultare irraggiungibile. La statunitense Ruth Krauss e l’inglese Helen Oxenbury, con sensibilità e dolcezza disarmanti, in Una storia che cresce65 raccontano di un piccolo in trepidante attesa, che domanda continuamente alla propria mamma: «Anche io sto crescendo?». (Fig. 13


Per prendere le misure sulle proprie conquiste di sviluppo il bambino pone se stesso in paragone con l’ambiente circostante: da abile osservatore del mondo coglie come la natura muti e si trasformi in modi e tempi diversi rispetto ai suoi («I pulcini sono cresciuti fino al mio ginocchio. Il cucciolo è cresciuto fino alla mia pancia. Io invece non sono cresciuto»), considerazione dalla quale insorge il sentimento di curiosità e impazienza rispetto alla propria crescita fisica («Sei proprio sicura che sto crescendo?», le chiede. «Certo che stai crescendo», risponde la mamma). Le autrici hanno dato spazio alla sola trepidazione dell’attesa, senza alcun richiamo a quelle che possono essere le ansie e le angosce coesistenti in questa stessa dinamica. Nell’albo illustrato Io ci sarò66, di Ann Stott e Matt Phelan, assistiamo invece al dialogo tra un figlio (più grande d’età rispetto al protagonista precedente) e la propria mamma. Inizialmente la mamma rievoca alcune attività in cui lei ha dovuto aiutarlo quando era più piccolo: «Ti mettevo dei vestitini a righe e ti davo da mangiare il passato di piselli. Ti facevo il bagnetto nel lavello della cucina e ti coprivo con la tua copertina preferita per tenerti al caldo». Il figlio replica, riconoscendo con soddisfazione le abilità che ha sviluppato nel tempo («So allacciarmi le scarpe e so scegliermi i vestiti. Adesso faccio la doccia e a volte vado a dormire dopo di te!»). Ma proprio a seguito della consapevolezza di star crescendo, e di essere pertanto sempre più autonomo, si innesca una plausibile preoccupazione: «Ti prenderai ancora cura di me quando sarò grande?». (Fig. 14


La risposta della mamma è al contempo onesta e rassicurante: «Ormai sai allacciarti le scarpe e leggere le storie della buonanotte. Ma io sono la tua mamma e questo non cambierà mai. Anche quando sarai grande, io ci sarò». La vita è metamorfosi e incertezza, certo, ma i bambini hanno bisogno di essere rassicurati sull’unica certezza che possiamo assicurare, e che in effetti a loro interessa ricevere: l’imperturbabilità dell’amore.

Allontanarsi da casa, primi passi nel mondo 


Dal momento in cui viene al mondo la vita di un essere umano è costellata da continui cambiamenti che veicolano necessariamente relativi distacchi e separazioni. La comunicazione quotidiana a tal proposito parla chiaro: abbandonare il grembo materno, abbandonare il pannolino, abbandonare il ciuccio. E poi lasciar andare la manina per imparare a camminare, staccarsi dai genitori per andare al nido o alla scuola dell’infanzia, perdere i dentini da latte, e così via. Alba Marcoli ha descritto così questo processo ineludibile e universale: 


Il crescere implica sempre un continuo confronto con il lutto: il lutto evolutivo. È la legge fondamentale della vita. Bisogna perdere qualcosa perché qualcos’altro possa succedere. Ogni passaggio di crescita è caratterizzato da una conquista, ma insieme anche da una perdita.67

TUTTO PASSA
il lutto quotidiano

Il lutto è uno stato psicologico, altamente emozionale, conseguente alla perdita. Siamo abituati a pensarlo in connessione alla perdita di una persona amata ma, in realtà, la vita e il lutto sono compagni di viaggio inseparabili. 


Tutto ciò che esiste è impermanente, perciò, ogni giorno, che ne siamo consci o meno, facciamo esperienza della perdita e viviamo, più o meno intensamente, la catena di emozioni legate ad essa. Che sia per un “oggetto” esterno (persona, essere vivente, cosa, situazione) o interno (ovvero che ha a che vedere con la propria immagine di sé), per tutti gli elementi e per tutti gli eventi significativi prima o poi ci sarà un lutto da attraversare: il fiore che ci ha appagati con la sua bellezza e il suo profumo appassisce; la musica che ci ha commossi fino alle lacrime lascia spazio al silenzio e non potremo mai più riprovare quella emozione; l’abito che ci ha fatti sentire a nostro agio e bellissimi diventa troppo piccolo o fuori moda; la funzione sociale che abbiamo svolto per tanto tempo viene da noi dismessa e spesso assunta da un’altra persona… 


Ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo moriamo a noi stessi e rinasciamo a noi stessi in un processo di continua trasformazione. Ogni piccolo accadimento, ogni nostra scelta, ogni nostra azione imprimono in noi una trasformazione irreversibile. Anche per questo, in tutte le tradizioni, i saggi ci invitano a cogliere l’attimo, a essere totalmente consci nel momento presente perché solo nel qui e ora accade la vita: il passato non esiste più, non è modificabile né riproducibile e dobbiamo lasciarlo andare, e il futuro non è ancora, è inafferrabile e non agibile e viene continuamente creato e ricreato dall’azione presente.

Eppure, nonostante l’evidenza che l’unica realtà è l’impermanenza delle cose, ci aggrappiamo al vano tentativo di trattenerle e renderle permanenti (persino quelle che non ci piacciono!), come se bloccare le cose nell’illusione della permanenza (pensarle permanenti, relazionarci ad esse come se fossero permanenti), ci rassicurasse. Di cosa abbiamo paura? Della mancanza? Della nostra stessa impermanenza? Di non potere e poterci definire stabilmente e di conseguenza di non avere un’identità o il controllo? Della fatica di dover guardare tutto sempre come se fosse nuovo? Della responsabilità che questa consapevolezza implica? 


Rimanere aggrappati all’illusione della permanenza trasforma di fatto il progetto di vita in un progetto di conservazione: non agiamo per vivere (la situazione, la cosa, la relazione, la nostra stessa vita), ma solo per conservare. Quindi, non viviamo. Compriamo divani dai tessuti stupendi che copriamo con tristi teli per non rovinarli, bicchieri di cristallo che non usiamo per paura di romperli, abiti eleganti che attendono invano nell’armadio l’occasione importante per essere indossati; ci occupiamo di non perdere la relazione invece di viverla, di non perdere la nostra integrità fisica invece di abitare un corpo vivo, di trattenere la giovinezza invece di cogliere le opportunità che la maturità e la vecchiaia ci invitano ad esplorare, di identificarci sempre e per sempre in colui o colei che fa una certa cosa (il medico, l’insegnante, la mamma…), anziché svolgere la funzione che il momento presente ci richiede in base alle nostre attuali capacità e competenze. Per risparmiarci il lutto conseguente alla perdita, al distacco, alla separazione, rimaniamo persino in situazioni impossibili che ci procurano sofferenza. Perdiamo la vita nel tentativo di conservarla. 


Se vogliamo essere completamente vivi dobbiamo imparare a includere e gestire il lutto. Sappiamo già in partenza che la cosa finirà, in un modo o nell’altro; possiamo imparare ad elaborare la fine all’inizio e renderci liberi di vivere pienamente ogni cosa.

È necessario abbandonare le sicurezze raggiunte nella fase evolutiva precedente per potersi arricchire di qualcosa di nuovo. Ed è proprio la forza propulsiva della conquista che permette al bambino, all’essere umano, di procedere verso nuovi e progressivi step evolutivi. Cosa spinge il bambino a imparare a camminare? Cos’è che gli dà il coraggio di staccarsi da un appiglio sicuro per fare i primi, destabilizzanti passi in completa autonomia? È la meta: il desiderio di andare verso la mano tesa della mamma o del papà a breve distanza, o comunque verso qualsiasi cosa per lui valga la pena. Émile Jadoul, nel libro cartonato Le mani di papà68, disegna con pochi tratti rappresentativi proprio questo momento di passaggio fondamentale nella vita di ogni bambino (e di ogni genitore): il tre-due-uno-via! grazie al quale i piccoli imparano ad andare con le loro gambe e i genitori imparano a lasciarli andare, verso la progressiva capacità di camminare da soli nel mondo. (Fig. 15)

Il bambino è biologicamente strutturato per andare verso ciò che è nuovo e allettante. Non teme il fatto di dover lasciar andare qualcosa per procedere, perché d’istinto è pieno di desiderio, curiosità e fiducia. Tutte espressioni del sé che con il tempo, anche attraverso le relazioni con le ansie e le paure adulte, si vanno perdendo. 


Noi adulti viviamo proiettati in una direzione contraria rispetto a quella del bambino, perché tendiamo a «camminare nella vita voltati indietro verso un’età che non c’è più»69. Ancora Alba Marcoli cita una mamma che, vivendo il passaggio del proprio figlio dalla scuola materna alla primaria, si esprime così: «Non sono più una mamma da scuola materna adesso che il mio bambino più piccolo va alle elementari!»: 


Contenta delle conquiste del bambino che iniziava un’esperienza importante e imparava cose nuove, ma allo stesso tempo malinconica per un’epoca precedente della vita che si chiudeva e restava definitivamente alle spalle, come tutte le esperienze irreversibili del vivere. E questa irreversibilità, che in sostanza è la caratteristica fondamentale della morte, ciò che contrassegna anche il lutto evolutivo, l’infinita serie di morti e rinascite, di conquiste di perdite che il vivere comporta e che l’esperienza di diventare genitore fa toccare con mano ogni giorno, via via che i figli crescono.70

I bambini inconsciamente tendono ad apprendere e introiettare questa fatica psicologica adulta che coinvolge il loro distaccarsi e andare avanti, dimostrando a loro volta atteggiamenti di incertezza rispetto al loro stesso “permesso di crescere”. Ecco perché è davvero fondamentale sviluppare e trasmettere ai nostri figli “l’arte dell’elaborazione delle perdite”71, donando a loro – e a noi stessi – il diritto di vivere appieno ogni conquista che volga verso un futuro di felice e consapevole autonomia. 


Crescita significa necessariamente lasciar andare la dipendenza e diventare responsabili dei propri bisogni nel mondo. Questa consapevolezza segna per i genitori un passaggio di vita che è necessario mettere a fuoco ed elaborare nel modo più sano possibile, per concedere ai figli il loro imprescindibile diritto di crescere. Amare è permettere la trasformazione. In questa dinamica si tratta di trovare un equilibrio tra protezione e autonomia, in modo da non cadere nei due eccessi opposti: 


[...] quello di iperproteggere un bambino quando ha invece bisogno di sperimentare, oppure di lasciarlo solo davanti alle difficoltà in cui ha invece bisogno di essere accompagnato da un adulto. Ma, obiettano giustamente i genitori, non è facile capire quando serve un atteggiamento oppure un altro, ed è vero. Un aiuto importante può venire forse dall’ascoltare attentamente i bambini per capire quello di cui hanno bisogno loro, e per ricavare uno spazio di comunicazione che faccia da ponte.72

Questo spazio di comunicazione può essere dato proprio dalla letteratura. Nell’albo Un po’ più lontano73, della scrittrice e illustratrice parigina Anaïs Vaugelade, viene rappresentato il graduale, naturale e avventuroso allontanamento del coniglietto protagonista da casa e dalla propria mamma, simboli di protezione e sicurezza. Ogni fase di questo processo viene segnata da un passo che il piccolo compie sempre un po’ più in là rispetto ai limiti imposti dalla mamma. Basta osservare le espressioni del suo viso per riconoscere come queste transizioni vengano vissute dal protagonista tanto con desiderio, quanto con un pizzico di timore e senso di colpa (la rappresentazione iconica di quel “permesso di crescere” di cui parlava Alba Marcoli). (Fig. 16


Mamma coniglietto è, ancora una volta, un personaggio onesto, nelle cui espressioni emotive noi adulti potremo leggere e ritrovare la nostra stessa vulnerabilità, la fatica e il coraggio, ovvero le emozioni più strettamente correlate al nostro ruolo di “allenatori” consapevoli di indipendenza e autonomia. 


Lasciare andare un figlio che cresce è impresa epica per molti genitori. La tentazione di trattenerli un altro po’, ancora un momento, è ben rappresentata da Cristiana Valentini nell’albo Chissadove74, illustrato da Philip Giordano. «In mezzo alla collina c’era un albero ricco di piccoli semi che crescevano silenziosi e impazienti di diventare alberi per poter un giorno parlare». Con l’arrivo della primavera il vento disperde i semi, che iniziano il loro viaggio nel mondo, alla volta di chissadove. L’albero si accorge di un piccolo seme che resta attaccato alla sua chioma e, se dapprincipio cerca di incoraggiarlo ad andare e di mostrargli la via, ben presto riconosce che tutto sommato un po’ di compagnia non gli dispiacerebbe. (Fig. 17


Ecco che il gesto del prendersi cura, anziché guidare verso l’indipendenza, si trasforma nel tentativo vano di proteggere trattenendo. Si tratta di una misera illusione, però, perché il mondo è fatto di imprevisti anche per un piccolo semino, come l’arrivo di una gazza, che lo rapisce e lo fa cadere… chissadove. Nella stagione successiva l’albero, che ha il cuore da tenero ciliegio e la memoria corta, di nuovo e ancora saluta i nuovi semini dispersi dal vento, ma in lontananza vede un giovane arbusto che riconosce immediatamente: eccolo, il suo piccolo seme impaurito, diventato ora una giovane pianta «con un tronco diritto, slanciato, color cenere, con una piccola chioma fitta fitta e un cuore di tenero ciliegio». 


Educare i figli è un viaggio impervio, che richiede di imparare a camminare sul filo sottile della paura e del coraggio, della protezione e della fiducia, del controllo e della libertà, senza mai perdere di vista l’obiettivo più importante: la padronanza di sé nelle incertezze della vita.

Ci vediamo più tardi. Sì ma… più tardi quando? 


Per quanto possa essere vissuta come un’esperienza carica di sofferenza, il distacco dai genitori è un passaggio fondamentale affinché il bambino acquisisca la capacità di stare da solo nel percorso di crescita, diventando via via sempre più autonomo e disponibile a stare con gli altri. 


Alcuni libri cartonati e albi illustrati illustrano proprio la complessa varietà di emozioni che alcuni piccoli vivono nel momento dell’ingresso a scuola o, comunque, nel momento del saluto con i genitori. In Papà Gambalunga75, di Nadine Brun-Cosme e Aurélie Guillerey, il piccolo Matteo, congedando il padre all’ingresso della scuola materna, esprime un attimo di incertezza: «E se stasera la vecchia auto non parte, come farai a venire a prendermi?». Il papà si sintonizza sulle emozioni del figlio e risponde in modo coerente con le sue capacità cognitive, mettendo in scena una serie di alternative creative e rocambolesche per rassicurarlo: in caso di emergenza chiederà aiuto all’orso Martino, al vicino di casa, agli uccelli del giardino, ai coniglietti che scavano tunnel sottoterra, persino al drago verde che abita nella caldaia, pur di arrivare in tempo. Simile è la strategia sulla quale gioca Ti aspetto qui76, di Elisa Mazzoli e Michela Gastaldi, nel quale è il bambino che resta a casa, mentre la mamma esce per recarsi al lavoro. (Fig. 18


Per i bambini piccoli la percezione del tempo è una conquista complessa e dire: “La mamma torna tra sei ore” per loro non ha alcun significato. Le storie possono andare a “riempire” questa durata altrimenti priva di cognizione e concretezza, attraverso contenuti immaginifici, fantastici, “comprensibili”. Ecco che dunque la mamma instaura un gioco con il piccolo e gli racconta che, quando rimonterà in auto per tornare a casa, forse, nel bel mezzo della strada, incontrerà una mucca inamovibile che lei dovrà spingere via per poter passare. (Fig. 19)

Tra elefanteschi laghi di latte, grosse cacche che lo scarabeo deve arrotolare, uova di serpente poggiate sulle nuvole, giraffe sbadate e pompieri solerti, la mamma costruisce una narrazione fantastica e avventurosa, capace di guidare i pensieri e le emozioni del bambino dall’ansia e dal rifiuto alla complicità del gioco. «Poi riparti, mamma?», chiede il bambino, non si sa se per essere ulteriormente rassicurato, o se perché ha capito perfettamente il meccanismo e vuole stare al gioco ancora un po’. 


Questo è il linguaggio che i bambini possono e amano parlare, come vediamo anche nell’albo La mamma ha fatto tardi77, di Izumi e Chiaki Okada, «Un albo che racconta l’attesa attraverso l’immaginazione potente dei bambini, capaci di riempire il tempo sospeso con le meraviglie della fantasia».78 Al termine della giornata scolastica la piccola Kana rimane sola con le maestre perché la mamma è in ritardo. La bambina cerca consolazione instaurando un dialogo con l’orsacchiotto di pezza della scuola: 

«Kana, tu non piangi, vero? domanda Orsetto. – Sì. Non piango. Quando ero nella sezione degli Scoiattoli, la mamma ha fatto tardi perché si è rotto il treno. – Forse il treno si è rotto di nuovo. dice Orsetto». È dunque un’esperienza che lei ha già vissuto in precedenza, e pertanto può permettersi il lusso di giocarci su, costruendoci attorno un immaginario carico di ironia e fiducia: gli animali aiuteranno certamente la mamma a spingere il treno, ma poi lei si soffermerà in pasticceria indecisa su quale dolce comprare, per scegliere infine una torta gigantesca che la costringerà a camminare molto lentamente per non farla cadere. Quando, dopo un tempo indefinito, finalmente la mamma arriva, le due si abbracciano e tornano a casa mano nella mano, mentre le parole della mamma sembrano creare un ponte tra le fantasie della piccola e la realtà: «Kana, tornando compriamo una torta?».

Le storie possono indirettamente suggerire anche piccoli rituali, da inserire nella routine del congedo: il bambino imparerà a riconoscere e anticipare una serie di azioni abitudinarie che lo preparano al distacco, e lo rassicurano. Un esempio su tutti: nel famosissimo Zeb e la scorta dei baci79, di Michel Gray, la piccola zebra protagonista è alle prese con la sua prima permanenza fuori casa senza mamma e papà. I genitori, previdenti, preparano e gli consegnano la scatola dei baci-caramella, ovvero un contenitore di bigliettini sui quali imprimono i loro baci, uno di qua e uno di là, affinché Zeb possa appoggiarseli sulla guancia al bisogno. È l’idea di un oggetto transizionale che può facilmente uscire dalle pagine del libro per essere concretamente realizzato, andando a creare un ponte tra la letteratura e la realtà, tanto quanto tra i genitori a casa e il piccolo a scuola. (Fig. 20


C’è un altro tipo di distacco che i bambini possono trovarsi a vivere, ovvero quello implicato nella separazione coniugale, che può essere altrettanto “colmato” grazie al potere dell’immaginazione. Nell’albo di Adrien Albert, Papà sulla luna80, i genitori della piccola Maia vivono in due luoghi distanti e molto diversi tra loro: la mamma in una bella casetta sulla Terra e il papà in una stazione spaziale sulla Luna. «Andare sulla Luna richiede un po’ di organizzazione», e «Il momento della partenza è sempre quello più emozionante». Ma Maia è ormai abituata a trasferirsi tra una dimora e l’altra in autonomia, per mezzo di un’astronave che a velocità supersonica attraversa l’atmosfera e atterra dritta dritta sulla superficie lunare, dove il papà l’aspetta a braccia aperte. (Fig. 21)

L’inserimento scolastico 


Che si tratti di nido, infanzia o primaria, ogni passaggio scolastico rappresenta il momento di rottura con una continuità precedente cui è necessario adattarsi. Ciò che è familiare viene percepito dal cervello umano come sicuro e amico, mentre ciò che è nuovo ed estraneo equivale a qualcosa di potenzialmente pericoloso: si può dunque comprendere l’inquietudine provata da molti bambini in queste fasi di passaggio. L’inserimento scolastico è pertanto un’esperienza che, insieme alla curiosità e all’eccitazione, può al contempo scatenare nei bambini qualche ritrosia, finanche un vero e proprio rifiuto. 


Alcune narrazioni entrano nell’ambito di questa sfera emotiva, esplicitando e accogliendo quelle risposte nelle quali il lettore potrà riconoscere le proprie, andando così a leggere una parte di sé. Anche in questo caso, le storie non vanno intese come strumenti per risolvere eventuali emozioni controverse associate alla criticità del momento. Un buon racconto per l’infanzia non dirà mai con serietà che andare a scuola è bellissimo e i bravi bambini ci vanno senza fare capricci e senza piangere quando salutano mamma e papà. Dirà piuttosto: facilmente scoprirai che andare a scuola è bellissimo, ma non ti preoccupare se ora ti senti un po’ spaesato. È normale! È nella perfezione di ciò che stai sentendo ora, qualsiasi emozione sia, che la letteratura diventa un luogo in cui sia finalmente possibile accomodarsi in una dimensione dove ogni emozione è lecita: l’individuo – di qualsiasi età – che abbia l’opportunità di leggere se stesso in una storia saprà, anzitutto, di non essere solo. Inoltre si creeranno facilmente le condizioni verso una nuova consapevolezza del proprio mondo interiore, punto di partenza per la successiva nominalizzazione ed espressione di sé.


Nel contesto specifico dell’inserimento scolastico può avere senso proporre ai bambini storie che parlino proprio di questo momento perché l’attivazione dell’interesse è facilmente data da ciò che i bambini stanno vivendo e, in un contesto classe, anche condividendo. Cosa raccontano le storie a questo proposito?

Immaginare il nuovo ambiente 


L’ingresso al nido o alla scuola dell’infanzia segna il distacco dall’ambiente familiare e il confronto con luoghi, persone e situazioni nuove ed estranee. Alcune narrazioni disegnano e descrivono gli ambienti, le figure e le attività tipiche dei vari contesti scolastici, andando a costruire un’esperienza immaginata di quella che sarà verosimilmente la realtà effettiva, “preparando” preventivamente i bambini al nuovo ambiente, ovvero rendendo atteso l’inatteso. 


Nel caso di bambini molto piccoli le narrazioni propongono uno svolgimento più mimetico, ossia aderente alla realtà, per facilitare il processo di identificazione con i personaggi delle storie. È il caso, ed esempio, di A più tardi81, libro cartonato di Jeanne Ashbé, nel quale si leggono le sequenze tipiche di una giornata passata al nido o alla scuola dell’infanzia: il saluto a suon di baci con mamma o papà, i giochi insieme agli amichetti (non senza qualche bisticcio), le routine della pappa, della nanna, di cacca e pipì, e poi la gioia del ritrovo con i genitori a fine giornata. Nel cartonato di Eva Montanari, Cosa dice piccolo coccodrillo?82, vengono resi per onomatopee i rumori e i suoni tipici di una giornata al nido o alla scuola dell’infanzia: dalle routine del risveglio (La sveglia fa drin drin), al tragitto per arrivare (L’automobile fa brum brum), al fatidico momento del distacco dalla mamma (Cosa dice piccolo coccodrillo? Uèèèèèè, Uèèèèèè), e poi le fasi successive, fino al momento in cui la porta farà di nuovo toc toc, la mamma farà cucù! e ci si ritroverà in un mare di smack smack smack. Per ricominciare tutto daccapo l’indomani. 


Si “entra” nella scuola anche attraverso Evviva la scuola materna!83, di Marianne Dubuc, albo illustrato di grande formato imparentato con i libri brulicanti di Susanne Rotrout Berner. Le vicende dei personaggi rappresentati – topolini, orsi, bradipi, tartarughe e altri, ognuno nella rispettiva realtà scolastica –, sono filtrate attraverso lo sguardo di Billo, uno gnomo ancora troppo piccolo per andare a scuola, che dunque vive l’esplorazione delle scuole altrui scevro da qualsiasi coinvolgimento emotivo che non sia il semplice gusto di sbirciare e conoscere: nella scuola dei conigli c’è un orto sul tetto che fa sbucare le carote direttamente nella cucina sottostante; in quella dei bradipi si dorme quasi tutto il giorno arrampicati sugli alberi, e così via. In un libro come questo ci si diverte a osservare, cercare, giocare a riconoscere i diversi momenti, materiali, luoghi tipici delle routine scolastiche, viste e raccontate attraverso gli occhi di tantissimi piccoli, simpatici amici animali, attraverso i quali immaginare se stessi. (Fig. 22)

Importantissima anche in questo contesto, insieme alla volontà di accogliere le emozioni dei bambini qualsiasi esse siano, è la capacità dell’adulto di prospettare il cambiamento come qualcosa di bello e costruttivo. Molte sono le narrazioni che desiderano trasmettere l’inserimento nel mondo scolastico come un’esperienza avventurosa ed entusiasmante, grazie alla quale ogni bambino avrà l’occasione di sperimentare, giocare, conoscere, crescere insieme agli amici e agli insegnanti, senza la mamma e il papà. Ben rappresenta questo clima allegro e spensierato l’albo illustrato La scuola dei piccoli Marsù84, in cui l’autore e illustratore francese Benjamin Chaud ci porta nella giungla a conoscere i Marsupilami, una famiglia di animaletti alquanto singolari dalle lunghissime code prensili che si attorcigliano dappertutto, con buffi nasoni prominenti, e vitalità da vendere. Per quanto bizzarri, però, la loro routine per andare a scuola si svolge proprio come quella di chiunque altro: la sveglia suona troppo presto e troppo forte, una doccia fresca lava via i residui di sonnolenza, si fa colazione in gran velocità – possibilmente senza sporcare dappertutto –, e poi ci si scapicolla nella giungla del traffico, tentando di arrivare puntuali. (Fig. 23)

Una volta tornati a casa i Piccoli Marsù, stravolti ma felici, raccontano con soddisfazione ai genitori le loro conquiste, in un momento di dolcissima intimità familiare espresso ancor più eloquentemente nell’immagine delle loro code intrecciate l’una con l’altra nel sonno. Le loro peripezie trasformano una semplice giornata scolastica in un’avventura esilarante, ma soprattutto “accogliente”: indirettamente si rassicura i piccoli lettori sul fatto che ciascuno ha i propri talenti e capacità, e che a scuola, ognuno con i suoi tempi e modi, avrà sempre l’occasione di imparare bellissime cose nuove. 


Un altro titolo perfetto per raccontare l’esperienza scolastica concentrando l’attenzione sugli aspetti più giocosi e avventurosi è Andiamo a scuola insieme85, scritto e illustrato dall’autrice tedesca Daniela Kulot. Durante il tragitto verso scuola, i tre amici protagonisti trovano e raccolgono da terra alcuni oggetti comuni, che però grazie alla loro fervida immaginazione si trasformano in qualcosa di sorprendente: una pietra grigia diventa un elefante a cavalcioni del quale attraversare la giungla, una molletta si trasforma in un coccodrillo e un pezzetto di corda in un pericoloso serpente, un fazzoletto in realtà è un uccello che li farà sorvolare la città. Tra una fantasia e l’altra arrivano a scuola in ritardo e, dopo essere stati accolti dalla maestra in un abbraccio, i tre avranno l’occasione di condividere con gli altri compagni di classe le loro avventure immaginate, e immaginarne altre ancora tutti insieme. 


Questi libri raccontano l’avventura di andare a scuola mettendo in luce l’aspetto giocoso, esplorativo, coinvolgente di quella che certamente è un’esperienza individuale e soggettiva, ma al contempo comunitaria e di condivisione tra il bambino con i suoi pari, con gli insegnanti e con la famiglia.

Tra eccitazione e paura: accogliere le emozioni 


Il passaggio dalla scuola dell’infanzia alla primaria è un momento particolarmente delicato. I bambini sono eccitati all’idea di andare in una scuola “per grandi”, ma possono essere anche preoccupati per una realtà nuova, sconosciuta e completamente diversa rispetto a quella precedente: cambiano gli ambienti, i materiali, gli orari, le regole, gli insegnanti, i compagni e i compiti, con le relative richieste di prestazione, prendono il posto del gioco. È lecito che possa svilupparsi un iniziale momento di rifiuto di questa nuova esperienza. 


Alcune narrazioni riescono a raccontare in modo fantasioso e delicato la sensazioni e gli stati d’animo condivisi da molti bambini in queste fasi di passaggio. È ciò che accade, ad esempio, in Un grande giorno per la scuola86, di Adam Rex e Christian Robinson. La voce narrante è l’edificio scolastico stesso che, appena inaugurato, non sa cosa aspettarsi dall’arrivo all’indomani di bambini e insegnanti sconosciuti. I suoi pensieri, emozioni e reazioni sono perfettamente in linea con quelli umani (il timore delle novità, la paura del giudizio altrui, la tentazione di proteggersi attaccando e il lieve senso di colpa che ne deriva), ma vissuti e raccontati dalla voce di un fabbricato di mattoni creano le condizioni ideali per ricevere ed elaborare il racconto con leggerezza e distacco. 


Nell’albo illustrato Anselmo va a scuola87, di Giovanna Zoboli e Simona Mulazzani, il bambino protagonista si trova a dover rassicurare Anselmo, il proprio coniglietto di pezza, evidentemente preoccupato per la nuova esperienza che lo aspetta di lì a poco. Attraverso l’espediente di un viaggio surreale a bordo di un’automobile volante sopra i tetti della città, i due partono in un’esplorazione notturna della scuola, dove potranno osservare e incontrare alcuni dei personaggi che la popolano: le lettere dell’alfabeto, sedute sui banchi, sperano di non dover incontrare nuovamente quei bambini che dimenticano sempre di inserirle nelle parole al posto giusto; alcuni libri confabulano tra loro delle ditate sporche di cioccolato o delle pagine strappate che gli tocca subire dai più maldestri; i computer si lamentano dei tasti che i bambini gli fanno saltare in continuazione. (Fig. 24)

Gli oggetti della scuola e Anselmo sembrano avere una cosa in comune: la fragilità. Il coniglietto se ne accorge, capisce perché si sente capito, e interviene per consolare un computer che dei bambini ha un po’ timore: «Senti, non ti devi preoccupare,» gli dice Anselmo. «È vero, i bambini sono vivaci. Ma sono anche molto gentili. Pensa a me: c’è qualcosa di più delicato di un coniglio? E guarda: neanche una scucitura!». Le emozioni narrate interessano tanto i personaggi dentro la storia quanto il lettore fuori: 


Anselmo scopre che la paura è uno stato d’animo. Dipende da pensieri che si nutrono di cose che non si conoscono. Pensieri che si possono curare con l’esperienza: quella, per esempio, di un coniglio che è, sì, molto delicato, ma che, tuttavia, non ha neanche una scucitura. La fragilità cambia di segno: diventa riflessione su di sé, pensiero e, quindi, forza. La cura proposta da Anselmo funziona, per sé e per gli altri.88

Un salto nel vuoto 


Una ragionevole prudenza, insieme all’esortazione a esplorare il nuovo e a vivere la vita come un’avventura: sono questi gli atteggiamenti ideali per favorire nei bambini un atteggiamento sano verso l’ignoto. La paura di “spiccare il volo”, o di “fare il balzo” sono metafore di ogni rito di passaggio che conduca verso il proprio step evolutivo successivo. Nel libro Prova a dire abracadabra89, di Maria Loretta Giraldo e Nicoletta Bertelle, Piccolo Gufo non riesce a staccarsi dal proprio ramo. Tartaruga se ne accorge e cerca di incoraggiarlo: «No e no! Non ce la farò mai!», reagisce l’uccellino. (Fig. 25


Tartaruga allora gli svela un metodo infallibile: «Prova a dire ABRACADABRA!». Ma questo in sé non basta certo a far volare il gufino. Infatti, la reale strategia che, prima la tartaruga e poi gli altri amici animali, suggeriscono a Piccolo Gufo è quella di provare, riprovare e riprovare ancora – «È perché non l’hai detta giusta» risponde Tartaruga. «Devi dire A-B-R-A-C-A-D-AB- R-A! Dai, riprova» –. E, a forza di dai, funzionerà. Il termine Abracadabra (letteralmente, dall’aramaico, Creo quel che dico) è la traduzione letteraria e fantastica del potere realmente magico di chi realizza ciò che desidera, immagina e dice attraverso l’esercizio, la perseveranza e la fiducia in sé e negli altri. Quando Piccolo Gufo, durante il volo, vede un ranocchio in difficoltà nello spiccare il suo primo balzo, sentirà naturalmente l’istinto a “passare il favore” di ciò che è stato insegnato a lui, in un circuito ininterrotto e propulsivo di condivisione, gentilezza e amore. 


Anche Davide Calì e Adalgisa Masella, nell’albo illustrato Salta!90, ci portano sui rami di un albero, per assistere alle conquiste di un giovane scoiattolo volante che teme il suo primo volo («–Saltare nel vuoto? – disse – Non ci riuscirò mai! – Sì, che ci riuscirai. – lo incoraggiò l’istruttore – Ci sono riusciti gli altri prima di te e sono sicuro che ci riuscirai anche tu»). (Fig. 26


Di nuovo torna, come in Piccolo Gufo, la “formula magica” che tantissimi bambini – e adulti – pronunciano davanti a una nuova sfida: «Non ce la farò mai», che nel passaggio di testimone tra i pensieri, le parole e le azioni, effettivamente si autorealizza. Il modo in cui parliamo a noi stessi è un abracadabra quotidiano a tutti gli effetti. Ma la maggior parte delle paure che ci creiamo si rivelano inesistenti giusto oltre la soglia del nostro cervello. Lo scoiattolo teme di mancare il ramo, ma teme anche di finire nella bocca di una tigre o di un coccodrillo, proiezioni “vere” solo a livello mentale, ma prive di fondamento nella realtà. Piccoli e grandi lettori si ritroveranno facilmente nelle ritrosie e insicurezze dello scoiattolo e, indirettamente, riceveranno suggestioni sulla fiducia e il coraggio necessari ad affrontare le incognite del futuro.

Nell’albo scritto e illustrato dall’irlandese Chris Haughton, Non aver paura, piccolo granchio91, un granchietto viene accompagnato da una figura adulta nel suo primo ingresso dentro al grande mare. Il piccolo è al contempo eccitato e riluttante, attratto e spaventato da quelle onde sempre più alte – WHOOSH! – attraverso le quali è necessario passare per andare oltre, avanti, dentro alle meraviglie delle profondità marine. Una volta affrontato con pazienza, passo passo, questo rito di passaggio, il granchietto ha ora acquisito sufficiente fiducia in sé per proseguire la sua esplorazione del nuovo mondo, pronto ora ad «andare dappertutto». 


Vivere una vita felice significa accettare il rischio che crescere comporta. “Spiccare il volo”, “fare un balzo in avanti”, “affrontare il mare”. Sono tutte metafore capaci di rendere in immagini il timore e il coraggio coinvolti nell’andare avanti nonostante l’incertezza. Un uccellino che si rifiuti di imparare a volare, un pesce che non voglia nuotare, una rana che preferisca non saltare rappresentano personaggi che, fintanto che non rischiano, sono destinati a non (soprav)vivere. Esattamente come accadrebbe a un bambino – a un individuo, in generale – a cui non sia concesso il diritto di affrontare dei rischi, per imparare a superarsi e a superare i “salti nel vuoto” della vita. 


Il percorso che abbiamo fatto finora nel mondo delle storie e dei bambini ha il solo e unico scopo di ricondurre al riconoscimento e alla legittimazione del mondo emotivo infantile. In queste storie, libere dalla pretesa di condizionare l’infanzia, si riconosce ai bambini il diritto di provare emozioni, qualsiasi esse siano. Si racconta con onestà che l’ignoto e l’inatteso sono esperienze sfidanti ineludibili se si desidera vivere una vita appagante; si suggerisce l’idea che essere spaventati, arrabbiati o tristi è cosa normale, condivisa, umana e anzi: non esiste coraggio senza paura, non esiste espansione del sé senza conflitto; si passa anche il concetto che non sia sempre necessario essere sicuri di avere successo per fare, ma che semplicemente “fare” è il primo passo per uscire dalla paura, soprattutto quella di fallire; il lieto fine, poi, necessario in ogni storia che si rivolga all’infanzia, guida le emozioni verso due sensazioni di vitale importanza per stare al mondo: la fiducia e la speranza verso se stessi, gli altri, il mondo.

Leggere l’inatteso
Leggere l’inatteso
Irene Greco
Cambiamento, distacco, morte e lutto narrati negli albi illustrati. Un’accurata selezione di albi illustrati per affrontare temi come il distacco, la morte e il lutto grazie al potere della finzione narrativa e dell’immaginazione. Con interventi di counseling per instaurare una comunicazione efficace e rassicurante.