capitolo 7

Leggere la vita, leggere la morte

Nella vita l’unica cosa certa è la morte, cioè l’unica cosa di cui non si può sapere nulla con certezza. 


Søren Kierkegaard

Chi siamo? Perché siamo qui? Da dove veniamo? Dove andremo? Cosa c’è prima della vita e dopo la morte? Sono le domande della filosofia, proprie di un desiderio umano di trovare risposte a una domanda più grande: cosa c’è oltre ciò che non vediamo? È davvero tutto qui

La letteratura in generale, e gli albi illustrati nello specifico, sono un luogo perfetto e straordinario dal quale esplorare anche oltre ciò che è esplicito ed evidente, in cui familiarizzare con l’ignoto, l’altrove e l’aldilà, attraverso le più disparate vie. Divertiamoci ad esplorarne alcune.

Leggere oltre la pagina 


La pagina bianca 


La pagina bianca è lo spazio dell’immaginazione, è ogni storia in potenza. Nucleo generativo di ogni possibilità nel quale convivono il niente e il tutto, è un luogo carico di attesa e aspettativa verso ciò che sarà. 


Il libro Dove sono tutti?103, dell’artista e autore americano Remy Charlip, inizia con una pagina completamente bianca su cui sono stampate soltanto quattro parole: «Ecco un cielo vuoto ». Il segno scritto ferma e sigilla il contesto nel quale andranno a muoversi i successivi elementi: il bianco ha preso vita e sta diventando una storia. Uno alla volta, pagina per pagina, entrano in scena i personaggi e le figure che animano il racconto: «Un uccello vola su nel cielo», «Il sole brilla nel cielo», «Ecco le colline proprio sotto il cielo» e così via, andando a creare per addizione il mondo della storia in cui le figure agiscono. A un tratto qualcosa accade e il registro cambia: «Una nuvola nera passa nel cielo» e la pagina da bianca diventa grigia. Da questo momento in poi l’autore agisce per sottrazione, andando a nascondere pagina per pagina gli elementi che, come sono entrati, uno alla volta escono di scena. L’ultima è una tavola senza testo, nella quale compare solo un cielo plumbeo con una fitta pioggia che cade. La domanda del titolo, ora, punta il fascio di luce in una dimensione entro la quale non è così banale trovare certezze: dove sono tutti? Che fine hanno fatto l’uccello, il sole, l’uomo, il cervo, il bambino e tutti i personaggi della storia? Hanno smesso di esistere? Esistono solo quando il libro si apre nuovamente e il lettore li riattiva? Continuano a vivere nella mente di chi liha “importati” nel cervello e nella memoria? C’è un altrove daimmaginare?

Imprevedibilità e anomalia 


A partire da ciò che accade – o non accade – sul foglio bianco, la letteratura è anzitutto allenamento all’imprevedibilità: ogni volta che voltiamo la pagina di un libro ci rendiamo disponibili ad accettare che possa “succedere di tutto” . 


In un altro capolavoro di Remy Charlip, Fortunatamente104, che arriva a noi in tutto il suo splendore dal lontano 1964, si legge un’avventura spassosa e incalzante narrata secondo un ritmo binario: «Fortunatamente un giorno Ned ricevette una lettera che diceva: “Sei invitato a una festa a sorpresa.”». «Ma sfortunatamente la festa era in Florida e lui era a New York». A partire da questo incipit, Ned si ritroverà catapultato in un’alternanza netta di fortune e sfortune: un amico gli presta un aereo, che però nella pagina dopo esplode; fortunatamente nell’aereo trova un paracadute, che però è bucato; Ned cade fortunatamente su un covone, all’interno del quale è però nascosto un forcone, e così via fino al sollievo del “fortunato” finale: l’arrivo alla festa per Ned. Come scritto nella quarta di copertina dall’editore: «Lieve e delicato, ci ricorda che nella vita non sempre è primavera. Ma anche l’inverno non dura in eterno». L’avvicendamento di episodi antitetici inverosimili e paradossali, resi anche graficamente con l’alternarsi di pagine a colori per gli episodi “fortunati”, e pagine in bianco e nero per quelli “sfortunati”, è un gioco divertentissimo per i bambini, che nelle avventure di Ned potranno riconoscere anche i propri saliscendi, l’altalena di momenti belli e brutti che ognuno di noi conosce fin da piccolissimo. È vero che alcuni degli episodi vissuti da Ned sono dettati dal caso, ma in altri momenti a salvare la situazione è ciò che lui sa fare (al momento opportuno è capace di nuotare, scappare, scavare), ossia le scelte opportune e le abilità che lui mette in campo per non subire passivamente le circostanze, e riuscire a governarle. 


Charlip trasforma un gioco narrativo che rischia di diventare meccanico in un inno alla capacità di riuscire nelle situazioni più pericolose, al non perdersi d’animo, a sapersela cavare grazie alle proprie abilità, vere armi contro l’imprevedibilità del reale. Un reale che per il bambino lettore non sarà così periglioso ma presenta comunque continui ostacoli da superare: il relativismo e la contingenza di ogni situazione perdono il loro valore di ribaltamento unico per farsi regola di vita, educazione a vivere ogni istante come avventura potenziale.105

Rientra nell’esercizio all’imprevedibilità anche il meccanismo narrativo dell’anomalia, che 


[...] consiste nel presentare qualcosa che fa a pugni con la realtà. È un meccanismo potente perché va a sollecitare la curiosità. [...] Costruire una storia intorno all’anomalia è un modo per entrare a patti con l’evento eccezionale e inspiegabile. Quando nella vita ci succede di incontrare qualcosa di straordinario, qualcosa che prescinde dalla norma, allora noi cerchiamo un modo per renderlo comprensibile: costruiamo una storia. La narrazione ha il grande potere di rendere significativo e di assegnare un senso all’insolito e allo straordinario. Lo fa con i mezzi che ha a disposizione: una struttura regolata da norme e da ritmi, una voce narrante, l’uso delle figure retoriche. Rendere in termini comprensibili la deviazione dalla norma è quanto riescono a fare i racconti, fornendo appunto una logica, un senso. Riescono a tenere insieme pezzi di mondo che di solito fanno a pugni.106 


Le storie ci dicono che ogni prossimo minuto, ogni domani, arriveranno inesorabilmente con il loro carico di cambiamenti, imprevisti, novità, eventi a volte eccezionali (nel bene e nel male). La domanda è: siamo pronti a leggerli?

L’irreversibilità È un’esperienza sfidante data dalla letteratura anche l’accettare che il testo scritto nero su bianco sia definitivo, irreversibile, eterno. Scrive Umberto Eco: 


La funzione dei racconti “immodificabili” è proprio questa: contro ogni nostro desiderio di cambiare il destino, ci fanno toccar con mano l’impossibilità di cambiarlo. E così facendo, qualsiasi vicenda raccontino, raccontano anche la nostra, e per questo li leggiamo e li amiamo. Della loro severa lezione “repressiva” abbiamo bisogno. La narrativa ipertestuale ci può educare alla libertà e alla creatività. È bene, ma non è tutto. I racconti “già fatti” ci insegnano anche a morire.107

La casa editrice Minibombo, tra le sue cifre stilistiche, presenta anche la capacità di giocare con grande intelligenza e senso dell’ironia sull’irreversibilità delle storie. Nell’albo Gabbiano più gabbiano meno108, un gabbiano particolarmente petulante palesa tutta la sua insofferenza verso i propri simili e decide di trasferirsi su un isolotto vicino per continuare a lamentarsi di loro liberamente in perfetta solitudine. Ma il promontorio sopra il quale si adagia si rivela essere in realtà la testa di un coccodrillo, che per tutta risposta spalanca le fauci e lo divora in un sol boccone. (Fig. 29


I suoi simili scappano via, il coccodrillo si compiace con l’amico ippopotamo per la riconquistata pace in mezzo al mare. E il gabbiano molesto? Lui fa una brutta fine. Non si torna indietro. 


In altri titoli ancora del catalogo Minibombo, i colpi di scena finali congedano il lettore con una forma di perplessità agrodolce, ma senza mai perdere la giocosità e l’ironia: ne Il castoro, l’uovo e la gallina109 alcuni animali cercano in tutti i modi di salvare l’amica gallina dalle fauci di un piccolo alligatore, ahimè senza riuscirci. In Orso, buco!110 Orso, Rospo, Volpe e Formica vanno in cerca della tana di Orso, e dopo averla trovata grazie all’intervento di Elefante proprio quest’ultimo è escluso dai festeggiamenti perché la sua mole non gli consente di passare dal buco d’ingresso della tana. Che disdetta! In Gelato!111 un bambino dispiega tutto il suo più variegato e persuasivo ventaglio di capricci per farsi comprare il gelato dal papà, ma non ottiene il suo risultato e torna a casa con le pive nel sacco, mentre i bambini alle sue spalle, che al contrario l’hanno spuntata, si gustano il loro cono lanciandogli “sadici” sguardi vittoriosi. Qual è la grandiosa possibilità che deriva da tali esperienze – ironiche, giocose – di irreversibilità? In primis la ricerca di alternative: in Orso, buco!, ad esempio, i bambini si divertono assai a proporre strategie per permettere anche all’amico elefante di far parte dei festeggiamenti – allargare il buco di accesso alla tana? Trasferire la festa all’esterno? –. In Gelato!, invece, l’esperienza è quella di una sana e sostenibile frustrazione e rassegnazione: stavolta, semplicemente, è andata “male”. Amen. 


Insomma, può non piacere che le cose vadano diversamente da come avremmo voluto, ma a volte la letteratura è così, esattamente così com’è anche la vita.

Oltre i limiti della materia 


Cosa ci dice il libro in quanto oggetto fisico? Un libro è a tutti gli effetti una “cosa”, fatta di angoli, una copertina, una rilegatura, fogli di carta: tutti limiti tangibili oltre i quali il libro finisce. Oppure no? Cosa succede quando si decide di sfidare deliberatamente la concretezza del libro, indagandone la meta-corporeità? Nella sua celebre Trilogia del limite, l’autrice Suzy Lee apre una profonda riflessione a proposito di ciò che rappresenta l’oggetto- libro nella sua fisicità. Nei suoi tre silent book, – Mirror, L’onda e Ombra112–, l’autrice coreana conduce i lettori attraverso – letteralmente! – il libro, per giocare con ciò che accade dentro la rilegatura centrale; facendosi ispirare dalle diverse possibilità di orientamento e apertura delle pagine: verticale, orizzontale o a calendario; rendendo tridimensionale la bidimensionalità del foglio – come con lo specchio di Mirror –; creando una forma di suspense generativa nell’incontro con una pagina totalmente bianca o totalmente nera, che alludono a qualcosa che sparisce e non si sa che fine abbia fatto, e chissà se tornerà. 


Il confine che Mirror, L’onda e Ombra hanno in comune è la piega fisica centrale della rilegatura e, allo stesso tempo, il limite tra fantasia e realtà. Per i bambini, attraversarlo è un gioco divertente. Per gli adulti invece, che preferiscono le cose complicate, c’è di più a cui pensare. Il mondo in cui viviamo è così chiaro e trasparente? Come possiamo essere sicuri di cosa sia realtà e cosa illusione?113 


Nelle opere di Suzy Lee, come in tutte quelle di autori che hanno scelto di rendere meno netto il confine tra concreto e astratto, tra immanenza e trascendenza, il lettore – bambino e non – ha l’opportunità di stare comodamente nel limbo tra certezza e incertezza, e dunque di giocare con l’ambiguità e il mistero insiti nella realtà stessa.

La prova dell’invisibile 


Quello tra realtà e fantasia, tra sogno e veglia, vita e morte è un confine decisamente sfocato. Giovanna Zoboli, autrice e co-fondatrice insieme a Paolo Canton della casa editrice Topipittori, in molte sue opere mette a disposizione del lettore la possibilità di giocare con l’indefinitezza di tale frontiera. Nel 2012 l’editore mette in stampa un plico di cartoline intitolato 20 buone ragioni per regalare un libro a un bambino, offrendo alcune suggestioni sui possibili perché di una scelta come questa. Eccone alcune: 


Perché se legge un libro, poi può leggere una nuvola, un gatto, un albero, una persona.
Perché cos’altro regalare a chi capisce e vede tutto?
Perché i libri si regalano solo a quelli in cui si ha fiducia.
Perché in una pagina non c’è tutto quello che c’è tra la terra e il cielo, ma abbastanza da non perdere la speranza.
Perché un libro è la prova dell’invisibile.114 


Sono proposte indicative di una visione “alta”, fiduciosa e valorizzante dell’infanzia e dei libri. Il catalogo Topipittori propone un ricco ventaglio di albi illustrati in linea con queste suggestioni, tra cui Dovunque tu sia, caro coccodrillo115, nel quale la bambina protagonista incontra un coccodrillo che sta allegramente centrifugando nella lavatrice di casa e che, di contro, la mamma non vede per nulla. (Fig. 30)

Per entrare in contatto con lui la bambina sceglie la via più plausibile e sensata: la telepatia. «ciao, ripeté francesca col pensiero, ciao coccodrillo, io mi chiamo francesca e sono contenta di fare la tua conoscenza, spero che tu stia bene, io sto bene, stasera dopo cena guarderò i cartoni animati, potremmo guardarli insieme». Il coccodrillo percepisce questo richiamo, come se qualcuno gli stesse parlando da molto lontano, e cortesemente declina l’invito: lo stanno aspettando dall’altra parte della città ed è già molto in ritardo. Come farà a uscire dalla lavatrice? Scenderà nel tubo dello scarico? Sarà pericoloso? La piccola Francesca cerca rassicurazione mantenendo un contatto con lui, ma come fare? È una sorta di illuminazione quella che le permette di ricordare qual è l’unica via possibile per comunicare con i coccodrilli (allargando il concetto, con chiunque non sia percettivamente raggiungibile): attraverso il pensiero. Un po’ come le storie che (non) finiscono dentro alla rilegatura del libro, anche il coccodrillo va in un altrove incomprensibile. È anche questo un modo per entrare in contatto con ciò che sta aldilà? 


Il saper comunicare senza parole è anche il meccanismo alla base dell’empatia: la parte più consistente e autentica della comunicazione umana, infatti, è non verbale. Il nostro corpo è mosso e plasmato dal sistema emozionale e manifesta sempre inequivocabilmente un “sentire in riferimento a”; il sistema percettivo- motorio, a sua volta, è in grado di cogliere e decodificare questi manifestati e di comprenderne il significato. La vulnerabilità – diversamente dall’accezione negativa con la quale si è soliti considerarla – è la capacità di lasciarsi toccare da ciò che incontriamo e lasciarci muovere dalle emozioni che questo incontro genera in noi. La sensibilità, a sua volta, è la capacità di cogliere il movimento reso possibile dalla vulnerabilità, di aprirsi a questo movimento, di lasciarsi toccare e comprenderlo. Dal gioco tra vulnerabilità e sensibilità nasce l’empatia, ovvero la capacità di sintonizzarsi sui segnali inconsci altrui. Nel meraviglioso Nina e Teo116, di Antonio Ventura e Alejandra Estrada, si esplorano dimensioni simili. Stesa sul divano di casa la piccola Nina legge un libro insieme al suo gatto, instaurando con lui un dialogo a cavallo tra le parole (umane) e il sentire (animale). Una comunicazione fatta di contatto, sguardi, intonazioni, proiezioni, che pongono l’intendimento all’interno di una dimensione inafferrabile e perfetta. È pura percezione. Quando il gatto corre a nascondersi tra i cuscini del divano, la bambina per un attimo immagina che sia scappato dentro al libro, e addirittura lo vede e lo sente miagolare fra le pagine. Spaventata domanda: «Ma che ci fai lì dentro?». (Fig. 31)

Proprio in quell’istante il gatto ricompare da sotto – o dentro? – il libro, trascinando con sé, fuori dalla storia, un’incognita misteriosa. Come fanno i due a comunicare e a capirsi? E dov’era finito il gatto una volta sparito tra i cuscini, dentro il libro, ovunque sia stato in quei pochi istanti? 


Summa di tutto quanto visto finora può essere rappresentata dal geniale albo scritto da Mac Barnett e illustrato da Jon Klassen, Sam e Dave scavano una buca117. L’ambientazione iniziale mostra una casa in legno, sul cui tetto una banderuola segnavento a forma di gallo punta verso destra, e sul cui balcone è poggiato un vaso con dentro un tulipano arancione. Nel giardino, solo un gatto con indosso un collare ugualmente arancione e, un po’ più in là, un albero di mele. Proprio lì accanto Sam e Dave, insieme al loro cane, iniziano a scavare una buca, con la ferrea missione di trovare qualcosa di spettacolare. I due continuano a scavare per pagine e pagine mancando sistematicamente per un pelo alcuni diamanti giganteschi situati sotto terra che, al contrario, noi “fuori dal libro”, vediamo benissimo. Solo il cane pare rendersi conto della situazione – imbarazzante per i due protagonisti, ed esilarante per i lettori – e continua a scavare alla volta di un piccolo osso che vede – come non si sa – qualche metro di terra sotto le sue zampe. 


A forza di sterrare, quel che accade è che il cane “buca” il limite inferiore fisico della pagina, per ricomparire a testa in giù dal bordo superiore della pagina successiva. A questo punto i tre iniziano a cadere – fuori dal libro o ancora più dentro? –, sempre più giù, fino ad atterrare esattamente nello stesso giardino da cui sono partiti. Ma è davvero lo stesso identico luogo? Un osservatore attento potrà accorgersi – a differenza di Sam e Dave – che il gallo segnavento è diventato un’anatra che punta verso sinistra, sull’albero al posto delle mele spuntano tre pere, e il tulipano arancione è ora un fiore azzurro, come azzurro è il collare del gatto. Cos’è successo? Dove siamo stati condotti in questo viaggio al limitare del libro e del comprensibile? Il punto al quale abbiamo fatto ritorno è simile ma non uguale a quello di partenza, come Sam e Dave non potrebbero essere gli stessi di quando sono partiti, e il lettore non potrà essere esattamente identico a prima di aver letto questa, come qualsiasi altra storia. Tutto cambia in continuazione, nei libri come nella realtà. 


La pagina bianca sulla quale può accadere di tutto, l’imprevedibile, l’anomalia; il libro che non finisce dentro i bordi tangibili del suo corpo fisico ma “parla” e conduce anche oltre i suoi stessi confini; le storie dei personaggi e le ambientazioni della narrazione, che agiscono le loro metamorfosi anche prima dell’incipit e oltre l’explicit narrativi; l’irreversibilità del segno scritto e il dispiegarsi di strategie mentali per far fronte a ciò che così è; l’attitudine a stare anche nel dubbio, nell’incerto e nell’ignoto. Cosa significa indagare con i bambini queste dimensioni? Quale suggestione gli si può offrire attraverso la fantasia e l’immaginazione? La letteratura è un territorio sicuro entro il quale capire tutto, solo qualcosa, oppure niente. Questo gioco di ricerca e sperimentazione dell’oltre-pagina è a tutti gli effetti il viaggio in una dimensione a cavallo tra realtà e finzione, tra ordinario e straordinario, tra certezza e incertezza, tra conoscenza e dubbio, tra corporeo ed etereo, che può facilmente rivelarsi come una metafora della vita stessa. 


I libri non finiscono dove i nostri sensi percepiscono. E la realtà? E noi?

Una bella domanda 


«Mamma, papà, che cos’è la morte?». Questa sì che è una bella domanda! È proprio una bella domanda, in effetti, perché rispondere in modo esauriente ed esaustivo risulta essere un’impresa complessa: il termine morte evoca sentimenti di paura, ansia, angoscia, e non è scontato sapersi giostrare abilmente nella comunicazione in questo contesto. Al contempo è una domanda bella, perché chiede di spalancare le porte all’ignoto, esplorando con curiosità nella zona cieca delle nostre più ancestrali paure. Non ultimo, è una domanda meravigliosa che, a dispetto di quanto possa sembrare, chiede di essere profondamente disponibili a vivere. 


La psichiatra svizzera Elisabeth Kübler-Ross, che ha dedicato la sua vita a studiare la morte e a dare sostegno psicologico ai malati terminali e alle loro famiglie, ha portato le sue testimonianze in alcuni libri, La morte è di vitale importanza118 e Impara a vivere, impara a morire119, i cui titoli già da soli suggeriscono eloquentemente quanto vita e morte non siano entità dicotomiche e antagoniste, bensì forme complementari della stessa dimensione. Quanto più saremo capaci di accompagnare i nostri bambini verso una visione sana della morte, tanto più daremo loro accesso a una gioiosa e autentica capacità di vivere.

SORELLA MORTE

laudato si, mi Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullo omo vivente po’ scampare. 


S. Francesco d’Assisi

Ci hanno insegnato ad avere paura della morte, che la morte è il nemico da sconfiggere, che quando qualcuno muore significa che qualcosa è andato storto, che qualcuno ha fallito, che qualcuno è stato sconfitto, che la battaglia è stata persa. Ci hanno insegnato a non arrenderci dinanzi alla morte, a negarle il diritto di esistere e a bandirla dalla nostra coscienza nell’illusione che dimenticandoci di Lei possiamo eliminarla dal nostro campo di esperienza. La paura della morte ci acceca e ci impedisce di guardarla con obiettività, interrogandoci sulla funzione che essa esercita sulla nostra vita e sui doni per la vita (la nostra vita) che essa porta con sé. Ma cosa potremmo scoprire se la guardassimo come sorella? Perché dovremmo lodare Dio (o comunque lo si voglia chiamare) della sua presenza e della sua ineluttabilità? In che modo la morte è essenziale alla vita? Di cosa dovremmo ringraziarla ogni giorno? Perché in tutte le tradizioni spirituali ne viene suggerito e celebrato il ricordo? Perché i saggi non la temono? 


Non pretendiamo di dare risposte, perché nessuna risposta a interrogativi di questa natura può essere data, ma solo scoperta individualmente; perché interrogarsi sulla morte significa interrogarsi sulla vita, e questo è un compito personale; perché interrogarsi sulla morte significa aprirsi al mistero, e di fronte al mistero c’è solo la contemplazione. 


Possiamo però cercare di ridefinire la morte. Come fece Francesco, chiamarla sorella anziché nemica. È come definiamo le cose che determina il nostro sentire riguardo ad esse e le nostre risposte; se legittimamente proviamo paura e ostilità di fronte a un nemico e ci prepariamo a lottare, a una sorella ci rivolgiamo con il cuore aperto pronto ad ascoltare e ricevere la prospettiva che essa ci introduce, le riflessioni che ci porta a fare. Totò la definì una livella, e questo ci illuminò tutti sull’assurdità dell’arroganza e ci restituì l’umiltà nella fratellanza umana. Potremmo definirla un limite, ovvero qualcosa che introducendo una fine nel campo delle infinite possibilità, ci contiene e ci aiuta a operare delle scelte, a stabilire una scala di valori e priorità. Potremmo definirla una soglia, l’interfaccia tra due esperienze esistenziali e giungervi con infinita curiosità. Potremmo definirla un ritorno a casa e questo ci darebbe quella sottile gioia e quel rilassamento che proviamo alla fine di un lungo viaggio. Potremmo definirla la fase di un gioco, il gioco di continua composizione, scomposizione e ricomposizione degli elementi che permette alla vita di esprimere la sua creatività; e allora ci farebbe sorridere immaginare la vita che gioca insieme alla morte, potremmo rimanere incantati dall’infinità di forme che essa trae dagli elementi minimi che la morte le restituisce, e trepidanti nella fase di scomposizione, nell’attesa di scoprire a cosa lascerà spazio la forma che scompare. 


Comunque la definiamo, la morte ci interroga e il suo interrogarci ci educa. La morte pone la buona domanda. È interessante citare qui Il cerchio della vita120, albo scritto da Koos Meinderts e Piet Grobler, e illustrato da Harrie Jekkers che conduce, attraverso l’immaginazione e la fantasia, a riflettere sulla possibile funzione e utilità della finitudine della vita. Protagonista è un re leone terrorizzato da un’unica grande nemica: la Morte. Il sovrano chiama in appello saggi e intellettuali da tutto il regno per ottenere risposte e trovare una soluzione definitiva alla sua ossessione: perché mai bisogna morire? Insieme escogitano un piano: decidono di recarsi al cospetto di un uomo in fin di vita, con l’intento di catturare la Morte, imprigionandola sotto una campana di vetro. 


Compiuta la missione ora, finalmente, si può vivere in eterno. Che liberazione! Oppure no? I festeggiamenti dopo qualche tempo vengono a noia e le persone sentono la necessità, per darsi una ragione di vita, di inventarsi nuovi svaghi, sempre più assurdi e rischiosi («La gente correva rischi sempre maggiori / saltando giù dai dirupi e lottando coi tori. / Per gioco beveva veleno / e cominciava guerre in un baleno»). Il pianeta, perdipiù, inizia a essere insopportabilmente sovraffollato. Che fare? Il re, stanco e annoiato, finalmente comprende: non resta che liberare la Morte e anzi, sarà lui in prima persona a farlo, liberandosi lui stesso. «Lunga vita alla Morte!», acclama il popolo gioioso, ormai consapevole che la vita è preziosa proprio in virtù del suo non essere infinita.

L’incontro con la morte – l’altrui, la propria – è una delle tappe della vita di ogni individuo, la più ineluttabile fra tutte. Questa consapevolezza viaggia al nostro fianco, in modo più o meno amichevole, come qualcosa di inafferrabile e misterioso. 


[...] la scoperta della morte come fatto incontrovertibile della vita è, per tutti i bambini, una tappa da affrontare per un pieno sviluppo di sé. La perdita di un cane o di un gatto, una pianta che avvizzisce, un documentario o un cartone animato in cui muore qualcuno o qualcosa… sono tante le occasioni in cui i più piccoli si devono confrontare con l’esperienza della perdita e che possono accendere nei nostri figli le grandi domande sulla vita.121

Non serve guardare lontano: sono quotidiane, costantemente davanti agli occhi di tutti, le situazioni nelle quali potrebbero insorgere domande sulla vita e sulla morte. “Perché si muore?”, “Dove si va quando si muore?”, “Si muore per sempre?”. Sono interrogativi da bambini, o forse sembrano tali: sono quesiti che l’uomo si è posto fin dai primordi della sua storia, andando a movimentare filosofie, ideologie, religioni, scoperte scientifiche. Sono domande alle quali vale la pena lasciare aperte le porte. Scrive la neuropsichiatra infantile Marta Badoni nel libro Affrontare la malattia e il lutto


Il torto più grande che si può fare a un bambino è quello di chiudersi ai tanti interrogativi che si pone, a modo suo, quando sente, magari per la prima volta, che qualcosa di incomprensibile è entrato nella sua vita. Occorre quindi accompagnare il bambino a vivere l’incontro con la morte. La bugia più frequente che gli adulti si dicono per sfuggire a questo loro compito è: “È troppo piccolo per capire”. In realtà sono spesso gli adulti a essere troppo spaventati per parlare.

È importante avere l’umiltà e la fiducia necessarie per lasciarsi aiutare dai bambini e dalla loro naturale curiosità per il mondo, perché nel mondo esiste anche la morte. Negare a un figlio la possibilità di interrogarsi e di interrogare l’adulto sulla morte non lo proteggerà, ma risuonerà come un divieto all’indagine, divieto che potrà allargarsi ad altri campi del sapere; e non consolerà il bambino, ma gli trasmetterà l’idea di un adulto spaventato, potenzialmente e silenziosamente colpevole, e quindi poco dato a soccorrerlo.122

Indagare le grandi domande sulla realtà e la vita risponde a un bisogno intrinseco della nostra natura: quello di sicurezza. Gli esseri umani sono fin dalla nascita attivi ricercatori di conoscenze, che diano all’individuo la sensazione rassicurante di saper stare al mondo, di averne una qualche forma di padronanza. 


Non è dunque il silenzio, o l’indifferenza rispetto ai temi che più inquietano, a liberarci dall’ansia o dal malessere inconscio che accompagna ogni persona e, ancor più i soggetti in crescita: molto più esorcizzante è il racconto, in grado di dare un nome, di svelare attraverso la fictio narrativa i misteri interiori, di inoltrarsi anche dove il nostro pensiero si ferma per timore dell’ignoto. Per superare la paura, qualsiasi paura, compresa quella della morte, è necessario riflettere su di essa.123

Si può dunque parlare di morte con i bambini? Si deve? E come? Queste nostre pagine non intendono avere una valenza di carattere terapeutico per accompagnare adulti e bambini nelle fasi di elaborazione di un lutto. Il desiderio è invece quello di scatenare l’avvio di una nuova disposizione dell’animo adulto nell’affrontare insieme ai bambini temi e questioni sulle quali di norma ci si sente spaesati, e verso i quali di conseguenza si tende a chiudere i battenti. Da dove nasce il tabù che noi adulti costruiamo intorno a molti di questi stessi aspetti del reale, soprattutto per quanto concerne la morte? 


La morte, atto finale e solenne della vita, è percepibile soprattutto al negativo: qualcuno non è mai più. Essa quindi sottrae l’uomo ai parametri di spazio e di tempo, introduce una cesura rispetto al senso di continuità dell’essere: recide legami lasciando a chi resta l’onere di prendere atto della propria impotenza e dell’umana caducità, di accomiatarsi e continuare a vivere. Un onere gravoso che però consente di non rinunciare anticipatamente a una vita vissuta appieno.124

La morte è un fatto biologico: il cuore cessa di battere, si esauriscono i meccanismi vitali e il corpo si consuma. Il lutto è l’elaborazione emotiva della morte di qualcuno che è nella nostra sfera affettiva. Non è tanto l’aspetto biologico della morte a mettere in difficoltà gli adulti nel dare spiegazioni ai bambini, ma tutto ciò che vi è intorno, ovvero gli aspetti correlati alla sua ineluttabilità e irreversibilità, le emozioni che ne conseguono, il saper scegliere le risposte migliori in una dimensione, quella emotiva e spirituale, nel quale risposte univoche e “vere” non ve ne possono essere. Non è possibile rispondere al mistero. Che ruolo gioca la letteratura nel sondare questo, come tutti gli altri misteri della realtà nei quali quotidianamente siamo immersi?


[...] il racconto, riconosciuto come spazio protetto e arginato che, da un lato garantisce veridicità del sentire interiore (la verità psicologica delle emozioni provate e la realtà dei pensieri ispirati dalla lettura) e, dall’altro, solleva dall’ansia di un incontro reale con la morte in quanto, collocandola sul piano della fictio narrativa, si offre come ambito privilegiato di un incontro sereno con il tema della morte.125

Esistono infinite vie attraverso le quali la letteratura ci “insegna” la morte. Gli albi illustrati nello specifico, per loro stessa natura, rappresentano il mediatore perfetto tra adulti e bambini – e tra l’adulto o il bambino con se stessi – per “fare amicizia” con i temi della finitudine, della vita e della morte. Al contempo, come già accennato, i libri da soli non sono sufficienti e la lettura condivisa non è necessariamente un luogo dove la “magia” avvenga in automatico. 


Il nostro modo di comunicare, le nostre risposte emotive, la compostezza con cui accompagniamo le spiegazioni che forniamo su temi complessi e difficili, la visione del mondo e il senso di sicurezza che sappiamo trasmettere mentre facciamo tutto ciò: è questo il messaggio principale che arriva alla mente del bambino e che, in automatico, si traduce nel codice emotivo con cui il minore interpreterà il senso e la portata degli accadimenti.126

Ci vuole senso di responsabilità e consapevolezza sia da parte degli adulti che leggono insieme ai bambini, sia da parte di chi, al vertice della filiera, decide di realizzare un libro che ai bambini sia rivolto. A questo proposito Giorgia Grilli definisce con chiarezza quale dovrebbe essere l’approccio di chi, scrivendo per bambini, decide di non “disertare” il proprio compito di responsabilità verso l’infanzia: 


Lavorare per l’infanzia, se la si prende sul serio, è qualcosa di quasi impraticabile, di incompatibile con la propria adultità, e viene la tentazione di mollare di tradire il Patto con il Bambino che ogni letteratura per l’infanzia dovrebbe prevedere, ma che solo raramente sa onorare. Si può sempre fare finta di lavorare per l’infanzia, e lo si fa, infatti, ogni volta che si sceglie, come datori di lavoro, non più direttamente i bambini (intesi o come soggetti reali o come interlocutori immaginari con cui fare comunque i conti in senso profondo), ma «clienti più importanti» che si accontentano di illustrazioni «più facili». Questi altri clienti, per un autore/illustratore, sono ovviamente gli editori, i genitori, gli insegnanti e in generale tutti gli adulti che ruotano intorno ai libri per bambini. Realizzare libri per loro, come li vogliono loro, come se li aspettano loro, è molto più facile, perché non richiede, alla base, un esercizio funambolico di azzeramento delle proprie visioni, idee, certezze, sensibilità adulte, come accade, evidentemente, quando si lavora con i bambini in mente. Ma, appunto, ogni altra opzione è diserzione.127

Fatte proprie queste premesse, gli albi illustrati restano il mediatore perfetto affinché la lettura condivisa diventi un luogo intimo, accogliente, rassicurante, divertente, speciale, sia per gli adulti che per i bambini.


Lo stare vicini, la voce dell’adulto che legge vissuta come regalo di tempo e di senso, il rivolgere insieme lo sguardo a una serie di immagini che lasciano “aperta” comunque l’interpretazione, la possibilità di domandare, chiedere, ricominciare, precisare, cambiare, rappresenta di certo una forma assoluta di ospitalità in entrambe le direzioni: l’adulto fa entrare il bambino nella storia, nella sua magia di suoni e immagini, lo accompagna nella scoperta del significato; il bambino accoglie l’adulto nel suo mondo, poiché è alla luce di quello che lui interpreta, comprende, immagina, ricostruisce, che l’incontro si realizza.128

Ciò accade con maggiore probabilità e spontaneità quando la figura adulta di riferimento si rende disponibile a: 

  • intercettare, accogliere e assecondare le curiosità e gli interessi che scaturiscono con naturalezza in ogni essere umano per il semplice fatto di stare nel mondo; 
  • affiancare i bambini nel bisogno intrinseco alla natura umana di spiegazioni e significati anche relativi ai dilemmi rispetto a ciò che non si vede, non si tocca, che è imponderabile, inafferrabile. Tutti aspetti che che diventano più “gestibili” proprio in virtù del poterne parlare; 
  • assecondare e arricchire tali attivazioni anche attraverso il dialogo tra la realtà e la finzione narrativa, sfruttando con curiosità e fiducia le risorse che la letteratura offre a chiunque abbia l’occasione di accedervi; 
  • riconoscere la possibilità e le opportunità, prima ancora di fornire risposte ai bambini, di creare per e con loro un dialogo aperto a tutto e tutti, dove potersi sentire liberi di domandare.
Il nostro obiettivo, da qui in poi, sarà fornire un ventaglio di scelte letterarie nelle quali adulti e bambini, insieme, possano incontrare la vita, la morte, il lutto e l’aldilà, conoscerli e conoscersi, parlarsi, domandare, forse rispondere, forse no.

In dialogo con la morte 


Nel delicatissimo silent book Fiori di città129, di JonArno Lawson e Sydney Smith, seguiamo il tragitto verso casa di una bambina con il suo papà. Mentre lui è impegnato in una lunga conversazione telefonica, lei passa il tempo raccogliendo piccoli fiori sbocciati nel cemento, tra le fughe dei marciapiedi, nelle crepe dei muri. Nella seconda metà del libro, in un gesto di meraviglia e attenzione verso il mondo, la piccola un po’ alla volta dona ad altri i fiori raccolti: al senzatetto appisolato sulla panchina, all’uccellino morto riverso sul sentiero, al cane che attende il padrone, alla mamma e alla sorellina, riservandone infine qualcuno anche per sé. (Fig. 32


Per la bambina tutto è normale e speciale al contempo, il suo sguardo meravigliato e rispettoso non fa distinzioni tra il conosciuto e lo sconosciuto, tra umani e animali, tra la vita e la morte. Ogni cosa è degna di attenzione, rispetto e cura. Questa rappresentazione disegna in modo attinente al vero lo sguardo che l’infanzia riserva naturalmente al mondo e a ciò che nel mondo esiste, senza riserve, senza remore, senza inibizioni. È questa la lente attraverso la quale dovremmo re-imparare a guardare la morte: con confidenza e fascino, consapevoli della sua logicità e al contempo del suo inesauribile mistero.

Il mistero intorno alla morte è perfettamente delineato dall’autore e illustratore tedesco Wolf Erlbruch, nel suo capolavoro L’anatra, la morte e il tulipano130. In copertina, un’anatra che sembra sospesa nel nulla punta lo sguardo in alto, sopra la sua testa, e poi, nelle tavole successive, a sinistra e a destra, avanti e indietro, in un atteggiamento guardingo e irrequieto: qualcuno la sta seguendo. Chi è? È la Morte, che l’autore rappresenta come uno scheletro con indosso una vestaglia a quadri e un paio di pantofole ai piedi. È un personaggio ordinario ma impenetrabile, inquietante e rassicurante insieme. Misterioso, appunto. Tra i due si instaura un dialogo immediatamente confidenziale. L’anatra è comprensibilmente preoccupata e pone le sue domande, alle quali la Morte risponde in modo evasivo, ma onesto: persino lei non ha tutte le risposte. I suoi modi sono pacati, cortesi, spiritosi, verrebbe davvero voglia di scambiarci due chiacchiere. Le due passano alcune giornate assieme, vanno allo stagno, si arrampicano sugli alberi, continuando il loro dialogo filosofico a cavallo tra ingenuità e saggezza, fino a quando il silenzio inizia a prendere il posto delle parole, il freddo si fa pungente e l’anatra, semplicemente, smette di respirare. La Morte resta a guardarla per un po’, le liscia le piume con cura e la adagia delicatamente sulla superficie di un fiume che si allontana a perdita d’occhio, fuori dal confine della pagina. Il capolavoro di Erlbruch si pone come un’apertura da parte della vita al dialogo con la morte, che non ne è antitesi ma parte integrante di essa, e da essa inscindibile. 


Fare amicizia con la morte, dunque. Anche l’albo illustrato Piccolo sonno131, di Alessandro Riccioni e Francesca Ballarini, apre una pacata e composta conversazione tra la vita e la morte. Da quando sua moglie non c’è più, il signor Giuseppe non riesce a dormire che poche ore per notte, e ogni mattina presto esce per la sua passeggiata rilassante. Giunto alla solita panchina, sventa l’agguato di un gatto a un uccellino tutto nero che, per sua somma sorpresa, gli si appoggia sulla spalla e inizia a parlargli: «“Buon giorno, Giuseppe!” Dopo un primo momento di spavento, l’uomo rispose: “Ehm, buon giorno a lei! Ma…” “Diamoci pure del tu! – lo interruppe l’uccellino – Siediti, dobbiamo parlare!” Il signor Giuseppe si sedette, un po’ inquieto». (Fig. 33)

L’uccellino si rivela essere nientemeno che il messaggero della morte, venuto a lui per svolgere il proprio dovere. Ma proprio grazie al salvataggio appena compiuto, e alla cortesia con cui il vecchio gli si rivolge, l’uccellino decide di concedergli altro tempo e di esaudire un suo desiderio. Dopo averci pensato su un’intera notte, Giuseppe chiede di poter rivedere l’amata moglie. Come fare? È disposto a cessare la propria vita in nome dell’amore? Il destino che vedremo compiersi tra le righe è suggerito discretamente da piccoli particolari, come le date dei calendari nei risguardi, il titolo del libro appoggiato sul suo comodino, e il braccio del signor Giuseppe disteso sul letto matrimoniale, allorché sconfina dal bordo del libro per ricomparire nella pagina successiva, mano nella mano con quello della moglie. Ancora una volta la scelta di giocare con il limitare concreto della pagina ci proietta in una dimensione altra: cosa sta succedendo? È solo un sogno o è “realtà”? Il testo e le illustrazioni di questo albo veicolano quesiti, speranze e dubbi imponenti sulla vita, sulla morte, sull’amore: il lettore cosa preferirebbe leggere come epilogo? Non è importante saper rispondere. Il punto fondamentale è avere lo spazio per poterselo domandare. 


L’autore Chen Jiang Hong, nel meraviglioso Il piccolo pescatore e lo scheletro132, ci accompagna in un incontro tra il regno dei vivi e quello di morti. Una mattina il giovane pescatore Tong decide di uscire in mare nonostante la tempesta in arrivo. Tong ricorda le parole del padre: «Non bisogna mai uscire in mare quando le nuvole hanno il colore della fuliggine e gli uccelli fuggono verso la riva». Non è detto, ma intuiamo, che il padre non ci sia più. Una volta al largo, il piccolo pescatore sente strattonare la lenza e capisce di aver pescato qualcosa di grosso, ma un istante dopo, tra onde alte come montagne, un gorgo lo inghiotte e lo trascina giù. Non appena riapre gli occhi, Tong si trova davanti un terrificante scheletro, che nonostante i tentativi del ragazzino di liberarsene, riesce a rimanere aggrappato alla barca e a seguirlo fino a casa. Quando Tong se ne accorge, per la paura cade svenuto davanti alla porta. Con un totale cambio di registro, ora lo scheletro solleva delicatamente Tong fra le sue braccia, lo porta in casa e se ne prende cura. Intanto, recuperato uno specchio, si rende conto del suo aspetto spaventoso e ne resta sconvolto, crollando a terra disperato. Ora è Tong che, ripresa conoscenza, si avvicina cautamente allo scheletro tremante e gli porge una coperta. (Fig. 34)

Una volta riscaldato e sfamato, lo scheletro subisce una repentina trasformazione e diventa un uomo in abiti da pescatore. «“Ero un famoso marinaio”, raccontò l’uomo. “Ho attraversato i mari e gli oceani su un grande veliero, fino al giorno in cui la mia barca è affondata durante una tempesta come quella di oggi”. “Avevi dei figli?” chiese Tong. “Avevo un figlio più o meno della tua età. Era troppo piccolo per portarlo con me, nei miei viaggi”». Chi è questo scheletro? È davvero un’anima tornata nel regno dei vivi dall’aldilà? È il fantasma del padre? È una proiezione del lutto che Tong sta vivendo, e che il suo inconscio e la finzione narrativa elaborano così? Come che sia, di nuovo la letteratura offre un’apertura tra il regno dei vivi e quello dei morti, instaurando un dialogo e una collaborazione amichevole tra il Qua e l’Aldilà, entro i confini della finzione narrativa, ma oltre i limiti della fantasia e dell’immaginazione.

La morte non ferma la vita: l’elaborazione del lutto 


Nel percorso di crescita di ogni minore è nascosta una piccola grande verità, essenziale quanto ineluttabile: la forza e il vigore, la vitalità e la speranza dei genitori mettono al mondo un figlio; poi, con la loro vita, mamma e papà ne proteggono la crescita; infine, più il figlio diventa grande e adulto, più chi gli ha dato vita invecchia e si indebolisce. 

In fin dei conti, questo rimane il significato del nostro esistere. Siamo al mondo per lasciare un segno di noi negli altri e per passare il testimone a chi sopravvivrà a noi e alla nostra esperienza di vita, che proprio grazie alle generazioni future continuerà a lasciare una traccia nel mondo.


Essere consapevoli che la nostra esistenza è occasione di vita per chi viene dopo di noi, ma proprio per questo si trasforma in esperienza che genera separazione, morte e lutto, significa prendere contatto con una verità che rimane per sempre in noi. […] Crescere implica tenere insieme tutte queste cose […]133

Ecco che anche questa consapevolezza entra anche nel mondo dei libri e delle storie. L’albo Ti amerò sempre134, di Robert Munsch illustrato da Lucia Sforza, inizia così: «Una mamma teneva in braccio il suo bambino appena nato e pian piano lo cullava su e giù, su e giù, su e giù. E mentre lo stringeva, cantava: – Ti amerò per sempre, sempre avrai il mio amore e finché vivrò sarai il mio piccino». (Fig. 35


Da qui in poi si dispiegano le transizioni tipiche di ogni figlio e le relative complessità che coinvolgono anche i genitori: si inizia a camminare e dunque a tirare giù tutto quello che è afferrabile; poi si cresce, si va fuori a giocare con gli amichetti, e non si vuole mai rientrare a casa e farsi la doccia; e si cresce ancora, si diventa adolescenti, si ascolta musica stramba e sembra di essere allo zoo. (Fig. 36


A conclusione di ciascuna di queste scene la voce della mamma, sempre e nonostante tutto, rinnova il proprio amore verso il figlio attraverso la cerimonia del canto: « – Ti amerò per sempre, sempre avrai il mio amore e finché vivrò sarai il mio piccino». Contemporaneamente anche la mamma cresce e invecchia, e si arriva a un punto della vita in cui i ruoli sembrano ribaltarsi: chi si prende cura di chi, adesso? E quando la mamma non ci sarà più, a chi si rivolgerà quello stesso canto di amore e rassicurazione che ha accompagnato tutti i momenti della loro vita, in un ciclo rituale di eternità? 


In questo testo la morte viene inserita come evento naturale intrinseco alla vita, la cui ciclicità è data tanto dalla replicabilità dei processi biologici, quanto dal perpetuarsi e tramandarsi delle tradizioni familiari. Canti, nenie, filastrocche, fiabe tradizionali fanno tutte parte di questo bagaglio culturale che si trasferisce tra una generazione e l’altra, e che segna il fil rouge su cui camminano le voci e i mormorii del passato. L’evento “esterno” della morte, quando ci tocca, provoca un risentito che chiede di essere elaborato. Tanto più forte è la relazione con ciò che muore, tanto più siamo esposti al conflitto di perdita che ci obbliga all’elaborazione.

LE FASI DEL LUTTO

Abbiamo detto che il lutto è uno stato psicologico, altamente emozionale, conseguente alla perdita ma, oltre a essere uno stato, il lutto è anche un processo. Esso ha una sua evoluzione naturale che attraversa alcune condizioni psicologiche specifiche, che molti studiosi hanno cercato di descrivere (prima tra tutti Elisabeth Kübler-Ross), e che può essere accompagnato da un processo di elaborazione che ne sostiene la coscientizzazione e il superamento. Proveremo qui a darne una breve descrizione attraverso un modello per fasi che ricalca quello proposto da Elisabeth Kübler-Ross. Descriveremo le fasi del lutto nella loro gradazione più intensa, quella legata alla morte di una persona significativa per la nostra vita, ma rimangono le stesse, con inferiore intensità, anche per le perdite minori.


FASE 1: SHOCK/NEGAZIONE L’attimo in cui la realtà ci raggiunge cogliendoci impreparati. La realtà della fine ci risulta inconcepibile, rompe le nostre mappe di mondo, i nostri progetti, le nostre certezze, le nostre illusioni di controllo, gettandoci nel panico. L’onda emotiva è così violenta che il sistema cerca di bloccarla attuando un meccanismo di difesa: la negazione. Non è vero, non può essere vero, c’è stato uno sbaglio, un errore nell’applicazione del progetto del destino, un errore cui certamente si può rimediare, che deve essere rimediato.


FASE 2: COLPA Cos’ho fatto per meritarmi questo? Perché sta succedendo proprio a me? È successo a causa mia? La colpa è il sentimento che proviamo quando pensiamo di aver mancato qualcosa: qualcosa che abbiamo/non abbiamo fatto o detto e che avrebbe potuto modificare la realtà attuale, oppure qualcosa che avrebbe dovuto essere detto o fatto con la persona e che ora non ha più il tempo di accadere. Se avessi detto…, se avessi fatto… o non sono nemmeno riuscito a dire…, non ho avuto il tempo di fare… sono le affermazioni più frequenti in questa fase; rimpianto e rammarico, le emozioni dominanti. Possiamo provare colpa anche per il fatto di essere vivi mentre l’altro è morto, soprattutto se abbiamo condiviso le circostanze della morte (incidenti, guerre, calamità naturali). 


FASE 3: RABBIA Perché mi hai fatto questo? La fase della rabbia è allo stesso tempo un meccanismo di difesa dal sentimento di colpa (tu sei il colpevole, non io) e l’espressione della frustrazione inflittaci dalla perdita. La morte scompliglia i nostri piani, interferisce con i nostri obiettivi, con la soddisfazione dei nostri bisogni e la rabbia è la risposta emotiva a questa interferenza. Siamo arrabbiati con l’altro, con il destino, con la vita che vorremmo sottomettere ai nostri desideri. Di fronte alla morte tocchiamo l’impotenza, ma cerchiamo ancora di vincerla attraverso la rabbia. 


FASE 4: CONTRATTAZIONE – PATTEGGIAMENTO È un ennesimo tentativo di manipolazione della realtà. Non potendola dominare con la forza, si cerca di negoziare con la vita. Si cerca di convincere la vita a restituirci ciò che ci ha sottratto offrendole in cambio una qualche forma di sacrificio. 


FASE 5: TRISTEZZA/DEPRESSIONE Quando qualsiasi tentativo di manipolazione della realtà si frange contro l’ineluttabilità della perdita e l’impotenza del nostro volere ci si rivela in tutta la sua evidenza, subentra la tristezza che può sfociare in uno stato depressivo. La tristezza è il frutto della resa o peggio, della rassegnazione. Essa ci mette in contatto con la mancanza, con la fragilità, con la ferita. Essa ci rivela la reale importanza che la persona mancata aveva nell’equilibrio della nostra vita. Ogni perdita ci rende un po’ insicuri, è un pezzetto della nostra forza (che è fatta anche delle nostre relazioni, oltre che delle nostre risorse, capacità e competenze) che viene a mancare. Il mondo esterno ci appare più insicuro e faticoso da affrontare e tendiamo a proteggerci restando chiusi in un luogo sicuro. È la fase in cui sgorgano le lacrime, in cui possiamo provare la sensazione di non farcela senza… in cui può essere messo in dubbio il restare nella vita, in cui sentiamo il bisogno che qualcuno si prenda cura di noi. 


FASE 6: CONFUSIONE/DISORIENTAMENTO Cosa succederà adesso? In che modo questa perdita impatta sui miei progetti di vita? Chi sarò e cosa farò d’ora innanzi, dopo questa perdita? La fase della confusione è quella in cui prendiamo coscienza del fatto che la nostra mappa di mondo deve essere cambiata, che i nostri progetti potrebbero essere compromessi o comunque dovranno essere modificati e adattati alla nuova realtà, che persino la nostra identità dovrà essere ridefinita. 


FASE 7: ACCETTAZIONE Accettare è molto più che arrendersi. È entrare in accordo con… Se la resa è passiva (ci si arrende per stanchezza o per esaurimento delle risorse), l’accettazione è assertiva. Essa è una adesione attiva e responsabile alla realtà: questo è ciò che è ed io sono d’accordo, e in quanto in accordo con ciò che è, io prendo una posizione attiva rispetto alla realtà. È il momento in cui l’individuo è pronto a riprogettare la propria vita sulla base dell’inclusione della perdita: io resto e vivo ancora tutto ciò che c’è per me da vivere.

Perché è così importante definire e conoscere le fasi del lutto? Perché il conoscerle può aiutarci ad attraversarle o accompagnarle senza quel senso di sbigottimento e, a volte, vergogna che esse possono generare. Nonostante ci sembri assurdo e disdicevole essere arrabbiati, illogici e persino deliranti, lo stato di lutto, con tutto ciò che esso comporta, ci riguarda tutti e ci affratella nel dolore della perdita. 


Nell’albo Non è facile, piccolo scoiattolo!135, di Elisa Ramón, Rosa Osuna, vi è una rappresentazione in forma narrativa delle fasi di elaborazione del lutto da parte di un piccolo scoiattolo che ha perso la sua mamma. «Una sera si arrabbiò con la mamma perché l’aveva abbandonato. Era così infuriato che se la prese con i suoi giocattoli». (Fig. 37


«Suo padre gli andò vicino e gli accarezzò la schiena: “Voglio farti vedere una cosa che ti piacerà…”. “Impossibile!”, si sentì da sotto le lenzuola. “Non mi piace più niente”». Rabbia, tristezza, depressione: nelle sue risposte emotive e comportamentali è possibile rintracciare le fasi umane dell’elaborazione del lutto, fino alla risoluzione finale che segna il passaggio di rinascita del piccolo scoiattolo: «Un pomeriggio si fermò sotto un noce. Raccolse le noci più grandi, le strofinò tra le zampe e se le mangiò. Le apriva con molta abilità. Glielo aveva insegnato la mamma, per non rompersi i denti». Ciò che lui sa fare grazie agli insegnamenti della mamma rappresenta l’elemento di continuità che gli permette inconsciamente di riconoscere come la madre sopravviva in lui, e dunque di accettare la sua assenza. Nel gesto di aprire la noce con abilità, come la mamma gli ha trasmesso, lui è la sua mamma.

L’albo Il bambino e il gorilla136, Jackie Azúa Krameri e Cindy Derby, è una narrazione ancora più emotivamente impattante poiché qui è un bambino, e non un animaletto, a dover affrontare la perdita della mamma: c’è un ulteriore passo avanti verso l’identificazione da parte del lettore. Il piccolo rivolge le sue mille, lecite domande a un gorilla, la cui presenza è una potentissima figura simbolica di rassicurazione e solidità. «La mia mamma è morta. Lo so. Come lo sai che qualcuno è morto? Il suo corpo smette di funzionare. Come il battito del suo cuore? Sì». (Fig. 38


Chi è il gorilla? Forse un amico immaginario, forse la voce saggia di qualcuno che è al suo fianco, oppure la memoria della mamma stessa, capace di dare risposte oneste e rimettere in piedi le fondamenta della fiducia e della speranza per il futuro. Perché leggere racconti come questi insieme ai bambini, soprattutto in tempi non sospetti, quando non c’è alcuna imminenza di elaborazione di un lutto? Si tratta di esperienze di “lutto virtuale” nelle quali il cervello del lettore sperimenta indirettamente, ma fisicamente, le emozioni, i percorsi e le strategie risolutive messe in atto dai personaggi delle storie. Dopo aver raccontato e svelato il dolore che inevitabilmente il lutto provoca in chi lo vive, queste storie hanno il potere (e il dovere) di riattivare una visione positiva della vita, far risuonare la sensazione che c’è ancora molto da godere e da fare. C’è ancora luce.

Il libro Gina e il pesce rosso137, di Judith Koppens ed Eline Van Lindenhuizen, è capace di raccontare l’esperienza della morte e del lutto anche ai bambini più piccoli. La protagonista è una gattina che viene in contatto per la prima volta con la morte, notando che il proprio pesce rosso «si comporta in modo strano»: sdraiato immobile sulla schiena nella boccia d’acqua, «ha qualcosa che non va». Insieme a Ugo, l’amico cane, cercano di capire cosa stia succedendo: fanno il solletico al pesciolino, provano a ricreare delle piccole onde nella boccia, ma invano. Carlo, la giraffa, giunge con una spiegazione: Pesciolino è morto, non può più nuotare. Insieme gli amici animali trovano un posto dove seppellirlo: un luogo speciale, bello, «dove si potrà sempre andare per pensare a Pesciolino». Come ogni tomba o sepolcro, questo diventa il luogo fisico della commemorazione: 


C’è bisogno di trovare un luogo dove seppellire le ossa delle persone che hanno ceduto il passo della vita ad altri, in un continuum esistenziale cosmico. Non si tratta di dimenticare, tutt’altro: si tratta di donare un luogo in cui la nostra memoria sia libera di tornare per ricelebrare un incontro.138

Proprio lì, in quel terreno che innaffiano con cura quotidianamente, dopo qualche giorno nasce un bellissimo fiore, dello stesso colore di pesciolino: la vita ha il sopravvento. Sono qui messi in luce anche altri aspetti legati all’esperienza della morte e del lutto, ovvero il concetto della memoria e del ricordo come ponte tra ciò che non c’è più (il passato, il corpo fisico, la vita biologica) e ciò che continuerà a essere (il futuro, l’eredità, la continuità nella memoria). Noi siamo contenitori di ricordi, ovvero di esperienze vissute a contatto con altro da noi, parole e gesti altrui cui attribuiamo un qualche significato. Ne L’albero dei ricordi139, scritto e illustrato da Britta Teckentrup, una volpe viene ritrovata priva di vita nel mezzo del bosco. Gli amici le si riuniscono attorno e, in un momento di condivisione comunitaria, ciascuno di loro riporta un buon ricordo dell’amica che non c’è più. Le immagini mentali evocate dalle loro storie riscaldano e fanno sorridere, perché tengono in vita volpe dentro ciò che di lei permane in loro. Sono proprio queste memorie condivise che danno origine e alimentano l’albero dei ricordi, luogo pieno di amore e di vita nel quale è piacevole stare e tornare. (Fig. 39)

La morte non ferma la vita. Nell’albo illustrato dell’olandese Max Velthuijs, Ranocchio e il merlo140, un piccolo ranocchio giunge tutto trafelato dall’amico porcello per mostrargli qualcosa di strano: sul prato c’è un merlo che non si muove più, cosa sarà successo? Accorre anche l’anatra, e ognuno di loro cerca una risposta: forse sta dormendo, forse si è fatto male o è malato. La lepre sa la verità: Merlo è morto. (Fig. 40


Gli amici cercano di mettere a fuoco questa nuova scoperta – “Tutti moriamo?” – e con naturalezza riportano la morte alla sua essenza di semplice accadimento, per quanto perturbante: seppelliscono con cura l’amico, che ha donato loro tante dolci melodie e che ora ha diritto di riposarsi, e si allontanano commossi e mesti. D’improvviso Ranocchio parte come un razzo: «“Giochiamo ad acchiapparella?” urla, allegro. “Dai, Porcello, prendici... prendici, se sei capace!”». Il primo pensiero potrebbe essere: ma come, nel bel mezzo di un lutto pensi a divertirti? Ma è tipica dei bambini la meravigliosa capacità di sganciarsi da uno stato emotivo per passare repentinamente a un altro pensiero, un’altra emozione. Oltre a questo, e soprattutto, non si tratta affatto di una reazione irriguardosa per la vita di Merlo. Al contrario, è la più rispettosa via per onorare la sua vita e quella di coloro che restano. È gioia, gratitudine per essere ancora al mondo, con la melodia di merlo che continua a risuonare, come sempre, nel vento sulla collina. (Fig. 41


Nelle risposte emotive dei personaggi di tutte queste narrazioni leggiamo emozioni ambivalenti, sempre in bilico sul crinale tra paura e rasserenamento, dolore e speranza, in una serie di dinamiche che Alba Marcoli descrive così: 


Come osserva Racamier, è probabile che l’uscita evolutiva della crisi sia rappresentata dalla capacità di tollerare una certa «ambiguità »: quella di essere contemporaneamente tristi per la perdita di una persona amata o di un periodo della vita o di qualcos’altro che ci era caro, ma anche contenti del loro ricordo buono dentro di noi, che ci accompagnerà per il resto dei nostri giorni, perché quella vicenda ci è appartenuta e nessuno la può cancellare.141

Molte di queste storie, inoltre, mettono in luce l’aspetto culturale della morte, ovvero legato a quei riti comunitari con i quali il mondo moderno sta gradualmente perdendo contatto. 


Ogni rito di passaggio segna un cambiamento di stato, l’accesso a un altrove; esso comporta per chi ne è escluso la necessità di stare ai margini di un mistero, la capacità di sopportare un non sapere, non avere il controllo su fatti e persone: così anche per la morte. Ma ogni rito di passaggio contempla per chi vi partecipa un’assistenza della società, un conforto nel superare la prova. Il dolore ha percorsi diversi se è dolore condiviso.142 


Le fasi del lutto, così come le abbiamo descritte nell’approfondimento precedente, sono stati psicologici caratterizzati da una certa qualità emozionale e da una certa postura cognitiva, e possono essere attraversate in maniera inconscia o essere accompagnate da un processo attivo di elaborazione. Il processo di elaborazione del lutto, che descriveremo nell’approfondimento successivo, è invece un lavoro attivo della coscienza che elabora il fatto, le sue conseguenze e i suoi significati, conducendo la persona consapevolmente fuori dai conflitti che il lutto genera e libera di proseguire il suo cammino di vita.

PROCESSO DI ELABORAZIONE DEL LUTTO

Quanto dura lo stato psicologico del lutto? Cosa possiamo fare per attraversarlo senza rimanerne imbrigliati? Il lutto di qualcuno o qualcosa di molto significativo normalmente ha una durata compresa tra i sei mesi e i due anni. Lutti minori, ovviamente, si risolvono più velocemente; tuttavia, la prima raccomandazione è: abbiate pazienza! 


Ci vuole tempo per elaborare un lutto, non cercate di forzare i tempi, accettate ed esprimete tutte le emozioni e i sentimenti che emergono, parlatene con qualcuno che sia capace di ascoltare senza interferire. Prendetevi cura di voi stessi (riposo, buona alimentazione, passeggiate nella natura) e fate ogni giorno qualcosa che vi fa bene, vi fa sentire vivi e vi procura piacere. Non cercate di forzare l’uscita dallo stato confusionale e non prendete decisioni importanti, ma cercate di mantenere le vostre attività abituali. Siate in pace con voi stessi sul fatto che a poco a poco vi dimenticherete dell’immagine sensoriale della persona. Incontrate gli amici della persona morta e parlate di lei; ricordate insieme la vita della persona, le cose belle e le cose buffe che la persona faceva. Ridete! Le persone sono quello che sono, non vanno idealizzate. Utilizzate il dolore come energia creativa (scrivete, dipingete, suonate). Usate questo evento per approfondire la vostra comprensione del senso della morte e della vita; l’incontro con la morte ci aiuta a ricordare che non abbiamo tempo da perdere nelle cose inutili, sciocche o dannose, che ogni istante è prezioso, che procrastinare ci fa mancare la vita. 


Date queste premesse generali vi è un processo di elaborazione che ha caratteristiche più tecniche e che si rende necessario soprattutto nei casi in cui lo stato di lutto si protrae oltre i suoi termini naturali. Vi sono alcuni segnali del mancato superamento del lutto: assenza di emozioni o persistere, dopo molto tempo, di emozioni quali colpa, rabbia o tristezza, ritiro sociale, disinvestimento da progetti di vita, mancanza di progettualità. In tutti questi casi è bene strutturare il processo di elaborazione e, a volte, farsi sostenere da un professionista. Il tipo di emozione in cui rimane imbrigliata la persona è un segnale di quale fase del lutto non è stata superata e va coscientizzata ed elaborata. Descriveremo qui, brevemente, un possibile processo di elaborazione del lutto che agevola il superamento delle fasi dello stato di lutto descritte nell’approfondimento precedente.

  1. COSCIENTIZZARE IL FATTO Il primo passaggio ha a che vedere con l’uscita dallo stato di shock e dal meccanismo di negazione. In questa fase dobbiamo fornire al nostro sistema percettivo e cognitivo le prove inconfutabili del fatto: la cosa è finita, la persona è morta, la nostra rappresentazione del mondo antecedente all’evento non esiste più, al suo interno si è creato un vuoto.

    In questa fase è fondamentale il coinvolgimento attivo del sistema percettivo. Se tutti gli organi di senso registrano la concretezza fisica della morte, il meccanismo di negazione difficilmente regge alla prova di realtà. A questo servono tutti i riti funebri: lavare e vestire il corpo della persona morta, vegliare il corpo per tre giorni, coinvolgere il sociale a testimonianza della morte attraverso il funerale, partecipare alla sepoltura del corpo gettando un pugno di terra sulla bara e dandogli una collocazione fisica statica e riconoscibile con tanto di foto e dati anagrafici (la tomba), cui poter tornare per verificare ancora e ancora che lui/lei non è più sulla terra ma sottoterra; sono tutti atti che aiutano a elaborare, sulla base dei dati percettivi coscientizzati, l’irreversibilità della fine, a dire di sì al fatto. Per questo è molto più difficile elaborare il lutto di una persona scomparsa, per questo è importante non mentire ai bambini rispetto al fatto e accompagnarli nella partecipazione ai riti funebri.

    Cosa significa coscientizzare i dati percettivi? Significa portare l’attenzione e nominare i dati percettivi e le sensazioni fisiche che il corpo morto mi dà e registrarne lo scostamento radicale dalla mappa sensoriale con cui mi rappresentavo la persona da viva.
  2. DEFINIRE I CONFINI SPAZIO TEMPORALI DELLA RELAZIONE CON LA PERSONA MANCATA È molto importante circoscrivere l’area della relazione. Per centrale e fondamentale che sia, la relazione con una persona non è tutta la nostra vita, il vuoto che crea non è sovrapponibile alla nostra intera esistenza. Riuscire a stabilire il confine spazio temporale della relazione (è iniziata in un preciso tempo e in un preciso spazio e contesto, si è svolta per un certo tempo, in determinati spazi e contesti, è finita in un certo tempo, luogo e contesto) ci aiuta a contenere la mancanza, a prendere coscienza che la nostra vita è molto più vasta della relazione che è finita. Questa presa di coscienza crea il presupposto per una riorganizzazione interna e per un rilancio progettuale. Per questo è molto importante la vicinanza dei parenti, degli amici, dei vicini, dei colleghi e di tutto il sociale nei giorni del lutto: la loro presenza rende percepibile alla persona in lutto la vastità e complessità delle relazioni che compongono la sua vita e attutisce il senso di incolmabilità del vuoto lasciato dalla persona scomparsa.
  3. ELABORARE LE EMOZIONI PERTURBANTI Rabbia, colpa, rimpianto, rammarico, rimorso, risentimento sono le emozioni in cui spesso si dibatte la persona in lutto. Che messaggio ci portano queste emozioni? Cosa possiamo imparare da esse per la nostra vita? Come possiamo attraversarle senza rimanerne travolti? Il lavoro inizia con l’individuazione degli episodi che compongono la storia della relazione e che ancora ci provocano queste emozioni. Le emozioni vanno innanzitutto espresse perché solo attraversandone l’espressione possiamo giungere alla loro coscientizzazione. Cerchiamo innanzitutto di divenire consapevoli dell’informazione che ogni emozione mi porta nel contesto di ogni singolo episodio:

    • rabbia: di norma la rabbia è l’emozione che proviamo quando qualcosa si frappone tra noi e il raggiungimento di un nostro obiettivo, impedendo la soddisfazione di un nostro bisogno. La prima domanda che possiamo porci, dunque, è: la morte di questa persona in che modo interferisce con la soddisfazione dei miei bisogni? Quali bisogni e obiettivi specifici sono minacciati dalla morte di questa persona?
    A un livello più profondo, la rabbia è anche la manifestazione della pretesa che il mondo esterno si pieghi al nostro desiderio. La realtà esterna che resiste al nostro volere viene percepita come la causa della nostra frustrazione e, quindi, l’oggetto della nostra legittima ira. In questo caso la rabbia è la manifestazione di una sorta di residuo dell’illusione infantile di onnipotenza; ci mostra che stiamo dicendo no a ciò che è perché non è in accordo con il nostro volere. In che modo questa persona, nel corso della nostra relazione, ha frustrato le mie richieste e non ha ceduto alle mie pretese? In che modo mi sto opponendo alla realtà in questo momento? Su quale volere disatteso si radica la mia rabbia? Dire di sì a ciò che è costituisce in ogni caso il primo passo per trovare delle possibili buone risposte alle circostanze della vita, ma di fronte alla morte il sì è l’unica risposta possibile.

    • colpa: di norma la colpa è l’emozione che proviamo quando riteniamo che un nostro comportamento, discostandosi dalle norme morali di riferimento del gruppo sociale cui apparteniamo, abbia danneggiato e messo in pericolo le nostre relazioni e la nostra stessa appartenenza. In che modo le mie azioni hanno concretamente contribuito all’evento? In che modo le mie azioni passate hanno compromesso la mia relazione con questa persona? In che modo ora posso prendermi la responsabilità delle conseguenze di queste mie azioni?
    La colpa, ha anche un aspetto più oscuro legato all’attribuzione delle cause: la colpa è retta dalla stessa illusione di onnipotenza della rabbia che, questa volta, si rivolge contro di noi come un boomerang. Di fronte a un evento difficile, spesso non ci prendiamo la responsabilità di ciò che ci accade e dei nostri risentiti a riguardo, ma preferiamo attribuire all’esterno la causa della nostra sofferenza, arrabbiandoci con ciò che è fuori di noi perché non ha corrisposto al nostro bisogno, desiderio, volere o idea di mondo (quante volte ce la siamo presa con il palo quando ci abbiamo sbattuto contro?); allo stesso modo, di fronte a un evento avverso che riguarda l’altro, ci sentiamo colpevoli perché l’esterno, in questa circostanza, siamo noi. Illudendoci di essere onnipotenti diventiamo colpevoli. Superare la colpa significa prendere consapevolezza della nostra impotenza e dei limiti della nostra responsabilità, oltre a fare pace con l’irreversibilità delle nostre azioni e prenderci la responsabilità delle loro conseguenze.

    La colpa non elaborata porta all’espiazione. Essa non solo non ripara, ma aggiunge lo spreco al sacrificio. La colpa elaborata porta all’umiltà e alla responsabilità.

    • rimpianto: è l’emozione che proviamo di fronte alle cose rimaste incompiute, a ciò che non abbiamo potuto o voluto fare o dire. Il rimpianto ci mostra le opportunità di vita non colte e ci ricorda che la vita non può essere procrastinata, ma deve essere vissuta attimo per attimo, qui e ora. Il non fatto rimarrà non fatto, ma il non detto può essere quantomeno espresso.

    • rammarico: è l’emozione che proviamo in relazione a qualcosa che abbiamo detto o fatto e non avremmo voluto dire o fare perché ha ferito l’altro portando conseguenze negative nella relazione. Dobbiamo assumerci la responsabilità di queste azioni e imparare a dire: mi dispiace.

    • risentimento: ha a che vedere con ciò che abbiamo ricevuto e non avremmo voluto ricevere dall’altro. È legato a tutto ciò che richiede il nostro perdono.
  4. ELABORARE LA MANCANZA Elaborare la mancanza ci aiuta a superare la fase depressiva del lutto. Cosa mi manca della persona? Cosa faceva con me e/o per me questa persona che mi mancherà? Come mi sentivo io grazie alla relazione con questa persona e ora non mi sento più?

    Queste tre domande aiutano a mettere a fuoco tre aspetti importanti e molto diversi della mancanza. La prima individua gli aspetti psicofisici della persona (il suo aspetto, il suo odore, la sua voce, il suo sorriso, il suo tocco, la sua risata ecc.) che contribuivano al nostro legame affettivo con lei; la seconda individua tutti i bisogni nostri cui la persona mancata contribuiva a dare soddisfazione, in altre parole, la nostra dipendenza dall’altro; la terza ha a che vedere con la nostra identità, con uno o più aspetti che compongono la definizione che diamo di noi stessi e che reputiamo direttamente associati alla relazione con l’altro (mi faceva sentire bello/a, mi faceva sentire divertente, con lui/lei riuscivo a essere leggero/a, in sua presenza ero creativo/a). Con la prima categoria di mancanza è importante nominare tutte le cose che ci mancano, prendere atto del fatto che non incontreremo più quelle specifiche forme e lasciar andare gli oggetti che in qualche modo mantengono attuale l’attaccamento a esse. D’ora in avanti non sentirò più il suo odore, non rivedrò più la lucentezza del suo sguardo, non potrò più rilassarmi nel suo abbraccio, non sentirò più la sua risata fragorosa, non incontrerò più il suo incedere danzante, non lo/la vedrò più seduto/a nella sua poltrona preferita...

    Può essere molto utile nell’elaborazione di questa prima categoria di mancanza liberare gli spazi dagli oggetti appartenuti alla persona o a essa collegati: lavare gli abiti e donarli, modificare la disposizione dei mobili o sostituirli, per esempio, sono modi molto concreti di lasciar andare i contesti percettivi che ci tengono legati all’aspetto fisico della persona.

    Rispetto alla seconda categoria di mancanza è importante individuare le zone di dipendenza e, soprattutto, riacquisire la responsabilità rispetto ai nostri bisogni. Le zone di dipendenza a volte sono molto concrete e facili da definire (mi aiutava economicamente, cucinava per me, si occupava dei miei figli mentre io ero al lavoro ecc.), altre volte sono più sottili e difficili da individuare (mi ascoltava quando avevo bisogno di sfogarmi, aveva sempre un buon consiglio da darmi, riusciva sempre a farmi ridere ecc.), in ogni caso è importante nominare il bisogno sottostante e assumere la responsabilità della sua soddisfazione. Non potrò più contare su di lui/lei per la soddisfazione di questo bisogno di cui oggi riacquisisco la responsabilità.

    Con le mancanze che riguardano la nostra identità, invece, dobbiamo internalizzare le qualità personali che abbiamo scoperto e sviluppato grazie alla relazione con la persona mancata. C’è una bella metafora che può aiutare questo processo. Ognuno di noi è come un giardino; all’inizio è solo un pezzo di terra brullo ma ognuno riceve in dono un sacchetto pieno di semi per poter trasformare la terra in un giardino meraviglioso. Ci vuole un giardiniere però per scavare la terra, piantare i semi, annaffiarli, proteggere la crescita delle piante fino alla loro maturazione, potarle, difenderle dall’attacco dei parassiti… Le persone significative della nostra vita sono i nostri giardinieri; è nella relazione con loro che si rivelano e vengono coltivati i nostri talenti; grazie a loro emerge ciò che siamo in potenza, grazie a loro sbocciamo a noi stessi. Quando una di loro se ne va temiamo che con lei se ne vadano i nostri talenti.

    Ma il giardiniere non è il giardino; quando se ne va non può portare via con sé la sua opera: il giardino rimane e le piante continuano a crescere e svilupparsi purché non vengano dimenticate e abbandonate. Internalizzare le qualità significa prendere possesso e cura del proprio giardino conservando la gratitudine per il giardiniere. È un atto di responsabilità verso noi stessi che onora la relazione.
  5. TRASFORMARE LA MANCANZA IN GRATITUDINE Individuare e nominare tutte le cose positive che abbiamo ricevuto dalla persona mancata ci conduce a un sentimento che segna un punto di svolta nell’elaborazione del lutto: la gratitudine. La gratitudine ci riconnette alla pienezza della vita, ci restituisce libertà pur mantenendo il legame d’amore, ci responsabilizza rispetto a ciò che abbiamo ricevuto. La gratitudine trasforma il lutto in un inno alla vita.
  6. INDIVIDUARE LE NUOVE POSSIBILITÀ Ogni situazione che viviamo, ogni relazione che abbiamo, per meravigliosa che sia, limita la nostra possibilità di vivere altre situazioni o altre relazioni. Ogni cosa che finisce, dunque, ci permette di vivere qualcosa di nuovo, riapre le porte alle opportunità. È importante prendere consapevolezza di questo: valutare le cose che la presenza nella nostra vita della persona mancata o della situazione conclusa ci impedivano di vivere e che oggi invece abbiamola libertà di fare proprio in virtù del fatto che la situazione ola relazione precedente non c’è più.
  7. FORMULARE UN NUOVO PROGETTO È giunta l’ora di lanciare un nuovo progetto che catalizzi le energie liberate, di reinvestire nella vita le consapevolezze maturate attraverso il lutto, di cominciare a costruire un futuro che onori i doni ricevuti dalla relazione che si è conclusa. È giunta l’ora di lasciar andare definitivamente coloro che sono morti e tornare a guardare la vita con rinnovata pienezza. È giunta l’ora di dire: io resto ancora un po’ e onorerò i doni che ho ricevuto da te vivendo con pienezza ciò che ancora sono chiamato a vivere.

Come per Ranocchio e i suoi amici alla morte di Merlo, amare consapevolmente coloro che sono mancati significa restare nella vita e viverla con maggiore presenza e pienezza.
Abbiamo descritto il processo di elaborazione del lutto riferendoci alla morte di una persona importante della nostra vita, ma esso può essere applicato, mutatis mutandis, a qualsiasi perdita: un lavoro, una relazione d’amore o d’amicizia, uno status sociale, una condizione fisica, un oggetto per noi prezioso, un’identità… Ogni qualvolta resistiamo al cambiamento e ci giriamo indietro cercando di trattenere il passato, ogni qualvolta la nostra vita anziché venire aspirata dal futuro rimane bloccata nella memoria di ciò che è stato, c’è un lutto da elaborare. È importante comprendere con chiarezza cosa ci sta trattenendo e lasciarlo andare. Con amore.

Gratitudine e responsabilità 


La metafora del giardiniere vista poc’anzi conduce a due consapevolezze: la gratitudine e la responsabilità. Chi faccio entrare nel mio giardino? Quali semi che erano dentro di me grazie alla tua presenza sono germogliati? Ma anche, che giardiniere sono per gli altri? Come scelgo di vivere la mia vita? Mi prendo la responsabilità di quei germogli e onoro la tua memoria con un’azione materiale o spirituale? 


Ne è un esempio di rara bellezza l’albo illustrato dei fratelli Terry ed Eric Fan, Il giardiniere notturno143. Il primo sguardo è quello di William, un bambino che, dalla finestra dell’orfanotrofio in cui vive, si accorge di qualcosa di anomalo: la chioma dell’albero in cortile è stata potata da qualcuno dandole la forma di un meraviglioso gufo. (Fig. 42

Questa sarà la prima di una lunga serie di sculture “notturne”: un immenso gatto accoccolato sul tronco, un coniglio, un pappagallo e persino un dragone, tutte realizzate da una presenza misteriosa e sconosciuta. «A Grimloch Lane stava succedendo qualcosa. Qualcosa di bello». Quella che inizialmente viene dipinta come una cittadina cupa e desolante, grazie all’opera gentile di questo personaggio ignoto si sta riempiendo di colore e meraviglia. Ma chi è il Giardiniere Notturno? 


Una sera William riesce a svelarne l’identità, facendo così amicizia con un vecchio signore cortese e sorridente, che gli trasmette la passione e la tecnica dell’arte topiaria fino a notte inoltrata. Il mattino seguente il piccolo si risveglia ai piedi di un albero con indosso la giacca del vecchio, che se n’è andato lasciandogli in dono le proprie cesoie. Il giardiniere notturno non c’è più, ma a Grimloch Lane resta qualcuno a cui lui ha passato il testimone, che si prenderà la responsabilità dell’eredità ricevuta, portando avanti con dedizione la meraviglia di cui ora anche lui è fautore. Gentilezza, cura, attenzione e amore. Sono tutti gesti che non hanno bisogno di essere eclatanti e rumorosi, ma la loro eco può risuonare anche molto lontano: quello tra il piccolo William e Giardiniere Notturno è l’incontro di una sola notte, capace però di cambiare tutto, non solo per lui, ma per un’intera città.

Anche nell’albo Bertolt144, scritto e illustrato da Jacques Goldstyn, l’elaborazione del lutto si concretizza in un’azione materiale capace di onorare il ricordo di chi non c’è più. In questo caso la storia narra l’amicizia tra un bambino solitario e Bertolt, la sua quercia secolare. Sua, perché l’albero è l’unico compagno per lui degno di nota. Il piccolo viene considerato dagli altri un diverso, ma gli basta un rapido sguardo tutt’attorno per accorgersi di quante assurdità compiano le persone cosiddette “normali”: prendere molto sul serio una partita a bocce, catturare farfalle, rubare le ciliegie dall’albero del parroco, spruzzare pesticidi ovunque.
Lui, piuttosto, preferisce starsene da solo e arrampicarsi sui rami della grande quercia, sfidando le altezze, imparando a conoscere gli animali che la abitano e osservando il mondo dall’alto. Ma con l’arrivo della primavera, una brutta sorpresa lo attende: Bertolt, l’amico albero, è morto. Una morte silenziosa, non plateale, dunque ancora più difficile da comprendere: «Quando muore un gatto lo capisci subito. E anche quando succede a un uccellino. Quando capita a un albero non è così evidente. Rimane piantato lì, dritto e immobile. Come se fosse vivo. Come se ti stesse facendo uno scherzo». Una volta compreso e accettato l’accaduto, il bambino si pone subito pragmaticamente la vera, grande domanda: cosa fare per Bertolt, prima che diventi legna da ardere? (Fig. 43)

Ecco l’idea: il piccolo corre rapido verso l’ufficio oggetti smarriti della scuola e recupera di soppiatto un cartone ricolmo di guanti spaiati, persi o abbandonati; poi graffigna e si riempie le tasche di mollette da bucato e finalmente corre dalla sua quercia. E così con pazienza, ramo per ramo, guanto per guanto, il bambino elabora il suo lutto trasformando l’albero morto in un’opera d’arte, e al contempo donando nuova vita a quelli che, fino a un attimo prima, erano solamente inutili, vecchi guanti smarriti. (Fig. 44)

Nel meraviglioso albo di Susan Varley, Il grande regalo di Tasso145, si racconta la storia di un tasso che è ormai vecchio e saggio abbastanza da sapere che la sua vita terrena è giunta al termine.


Non ha paura, perché sa che morire significa semplicemente abbandonare il corpo fisico che, peraltro, non funziona nemmeno più tanto bene. La sua preoccupazione, piuttosto, è quella di riuscire a rassicurare e consolare preventivamente i suoi amici: «Tasso aveva cercato di prepararli e gli aveva detto che presto avrebbe imboccato la Lunga Galleria e che sperava che loro non sarebbero stati troppo tristi quando sarebbe successo». Una sera Tasso torna a casa tardi, dà la buonanotte alla luna e si avvicina al fuoco (simboli ancestrali di luce e sicurezza nel buio della notte), scrive una lettera ai suoi amici, si addormenta, e sogna. In sogno Tasso si ritrova all’imboccatura di una galleria e si sente immediatamente sano e forte. Si sorprende di non avere più alcun acciacco, può di nuovo correre e se cade non sente dolore: «Si sentiva libero. Era come se fosse caduto fuori dal suo corpo».146 


All’indomani gli amici capiscono cos’è successo e si sentono tristi, soli e disperati. Fuori è inverno e gli animali si chiedono come fare ad andare avanti senza di lui. Man mano che la primavera avanza, però, iniziano a incontrarsi sempre più frequentemente e a raccontarsi di quando Tasso era vivo: Talpa ricorda di quando «Tasso gli aveva insegnato a ritagliare un festone di piccole talpe partendo da un foglio di carta piegato e ripiegato», Rana ripensa a quando lui gli ha insegnato a pattinare sul ghiaccio, e così via. (Fig. 45)

«Ogni animale aveva un ricordo speciale di Tasso, il ricordo di qualcosa che Tasso gli aveva insegnato e che ora lui sapeva fare molto bene. Aveva lasciato a ciascuno un grande regalo, da conservare per sempre. Usando questi doni avrebbero potuto aiutarsi l’un l’altro».

È proprio questo il punto: il passaggio di testimone di competenze e conoscenze che diventano pezzi di identità da condividere a propria volta con altri, per perpetuare l’eredità e onorare l’esistenza di chi non c’è più fisicamente, ma vive ancora nei gesti e nelle parole altrui. Il ricordo di qualcosa o qualcuno è molto più di un insieme di eventi stoccati nella memoria di chi resta. Noi siamo la somma dei segni lasciati da chi è entrato in contatto con le nostre vite, sotto forma di parole scritte o dette, di azioni e gesti che ci hanno forgiati. I ricordi sono una forma di immortalità. Donarsi agli altri è, dunque, una forma di immortalità altrettanto.

«Un tiepido giorno di primavera, passeggiando sulla collina dove aveva visto Tasso per l’ultima volta, Talpa volle ringraziare il suo amico per il dono che gli aveva lasciato. “Grazie, Tasso”, disse piano. Era sicuro che lui lo avrebbe sentito. E… in qualche modo… Tasso lo sentì davvero». Rendere grazie. È questo dunque che segna il valore di una vita di passaggio nella nostra. Nella relazione tra noi e il resto del mondo, la gratitudine attribuisce il significato più profondo della presenza di qualcuno o qualcosa che attraversa o ha attraversato la nostra esistenza. 

Torniamo ancora una volta alla domanda che ci siamo posti nel corso di questo libro: chi sono io, dunque? Ora risulta ancora più evidente che non è possibile definire se stessi se non in relazione con l’Altro.

Lo leggiamo con chiarezza nell’albo illustrato di Maria Beatrice Masella e Jacobo Muñiz, Io sono io147. Nelle doppie pagine c’è sempre l’immagine di un bambino (o bambina) in relazione con le persone della sua sfera personale: «Io sono io. Ma sono anche come la mamma quando faccio il pane con lei. E sono come il babbo quando raccolgo le foglie con lui». (Fig. 46)

Genitori, fratelli e sorelle, familiari, amici, compagni di scuola, animali domestici: il vuoto della pagina si riempie via via dei nomi di quegli “altri” da cui l’Io narrante riconosce di star imparando qualcosa, a indicare che, come nei libri, anche la “pagina bianca” della nostra vita si riempie di storie: quelle degli altri che si intrecciano alla nostra, scrivendo e realizzando ciò che chiamiamo la nostra identità. «Ma quando arriva il vento e porta via tutto…», scrive il testo sul disegno di un albero in autunno, cosa resta? Che ne è di se stessi? Il racconto rassicura che «io sono di nuovo io, ma sono io con...» tutto ciò che è stato, è e sarà e che, entrando nel cuore di chi resta, rende ancora la vita meravigliosa. (Fig. 47)

Nell’albo illustrato Grazie!148, di Isabel Minhós Martins e Bernardo Carvalho, un bambino riconosce ed esprime il proprio ringraziamento verso tutto ciò che ha potuto imparare a contatto con le persone accanto a lui. «Mio padre mi ha insegnato ad avere pazienza. Mia madre mi ha spiegato che non sempre è bene aspettare». «Dal mio vicino Arturo ho imparato a buttarmi. Però mia zia Luisa mi dice sempre “non metterti nei guai”» (Fig. 48


La potenza di ciò che il piccolo riconosce in ogni consapevolezza o capacità sta nella loro relatività: “non c’è un minuto da perdere”, ma a volte la calma è la cosa migliore; vincere è un’emozione bellissima, ma bisogna anche saper perdere; non si può avere tutto ciò che si vuole, ma non bisogna mai smettere di desiderare. Insomma, non ci sono un bene o male assoluti, ma ogni situazione richiede di prendersi la responsabilità della propria scelta. E ogni diversa persona che incontriamo, a suo modo, può donarci il proprio relativo sguardo sul mondo dal quale, nel bene e nel male, possiamo sempre imparare qualcosa.

E dopo la morte? 


La vita è tutta qui, o c’è altro? L’uomo sente che c’è qualcosa che va oltre il suo corpo, che non muore con lui, ma prosegue il suo viaggio. Questo viaggio è sconosciuto, e quali che siano le possibili versioni offerte dalle varie culture, credenze e religioni, altro non sono che simboli, immagini, narrazioni. L’albo illustrato Aldilà149, di Silvia e David Fernández e Mercè López, mette in scena le acrobazie degli animali del circo Galassia, i quali, visto il loro mestiere sempre in bilico tra la vita e la morte, sono piuttosto incuriositi dall’argomento: «Cosa ci sarà dopo? Come sarà l’aldilà?». Ognuno di loro ha una propria risposta, facilmente riconducibile ad alcune delle credenze culturali, religioni o ideologie diffuse nella storia umana: «Angelo, il pesce funambolo, crede che dopo la morte andiamo in cielo e che lì possiamo rivedere tutti coloro che abbiamo amato». (Fig. 49


Al contempo Gino, il cane cannone, crede che si vada in cielo per tornare solo in certi periodi dell’anno – il Día de los muertos o Giorno dei morti messicano –; Fatima, la maga del deserto, immagina il giardino dell’Eden, mentre Geronimo, il Coyote di campagna, come i Nativi americani propende per diventare uno spirito capace di comunicare con i viventi attraverso i quattro elementi. E poi riconosceremo le credenze dell’Antico Egitto, l’Eterno ritorno nietzschiano, la reincarnazione, il Nirvana e altre ancora. Le varie proiezioni dei personaggi del circo Galassia sono “verità” per molti individui che abitano o hanno abitato il nostro pianeta, ma di fatto altro non sono che immagini, metafore, narrazioni – finzioni appunto –, alle quali si ha più o meno bisogno di credere per trovare risposte e rassicurazioni all’interno del complesso mistero in cui ci troviamo a navigare.

Dunque, dove si va quando si muore? Quando un bambino ci fa questo tipo di domande non è utile né saggio mentire, poiché la bugia crea confusione, disallineamento e sfiducia. Ma trovandoci di fronte all’impossibilità di risalire a un’effettiva verità, cosa significa “mentire”? Dire la verità su tutto ciò che della morte riguarda la sfera non biologica è impossibile. Lo spirituale è esprimibile solo attraverso metafore. Un po’ come accade dentro alla rilegatura dei libri di Suzy Lee, o nel viaggio del coccodrillo nell’oltre-lavatrice della Zoboli, e dentro al libro di Nina e Teo, siamo in una dimensione misteriosa nella quale non possiamo davvero sapere. Non c’è oggettività, c’è un mistero, di fronte al quale possiamo solo avere un atteggiamento poetico, fatto di storie, metafore, immagini, elementi fantastici con cui i piccoli hanno familiarità e che fanno da ponte tra l’immaginazione e la realtà. 


La fatica adulta nel dare risposte convincenti e rassicuranti ai bambini sulla morte, se da una parte può condurre alla costruzione di tabù che lasciano solo il bambino con le sue domande, dall’altro potrebbe tradursi «in un atteggiamento eccessivamente realista, che non permette al bambino di giocare con le sue illusioni»150. Quando i bambini fanno domande sulla vita e sulla morte è necessario tenere presente che 


L’attrezzatura mentale è diversa tra adulti e bambini, e rispetto all’impatto con la morte, non solo è maggiore o minore la capacità di pensiero, ma è il pensiero a essere di tipo diverso e diversamente recettivo con il procedere dell’età. Il bambino piccolo si avvale da un lato di un pensiero spietatamente logico, che può spiazzare l’adulto, dall’altro lato però ha ancora bisogno, più dell’adulto, dello spazio dell’illusione. L’illusione permette al bimbo di sapere senza sapere, di creare un mondo col quale sia possibile misurarsi gradualmente.151

Due esempi su tutti. Nell’albo illustrato La nonna addormentata152, scritto da Roberto Parmeggiani e João Vaz de Carvalho, un bambino narra quella che è la sua personale interpretazione dei comportamenti sempre più bizzarri della propria nonna. 


Come mai prima lei gli raccontava le storie, cucinava biscotti e gli comprava le figurine, e ora invece la si può sorprendere a ballare il valzer in salotto o a strappare fiori dal giardino per cucinare chissà quale fantomatica zuppa? Il piccolo cerca di spiegarsi cosa stia succedendo: «La mia nonna dorme. La mia nonna dorme tutto il giorno. La mia nonna dorme tutto il giorno, da un mese». La mamma gli suggerisce che la nonna «è come la Bella Addormentata, aspetta un principe azzurro che le dia un bacio per svegliarla». Ed è proprio questa “l’illusione” che lui si porterà dentro quando la nonna non ci sarà più, per raccontarsi una storia bella, consolatoria, che lo aiuti a gestire la mancanza e il dolore. «Ora non sogna più. Vola in alto con gli aquiloni. Nuota nel profondo del mare. Beve un sacco di limonata. E prepara tonnellate di pane». (Fig. 50)

Nell’albo illustrato L’isola del nonno153, di Benji Davies, il nonno porta con sé il nipotino Syd su una ridente e vivace isola tropicale sulla quale, lo informa, ha deciso di fermarsi a vivere. Il piccolo chiede: «Ma non ti sentirai solo?». Il nonno è sicuro di no: sull’isola sta così bene da non avere nemmeno bisogno del bastone per camminare e in più, a quanto svelano le immagini, può contare sull’ottima compagnia degli animali della giungla, di buona musica e di molti libri. Una sorta di paradiso, insomma. Dopo essersi salutati e abbracciati, il piccolo affronta il viaggio di ritorno imbarcandosi da solo e navigando in un livido mare burrascoso, a segnalare l’inevitabile momento di trambusto emotivo che il piccolo si trova a fronteggiare a seguito di questa separazione. Una volta rientrato, Syd torna a visitare la casa del nonno ormai vuota e proprio in quel momento, “toc toc”, un tucano bussa alla finestra della soffitta recapitandogli una busta. All’interno, una fotografia del nonno che saluta sorridente, tra colorati amici animali e squisiti frutti tropicali. 


Queste storie non hanno alcuna pretesa di fornire risposte sul mistero della vita, della morte, dell’aldilà: se così fosse non sarebbero altro che fandonie, mistificazioni, e dunque rappresenterebbero un tradimento. Le belle storie, invece, offrono un vocabolario e un immaginario importanti sulla morte e sul lutto, in cui i bambini possano esplorare liberamente queste dimensioni, nel rispetto della loro attrezzatura mentale, del loro linguaggio, delle loro emozioni e dei loro bisogni. Il mondo fiabesco in cui cavalca felicemente la nonna, o l’isola tropicale in cui sceglie di rimanere il nonno degli albi illustrati appena visti, non sono immagini così distanti da quelle offerte dalle varie filosofie o religioni culturalmente condivise. Sono semplicemente storie diverse, che però raccontano la stessa fiduciosa e rassicurante visione di un aldilà felice in cui sia bello continuare la vita, dopo la vita.

E prima di nascere? 


L’esplorazione dei bambini sul mistero della vita trova espressione in molte di quelle domande che spesso i figli pongono ai genitori rispetto alla propria nascita. «Perché si nasce? Come sono nato? Da dove vengo? Dov’ero prima di nascere?». Il loro campo d’indagine non sta necessariamente nella sfera anatomica e genetica, le cui risposte possiamo trovare nei manuali di educazione sessuale. Quella che loro vanno esplorando, in realtà, è una dimensione che concerne lo spirito, molto più che il corpo. Ho un ricordo personale di quando mio figlio, di allora circa 4 anni, mi “informò” che, prima di nascere, lui era “nella poesia”. Ancora oggi mi chiedo cosa significasse per lui questa espressione, ma una cosa la so per certo: aveva ragione. 


La risposta della letteratura per l’infanzia alla domanda «da dove veniamo?» è intensa, emozionante, capace dei riverberi che l’interrogativo pone: veniamo da molto, molto lontano, ecco da dove [...] È del Prima, dell’Inizio, dell’Origine che i bambini non si stancano, nemmeno se nascono negli anni duemila, di voler sapere, e voler sapere come di qualcosa che li riguarda ancora, giustamente. È a quel passato che si confonde col Mito che sono interessati, intuendo che là si trova la verità a cui solo lentamente, faticosamente, prima o poi forse anche la scienza giunge.
La letteratura – che dal Mito deriva – racconta/ricorda che siamo terra, aria, fuoco, acqua che siamo passati attraverso il cielo e le stelle, il Sole e la Luna, il mare e i suoi flutti, le foreste della Terra, gli animali della giungla. Che ci portiamo l’universo intero dentro, quando giungiamo qui [...]154

La vita è metamorfosi e tutto è Uno, da ben prima che la vita nascesse sulla Terra. Che siamo “polvere di stelle” lo dice la letteratura certo, ma ora lo confermano anche le scoperte dell’astrofisica e della chimica, con linguaggi diversi ma forse, a ben guardare, altrettanto poetici. Stefano Bordiglioni nel suo delicatissimo Polvere di stelle155 riporta un rassicurante e accogliente dialogo tra un bambino e la sua mamma. «– Mamma, ma io dov’ero prima di nascere? – Su una stella, piccolo mio. – E che facevo sulla stella? – Aspettavi. – Che cosa aspettavo? – Aspettavi che io e il papà ti venissimo a cercare. Aspettavi di nascere». Ogni bambino chiama i propri genitori da lassù, e loro sentono il richiamo e costruiscono una lunghissima scala per farlo scendere. Così come fanno anche le piante, il gattino di casa e tutti gli altri animali, dallo squalo allo scarafaggio. «Tutti noi esseri viventi siamo fatti di polvere di stelle e aspettiamo lassù, da qualche parte dell’universo, che l’amore di una mamma e di un papà ci faccia nascere». E quando un fiore appassisce o qualcuno muore? Si torna a essere polvere di stelle, nuovamente in attesa che l’amore chiami e si torni a nascere dai propri genitori, incarnati forse in una nuova e diversa forma, ma comunque sempre insieme. 


Ed è ancora dalle stelle che inizia il racconto di Ascolta, mamma156, meraviglioso albo illustrato di Sachie Hattori, portato in Italia dalla casa editrice specializzata in libri giapponesi kira kira. «Ascolta, mamma, prima che me ne dimentichi, c’è una cosa che ti vorrei raccontare. Non ti sorprendere, è la mia storia… prima di nascere». È una bambina che rievoca e confida alla propria mamma il viaggio che anche lei, come tutti i bambini del mondo, ha intrapreso prima di nascere per arrivare fin qui, sulla Terra. Con candore, senza giri di parole, le spiega che i puntini scintillanti visibili nel cielo in realtà sono loro, i bambini, frammenti di stelle esplose nello spazio. Poi una nave passa a prenderli, qualcuno racconta loro quanto meraviglioso e contemporaneamente difficoltoso potrà essere il mondo sul quale andranno a vivere, ognuno nella propria casa, dai propri genitori. Fra le righe si intuisce che sono i bambini a scegliere dove approdare, come piccoli individui dotati di intenzione ancor prima di incarnarsi. «È così. 


La strada per venire al mondo è più difficile di quanto si pensi. Però, noi non ci siamo persi neppure una volta, nemmeno nella giungla più intricata». La piccola spiega che tutti i bambini viaggiano insieme, condividendo l’eccitazione e le fatiche, aiutandosi l’un l’altro, uniti, coraggiosi, pieni di speranza. «Ascolta, mamma, la storia di questo meraviglioso viaggio noi la dimenticheremo, perché il viaggio che inizia quando si viene al mondo è molto più lungo e molto più incantevole». Il dimenticare ciò che avviene prima di nascere è uno dei motivi guida di molte narrazioni e filoni di pensiero. Lungi dal rappresentare la visione comportamentista della mente come tabula rasa sulla quale poter scrivere partendo da zero, la nascita appare piuttosto come il reset da un bagaglio di conoscenze pregresse, e la vita come il progressivo ritorno verso un antico sapere, che precede e accomuna tutti gli uomini, da sempre e per sempre. Dunque la vita, più che un andare, è in realtà un tornare: alla coscienza, all’Essere, all’Uno.

NOSTALGIA

lo trovò sulla riva, seduto:
con gli occhi sempre bagnati di lacrime,
consumava la sua vita sospirando il ritorno 


Omero

Se la tristezza è l’emozione della perdita, la nostalgia è l’emozione della separazione. Essa ci muove nella direzione del ricongiungimento, del ritorno all’unione.
Se la tristezza ci chiede di lasciar andare, la nostalgia ci chiede di ritrovare.
Se le lacrime della tristezza sciolgono i legami col passato per lasciarci liberi di proseguire il nostro cammino, le lacrime della nostalgia, come le pietruzze bianche di Pollicino, brillano nella notte per riportarci a casa. Potremmo dunque dire che la tristezza ci spinge verso il futuro dandoci la consapevolezza che ciò che è passato non può più ritornare, mentre la nostalgia ci riporta indietro al trascorso e al lontano, con la speranza di ripristinare una condizione originaria. La tristezza dice: non puoi più essere ciò che sei stato, la nostalgia dice: torna ad essere! 


Ma come? – direte voi – ci avete detto che tutto scorre, che non possiamo mai immergerci due volte nello stesso fiume perché l’unica realtà è il cambiamento, che dobbiamo lasciar andare, accettare il lutto quotidiano e ora ci parlate di nostalgia? Che razza di emozione è questa, se contraddice il movimento della vita? A che serve? 


Possiamo provare nostalgia per molte cose, ma nel profondo la nostalgia è sempre rivolta a uno stato interiore: unità. I luoghi, le persone, gli oggetti per cui proviamo nostalgia sono solo forme attraverso le quali cerchiamo di ri-sentire, di ri-vivere l’originaria unità prima della separazione, prima della definizione, prima della forma. La nostalgia è sempre nostalgia di Essere. 


Apparentemente la nostalgia si rivolge indietro al trascorso e al lontano, ma in realtà essa ci spinge a intraprendere il viaggio verso il qui e verso l’ora. La nostalgia ci muove verso l’immoto, ci chiede di morire alle definizioni che compongono il nostro io per poter essere eternamente vivi, rivela la sacralità della separazione richiamandoci all’unione. È soggettività pura che richiama se stessa attraverso il suo rivelarsi negli oggetti. La nostalgia è memoria dell’essere Uno. Ci ricorda ciò che siamo e ci riporta a casa, nel profondo di noi stessi là dove tutto è uno. La nostalgia è la Coscienza di Essere che si rivela all’Io. Essa ci impone una scelta: rimanere identificati con la forma nel mondo delle forme, o lasciarci frantumare strato dopo strato, per Essere (si veda l’approfondimento Io: chi? Conosci te stesso, p. 20 ). La nostalgia è l’emozione dell’anima che ricorda l’origine e che vuole tornare. Dove? Dove già È.

Rappresentazione letteraria di questo sentimento di nostalgia del ritorno all’unità potrebbe essere il capolavoro La pietra blu157 (nel titolo originale The Blue Stone: A Journey Through Life) dell’autore taiwanese Jimmy Liao, il cui tentativo di rilettura richiederebbe ben più di qualche riga. Nell’incipit del racconto un’enorme masso color cobalto giace da migliaia di anni nel mezzo di una rigogliosa foresta: «Le piace questo luogo, crede che rimarrà qui per sempre». Ma la foresta viene devastata da un incendio e, come se non bastasse, quando stava per ristabilirsi un nuovo equilibrio, un macchinario umano giunge e spacca a metà la pietra: «una parte rimane nel luogo d’origine, l’altra viene rimossa» e portata molto lontano dalla foresta, dalla sua casa. «Appena comincia il viaggio, già sente la nostalgia». 


Da qui in poi assistiamo alle ripetute lavorazioni che l’intervento umano farà subire alla pietra, trasformandola dapprincipio in una statua a forma di elefante, poi in una fontana a forma di uccellino, in un’installazione in riva al mare e così via, fino a diventare un piccolo ciondolo a forma di cuore. A ogni metamorfosi, per qualche momento la pietra giace serena dove si trova, ma poi un evento doloroso altrui (una bimba che si smarrisce, la morte di una vecchia signora, il naufragio di un fidanzato in mare, la fine di un amore, tutti simboleggiati con diversi particolari dello stesso colore cobalto) spezza la pace e l’equilibrio: «Sopraffatta da un’intensa nostalgia, in un istante va in frantumi». (Fig. 51


La pietra si abbandona al desiderio lacerante di tornare alla propria casa nella foresta e si frantuma sempre più, finché della sua forma non resta altro che polvere. La polvere viene quindi trasportata dal vento nella foresta, dalla sua metà, dove infine può ritrovare la pace. Dove può tornare a essere Uno.

Nello scorrere delle pagine di questo nostro libro abbiamo parlato, attraverso diverse vie, di speranza, spiritualità, creatività, meraviglia. Tutti questi aspetti contemporaneamente sono rappresentati nell’albo Bisognerà158, di Thierry Lenain e Olivier Tallec, che inizia con queste parole: «Il bambino era seduto là, sulla sua isola. Guardava il mondo e rifletteva». La collina fiorita, metafora del ventre materno, sulla quale sta seduto in contemplazione, rappresenta una dimensione di pre-vita che il bambino abita prima di decidere di nascere. (Fig. 52


Da quel punto di osservazione altro, alto, distante, protetto, il piccolo inquadra una lucida panoramica delle offese che l’uomo impone al suo stesso mondo: inquinamento, miseria, ingiustizie, guerre. Lo sguardo fresco dell’infanzia che lui rappresenta, creativo e propositivo per natura, si adopera per immaginare tutte le possibili soluzioni: le canne dei fucili dei soldati potrebbero diventare «posatoi per uccelli e flauti per pastori»; basterebbe «imparare a spartire il denaro, il pane, l’aria e la terra»; varrebbe la pena concedersi di «dire ti amo, anche senza averlo mai udito»; davanti alle carestie, «Bisognerebbe prendere le nuvole al laccio per farle piovere sui deserti. E scavare fiumi d’acqua e di latte». Possono sembrare nient’altro che sogni infantili impossibili da realizzare, chimeriche utopie. Ma se così è davvero, allora si dovrà riportare alla realtà William Kamkwamba159, ragazzino malawiano che a soli 14 anni ha inventato un mulino a vento per rifornire la propria casa di elettricità, usando solo legno d’eucalipto e materiali di recupero, e che successivamente ha costruito una pompa d’acqua portando per la prima volta acqua corrente potabile al suo villaggio. Bisognerà andare a dirgli che non avrebbe dovuto sperare, sognare e realizzare ciò che si diceva fosse impossibile. È proprio vero: a volte il confine tra la finzione narrativa e la vita, tra sogno e realtà, è così sottile da non sussistere quasi più.

Quanto detto finora riporta alla mente la “teoria della ghianda” esplicitata ne Il codice dell’anima di James Hillman, la quale: 


[...] intraprende una strada nuova a partire da una idea antica: ciascuna persona viene al mondo perché è chiamata. [...] Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di essere venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino. [...] noi ci siamo scelti il corpo, i genitori, il luogo e la situazione di vita adatti all’anima e corrispondenti [...] alla sua necessità. Come a dire che la mia situazione di vita, compresi il mio corpo e i miei genitori che magari adesso vorrei ripudiare, è stata scelta direttamente dalla mia anima, e se ora la scelta sembra incomprensibile è perché ho dimenticato.160

La teoria di Hillman riassume con chiarezza le tre dinamiche che regolano la vita umana: la libertà, il caso e la necessità. La nostra anima prima di incarnarsi sceglie un daimon – una vocazione, un destino – del quale noi dobbiamo prenderci la responsabilità, nella consapevolezza che 


gli accidenti della vita, compresi il mal di cuore e i contraccolpi naturali che la carne porta con sé, fanno parte del disegno dell’immagine, sono necessari a esso e contribuiscono a realizzarlo.161 


Che tale teoria sia “vera” o meno ha poca importanza. Come le tante altre narrazioni che l’uomo racconta ad altri uomini, anche questa è data per cercare di dare un senso alla complessità delle cose, per coscientizzare il mistero in cui navighiamo a vista e trovare proprie e utili risposte: 


considerando la nostra persona come un esempio di vocazione, il nostro destino come manifestazione di un daimon, guardando la nostra vita con la sensibilità immaginativa con la quale leggeremmo un romanzo, forse placheremmo l’ansia, la febbre, l’assillo di risalire a tutti i costi alle cause. Simili al cane che si morde la coda, siamo ossessionati dalla domanda «Perché?», cui subito segue la sua gemella, non meno ossessiva, «Come?» – come fare per cambiare. La ricerca della felicità diventa la ricerca di risposte alle domande sbagliate.162 


Si torna dunque all’incipit di questo nostro libro: la ricerca della felicità. Le cui vie passano per la consapevolezza che la vita così com’è, nei suoi giochi imprevisti e necessari e nella nostra libertà di imparare a padroneggiarli, è una storia meravigliosa da leggere. Dentro e fuori le pagine dei libri.

Leggere l’inatteso
Leggere l’inatteso
Irene Greco
Cambiamento, distacco, morte e lutto narrati negli albi illustrati. Un’accurata selezione di albi illustrati per affrontare temi come il distacco, la morte e il lutto grazie al potere della finzione narrativa e dell’immaginazione. Con interventi di counseling per instaurare una comunicazione efficace e rassicurante.