capitolo 6

L’altro: porte aperte, porte chiuse

Torniamo a una delle domande che ci siamo posti qualche capitolo fa: chi sono io? Scrive Silvia Vecchini nel già citato Una frescura al centro del petto


Raimon Panikkar, autore di un piccolo libro intitolato L’altro come esperienza di rivelazione, direbbe che prima di essere il “prossimo”, il “fratello”, l’altro è una parte di noi che non conosciamo, l’altera pars che è in ognuno di noi: «L’altro è quella dimensione nascosta e sconosciuta che fa parte di me e che io, quando penso in una certa forma, vedo come esterna a me stesso».92 Avvicinarsi, aprirsi all’altro richiede necessariamente di avvicinarsi a se stessi. Questi due cammini procedono insieme e si illuminano a vicenda.93 


Non è possibile definire se stessi se non in relazione con l’Altro.

Sempre in casa Topipittori, l’albo illustrato Gli altri94 offre un ritratto di ciò che l’umanità rappresenta: un mosaico di persone tutte diverse eppure uguali, tutte uguali eppure diverse, che si muovono e agiscono essendo contemporaneamente ciascuno Sé per sé, e ognuno l’Altro per gli altri. Quello offerto dalle autrici Susanna Mattiangeli e Cristina Sitja Rubio è uno sguardo da fuori e da dentro, da vicino e da lontano, una fotografia che per quanto scattata dall’alto non riesce a immortalare tutto e tutti in un solo scatto perché… gli altri sono così tanti! «Hanno molte teste, molti piedi, molti odori. Hanno corpi di tutti i tipi, con molti vestiti, pochi o anche nessuno». Possono venire da altri paesi, avere idee, usanze, corpi e abbigliamenti molto diversi, e ciò non cambia il fatto che anche loro «Fanno quello che fai tu, ma lo fanno in tanti. E lo fanno a modo loro, che è il modo degli altri». Non viene espresso alcun giudizio, nessuna morale. Si denota con obiettività e franchezza che gli altri «Ci piacciono molto, oppure per niente; ci fanno paura o ci fanno ridere. Non sappiamo chi sono, non abbiamo mai parlato con loro, non sono noi: sono gli altri». Sono i Non-Io, i Non-Noi. Che siano i benvenuti! Oppure no? 


Tutta questa diversità non è così facile da accogliere, perché implica accettare un rischio: l’Altro è lo sconosciuto da imparare a conoscere, il “fuori da me” che non posso controllare, il “diverso da me” da accogliere o rifiutare, forse amico, forse nemico. Diffidenza, paura, sfiducia subentrano allora all’apertura, scatenando atteggiamenti di sospetto e ostilità. Ma al pari della scommessa che l’alterità rappresenta, anche la chiusura ha un suo prezzo da pagare, ben più alto e rischioso: si riduce, o viene a mancare del tutto la possibilità di espansione, innovazione e crescita cui l’esperienza del contatto con la diversità conduce.

Le idee, le prospettive, le capacità e competenze che non sono le mie, che vengono da fuori dunque sono diverse e nuove, possono rappresentare forme fondamentali di liberazione e salvezza. Ne Il muro in mezzo al libro95, l’autore americano Jon Agee gioca con il limite dato dalla rilegatura del libro, disegnandoci sopra un muro di mattoni alto più del libro stesso. Nella pagina a sinistra, un piccolo cavaliere in armatura crede di essere nel posto “giusto”: il muro protegge il suo lato, quello sicuro, dall’altro lato, quello pericoloso. Il lettore, dal canto suo, nelle illustrazioni vede qualcosa che l’ignaro cavaliere non coglie, traducendo una situazione totalmente opposta: la sua pagina si sta allagando pericolosamente, portandogli appresso pesci sempre più minacciosamente grossi. A destra del muro, invece, personaggi apparentemente temibili, capiscono la situazione e contro ogni aspettativa si adoperano per trarlo in salvo. Come a dire: trincerarsi nella sicurezza non è sinonimo di salvezza. 


L’architettura degli spazi in cui abitiamo dice molto a proposito della nostra “architettura interna”, dei modi personali di stabilire o meno confini con il mondo esterno: muri, recinzioni, sistemi di allarme, porte, finestre, sono tutti elementi che, andando a definire strutturalmente l’abitazione, sanciscono una delimitazione tra il dentro e il fuori, tra noi e gli altri. E come tali elementi fisici rappresentano metafore dei nostri processi mentali, alla stessa stregua i muri, le porte e le finestre degli albi illustrati diventano simboli di questi stessi atteggiamenti di apertura o chiusura che i personaggi delle storie instaurano gli uni verso gli altri. Ne L’ospite inatteso96, dell’autrice Antje Damm, accediamo fin dai risguardi iniziali in una stanza grigia, perfettamente linda e ordinata, con finestre e porte sigillate: Elsa, la proprietaria, è una signora spaventata da tutto e tutti, che si barrica in casa per evitare qualsiasi imprevisto. Il quale però inevitabilmente entra, non appena uno spiraglio glielo permette, nella forma di un aeroplanino di carta lanciato da chissà chi. «Questo coso non può assolutamente restare qui!», dice Elsa, e lo incenerisce nel forno. Ma a nulla vale il suo tentativo di asserragliamento, perché il proprietario dell’aeroplano, un bambino piuttosto intraprendente, l’indomani bussa alla sua porta e, come niente fosse, chiede di entrare in casa per fare pipì. Che fare? Aprire o chiudere? Accogliere o lasciare fuori? Elsa cede, permettendo così a se stessa di trasformare l’intruso in un ospite inatteso, inaspettatamente portatore di colore, contatto e rinnovata vitalità.

Parabola perfetta della possibilità di espansione cui la liberazione dalla paura del nuovo e del diverso può condurre, è veicolata dal capolavoro Una zuppa di sasso97, di Anaïs Vaugelade. Anche qui una porta chiusa, quella della casa della gallina, alla quale bussa, sacco in spalla, un grosso lupo nero che chiede ospitalità per poter preparare la sua zuppa di sasso. La gallina è comprensibilmente spaventata, ma al contempo curiosa: non ha mai conosciuto un lupo vero, ne ha solo sentito parlare nelle storie. E non ha mai nemmeno assaggiato la zuppa di cui lui parla! Decide di aprire la porta. 


L’autrice è abilissima a tratteggiare tra parole e figure le immagini di una relazione, che sembra impossibile, tra una facile preda apparentemente poco sagace, e un predatore la cui nomea lo precede da secoli. Ma appunto, sembra impossibile. Il maiale, l’oca, il cavallo e tutti gli animali che, allertati, giungono a casa della gallina per prestarle soccorso rappresentano sì la coesione della comunità di fronte al potenziale pericolo, ma anche la pietas verso il pellegrino bisognoso di ospitalità, la curiosità verso il forestiero, la tentazione verso l’inaspettato e le novità che apporta. La zuppa è pronta e contiene, sasso a parte, gli ingredienti che ciascun ospite ha proposto di aggiungere: sedano, zucchine, porro e altre verdure squisite. I commensali si riuniscono intorno al focolare discutendo, raccontandosi barzellette e bevendo vino, mentre il lupo si riappropria del sasso e, così com’è arrivato, inaspettatamente se ne va. Nulla di grave è accaduto e anzi, una magia ha avuto luogo: quella dell’incontro.

Il modo in cui scegliamo di approcciare l’altro, al pari di ogni innovazione e possibilità di cambiamento, crescita ed espansione, è una scelta che definisce la qualità della vita nostra e di tutta la nostra specie. 


[...] in misura minore o maggiore, tutti abbiamo o possiamo sviluppare la facoltà di entrare in contatto con un altro essere umano. E in quel contatto si accendono nuove possibilità, circola energia, si apre un nuovo mondo.
Oppure no. Possiamo erigere muri e trovarci davanti ad altri muri, e considerare questo modo di vivere più facile e più pratico. Dopo tutto, i nostri simili possono essere una complicazione. La nostra vita però diventa più povera, perché manca del nutrimento che gli altri ci possono dare. Manca di stimoli, di punti di vista diversi, di emozioni nuove.98 


Nell’albo Intrusi99, di Alfredo Soderguit, si narra di un pollaio nel quale tutto sembra organizzato, confortevole e sicuro. Sembra, appunto, perché la tavola in cui leggiamo che lì «non succedeva mai niente di strano» ci restituisce l’immagine del fattore che ha appena prelevato una gallina per, evidentemente, farne cibo per sé. Siamo davvero così sicuri, laddove ci sentiamo sicuri perché nulla di nuovo accade? I capibara che giungono al pollaio spezzano la stabilità della situazione: «Nessuno sapeva chi fossero, nessuno li stava aspettando. Erano tanti, pelosi, bagnati, troppo grandi. NO! Per loro non c’era posto!». Il racconto ci pone di fronte a un incontro imprevisto, che scuoterà alle fondamenta le abitudini di un pollaio – luogo recintato, statico, “mortale” – per rivelarsi occasione di liberazione e salvezza. E non esclusivamente per se stessi.

Amico che vieni, amico che vai 



Caro amico, ti scrivo,
così mi distraggo un po’
E siccome sei molto lontano,
più forte ti scriverò

Lucio Dalla 


Circa 2500 anni fa, il filosofo Aristotele definì l’uomo un animale sociale, ovvero una creatura portata per natura a stare in contatto con l’altro e a creare forti legami con i propri simili. Non sorprende dunque che nelle sue opere abbia sempre attribuito un valore speciale all’amicizia, come risorsa fondamentale di confronto, arricchimento e formazione.


Gli esseri umani fin dalla prima infanzia sono propensi a creare amicizie: i bambini già dai primi mesi di vita mostrano di essere attratti dagli altri bambini e di voler stabilire con loro un contatto. I primi approcci e dinamiche sono rudimentali e principalmente unidirezionali, ma proprio a partire da qui si costruiscono e si allenano gradualmente le competenze dell’amicizia vera a propria. Eppure, come detto, non è così immediato concedere spazio agli altri nella propria vita: lo sanno bene i bambini, quando nasce un fratellino o sorellina; quando un nuovo amico subentra in una relazione a due; quando un qualsiasi elemento “incomodo” venga ad attivare un conflitto territoriale.

HEY, BRO!
sulle relazioni e sull’essere amici

La vita è relazione. Le nostre relazioni definiscono la nostra vita: la qualità della nostra vita dipende dalla qualità delle nostre relazioni, che a sua volta dipende dalla qualità della nostra vita. Veniamo nutriti, forgiati, orientati dalle relazioni che ingaggiamo con ciò che ci circonda, dalla quantità e dalla qualità degli scambi che abbiamo con l’esterno, in particolar modo con gli esseri viventi altri da noi. Non è possibile nutrire i nostri bisogni fuori da una relazione e sono proprio i bisogni che ci spingono ad entrare in relazione e che ne definiscono le regole di ingaggio. In particolar modo nelle relazioni umane è il motivo dell’innesco, conscio o inconscio, che ne determina i limiti e le possibilità di scambio, la distribuzione del potere e della responsabilità, ciò che può, che non può o che deve necessariamente accadere affinché la relazione abbia senso e sia funzionale alla vita di coloro che la abitano.

Ogni relazione è definita da tre direttrici: 

  1. il campo
  2. lo scopo
  3. la distribuzione del potere e della responsabilità rispetto allo scopo

Quando entriamo in relazione con qualcuno, per poterci muovere all’interno di essa con efficacia, dobbiamo tenere ben presenti le tre direttrici lungo le quali essa si sviluppa.

IL CAMPO 


La prima domanda che dobbiamo porci riguardo a una relazione è: in quale campo si gioca? Ci sono essenzialmente due campi di gioco relazionale, territorio e nido, che corrispondono ai due obblighi biologici cui ogni essere vivente è sottoposto: sopravvivi e manda avanti la vita. 


C’è una grandissima differenza tra i due campi che riguarda i principi di compensazione energetica. Nel campo del territorio, che serve l’imperativo di sopravvivenza ed è sotto il controllo dell’istinto di autoconservazione, a ogni investimento energetico dell’individuo in un’azione deve corrispondere una compensazione, temporalmente ravvicinata in termini di soddisfazione dei bisogni individuali, pari o superiore all’investimento effettuato. Se ciò non accade l’individuo non sopravvive. Un leone non può inseguire a lungo una preda senza mangiarla. Tradotto in termini umani: non si può lavorare senza essere equamente retribuiti. Nel campo del territorio, quindi, vigono i contratti che sanciscono a priori i termini della compensazione economica dell’azione. Le relazioni che accadono nel campo del territorio devono sempre prevedere contratti chiari e condivisi. Nel campo del territorio valgono le leggi dell’economia. 


Nel campo del nido, invece, che serve l’imperativo di mandare avanti la vita oltre la nostra sopravvivenza individuale ed è sotto il controllo dell’istinto sessuale, l’investimento energetico dell’individuo in un’azione non viene necessariamente compensato in termini di soddisfazione di bisogni individuali né in termini di temporalità ravvicinata. L’investimento nel campo del nido è possibile ove ci sia un surplus energetico personale sufficiente a sostenere un investimento a medio/lungo termine e ad altissimo rischio, che verrà goduto da altri da noi e la cui compensazione è fluida e non garantita. Forse per questo la natura ha inventato il piacere come forma di risarcimento immediato e l’attaccamento come forma di garanzia di compensazione a lungo termine. Nel campo del nido valgono le leggi dell’amore.

LO SCOPO 


Lo scopo è l’innesco della relazione. Perché? Quale categoria specifica di bisogni serve questa relazione? Quali obiettivi specifici permette di raggiungere a me e all’altro? 


Le relazioni iniziano con uno scopo e finiscono all’esaurirsi di tale scopo; sono sane, funzionano e possono durare quando chi le abita ha chiarezza, accordo, convergenza e compatibilità/ complementarietà rispetto ai reciproci scopi; possono trasformarsi e rinnovarsi qualora si aprano per esse nuovi orizzonti di senso. Se mancano questi presupposti le relazioni finiscono per essere campi di battaglia in cui ognuno tenta di manipolare l’altro per piegarlo ai propri scopi personali. In tutte le relazioni è necessario essere consci del contratto relazionale implicito o esplicito: perché sono qui? Perché sei qui? Cosa mi aspetto? Cosa ti aspetti? Cosa siamo disposti a mettere in campo in questa relazione? Essere partner o essere amici, essere soci o essere clienti, ad esempio, implicano contratti completamente diversi perché servono scopi completamente diversi.

LA DISTRIBUZIONE DEL POTERE E DELLA RESPONSABILITÀ 


Nelle relazioni sane la distribuzione del potere è strettamente legata alla responsabilità ovvero alla capacità di risposta rispetto allo scopo. Colui che possiede maggiori abilità di risposta rispetto allo scopo relazionale ha maggiore responsabilità e quindi maggiore potere. Lo squilibrio di potere determina la verticalità della relazione, mentre l’equilibrio di potere determina l’orizzontalità della relazione. Se tra genitori e figli o tra capo e collaboratore la relazione è evidentemente verticale, tra soci o tra partner è necessario che sia orizzontale affinché funzioni. Date queste premesse, cosa significa essere amici? Cerchiamo di rispondere a partire dalle tre direttrici. 


Qual è il campo dell’amicizia? 

Il campo dell’amicizia è quello del nido. L’amicizia presuppone l’amore e la gratuità. Il corrispettivo dell’amico nel campo del territorio è l’alleato. Vi è un’enorme differenza tra un alleato e un amico: non necessariamente amiamo i nostri alleati, ma esigiamo con essi contratti chiari di reciproco sostegno (do ut des), mentre il presupposto dell’amicizia è l’amore e la gratuità del dare e del ricevere. Ciò non significa che nell’amicizia non valga il principio di compensazione (che è principio inviolabile della biologia), ma il suo rispetto è affidato non a contratti che quantificano lo scambio bensì a un sentire interno di tipo qualitativo. 


Qual è lo scopo dell’amicizia? 

Lo scopo dell’amicizia è costruire una rete di protezione e sostegno formata da legami d’amore che espanda le nostre possibilità di affrontare con successo le situazioni in cui la vita ci implica. Amico è colui che è presente nel nostro cuore e nel cui cuore siamo presenti, che mette la sua forza (in termini di risorse, competenze e alleanze) al servizio della nostra vita; colui che c’è anche e proprio quando non abbiamo nulla da dare ma solo bisogno di ricevere; che ha il coraggio della verità anche quando è scomoda e dolorosa, poiché essa espande la nostra consapevolezza rendendoci più responsabili. 


Come si distribuisce il potere all’interno dell’amicizia? 

Vi deve essere equilibrio di potere all’interno dell’amicizia. Il contratto implicito è: ci sono per te, ci sei per me; io sosterrò te e il tuo cammino con tutta la mia forza e tu sosterrai me e il mio cammino con tutta la tua forza. 


Spesso si dice che un amico è il fratello che ci siamo scelto piuttosto che quello che ci è capitato. Per questo spesso gli amici si definiscono fratelli. Per questo nella nostra epoca sentiamo così spesso gli adolescenti esclamare: ciao Bro! Tuttavia c’è un’enorme differenza tra un amico e un fratello. Essa ha a che vedere con la competizione. La relazione con i fratelli è sempre in bilico tra alleanza e competizione: la spinta biologica all’alleanza è sostenuta potentemente dal legame genetico e dall’inconscio sistemico e si esplica con forza nei confronti del mondo esterno, ma è intrinsecamente intrisa di competizione all’interno del nido. Si tratta di una competizione per l’amore dei genitori, per le risorse disponibili, per lo spazio, per il rango. Caino e Abele sono l’eterno mito che rappresenta questa dinamica. I fratelli si proteggono vicendevolmente nei confronti del mondo, ma spesso all’interno del nido si combattono. L’amicizia, per contro, esclude la competizione. La competizione, fuorché nel gioco, è la fine dell’amicizia.

Uno degli albi illustrati più conosciuti, Lupo & lupetto100, di Nadine Brun-Cosme e Olivier Tallec, esplora con delicatezza proprio questa sfera relazionale: «Lupo viveva lì da sempre, da solo sotto il suo albero, in cima alla collina. Poi, un giorno, arrivò Lupetto. Veniva da lontano. Da così lontano che all’inizio Lupo vide solo un puntolino». L’arrivo del piccolo inquieta Lupo: potrebbe essere più abile di lui ad arrampicarsi? O forse dovrebbe concedergli un po’ più della propria coperta e del proprio cibo? Lupo vive un conflitto interiore nel prendere le misure con il nuovo arrivato, che prende una piega inaspettata quando Lupetto sembra essere sparito: il bisogno di contatto e relazione scavalla la diffidenza e attiva il desiderio in Lupo. «Si disse che se il lupetto fosse tornato, promesso, gli avrebbe lasciato un angolo di coperta di foglie un po’ più grande, anzi, molto più grande. E un piatto più pieno. E che, forse, l’avrebbe fatto salire sull’albero più in alto di lui, e fare tutti i suoi esercizi, anche quelli che conosceva solo lui. Si disse tutte queste cose, e anche molte altre. E continuò ad aspettare». Lupetto finalmente ricompare, e il ritrovarsi – come amici, come fratelli – uno accanto all’altro è una consolazione e una gioia per entrambi. Dalla competizione all’alleanza, dall’ostilità all’amore: darsi è già ricevere. 


Nelle dinamiche tipiche tra bambini c’è lo stabilirsi di una relazione speciale con quello che viene chiamato “l’amico migliore”, quello del cuore, con il quale si instaura un contatto rassicurante, di grande impatto emotivo e con sue specifiche funzioni nello sviluppo e nella regolazione delle abilità sociali. L’importanza del migliore amico nell’infanzia non si basa solo sul confronto positivo e sul legame affettivo, ma risiede anche nella possibilità di essere messi alla prova da litigi, incomprensioni, allontanamenti, cambiamenti che insegnano al bambino a sopravvivere socialmente. Nell’albo Amy e Louis101, di Libby Gleeson e Freya Blackwood, viene narrata l’affinità elettiva tra due vicini di casa che costruiscono un forte legame attraverso gesti e richiami rituali. Il clima è di completa complicità, gioia e sicurezza. (Fig. 27)

«Ma un giorno Amy e la sua famiglia andarono a stare lontano lontano… dall’altra parte del mondo». Cosa accade quando ci si trova a doversi separare dall’amico con cui si è stabilito questo forte legame? Cosa provano i bambini in questo allontanamento? Lo stato d’animo dei due protagonisti cambia e i colori delle illustrazioni anche: da tavole ariose e colorate si passa a illustrazioni in bianco e nero a piena pagina, i cui tagli prospettici riescono a coinvolgere il lettore nell’impattante senso di tristezza, smarrimento e solitudine che Amy e Louis, distanti tra loro, stanno vivendo. (Fig. 28


Il piccolo Louise per consolarsi cerca un modo per mantenere vivo il legame con Amy nonostante l’oceano che li separa. Si rivolge alla mamma e al papà domandando: «‘Se chiamassi Amy gridando forte il suo nome, lei mi sentirebbe, vero?’». Entrambi i genitori, distratti da altro, non riescono a rispondere adeguatamente al bisogno del piccolo: «Amy è troppo lontana», gli dicono. Sarà la nonna l’unica capace di fornire la risposta che suonerà “giusta” alle orecchie e al cuore di Louis: «‘Forse’, rispose la nonna. ‘Puoi sempre provarci’». Provarci, in questo caso, significa crederci. Credere che un richiamo riesca davvero ad attraversare il mare e arrivare dall’altra parte del mondo, da Amy, non è solo una fantasia da bambini, ma rappresenta il desiderio e la determinazione necessari a mantenere vivo un legame, attraverso ciò che di quel legame resta vivo in noi.

Nell’albo dell’autrice americana Deborah Marcero, Un barattolo di stelle102, Luis e Iris sono due coniglietti amici per la pelle, che imbottigliano in barattoli di vetro le esperienze vissute insieme: «Collezionavano cose difficili da stringere tra le mani, come gli arcobaleni, il rumore dell’oceano e quello del vento subito prima che inizi a nevicare. Cose impossibili da infilare in un barattolo. Eppure, chissà come, Iris e Luis ci riuscivano». Creano così interi scaffali con “boccette” di momenti condivisi, localizzati in un luogo sicuro tra il cuore e la memoria. 


Lì dentro sono racchiusi gli attimi e le cose meravigliose che per loro vale la pena ricordare, anche e soprattutto quando Iris si vedrà costretta a trasferirsi con i genitori, lontano da Luis. «Senza Iris il cuore di Luis era come un barattolo vuoto». Il loro luogo delle memorie condivise non si riduce a essere un mausoleo dove rimanere imprigionati nel passato: i due amici trovano il modo per continuare ad alimentarlo anche ora con altri ricordi, quelli che vivono indipendentemente uno dall’altra, e che continuano a spedirsi vicendevolmente attraverso una loro personale, intima, via di connessione. Non solo. Alla fine dell’albo l’elemento di continuità, rinascita e fiducia verso il futuro saranno nuovi barattoli – ovvero altre esperienze e ricordi –, che Luis inizierà a raccogliere e condividere con un nuovo amico incontrato casualmente nel bosco. È la vita che continua. 


I ricordi sono molto più che semplici attimi collezionati nell’archivio della memoria: sono “ponti” che collegano il presente al passato, raccontando la storia di come siamo arrivati qui. Sono i fili della nostra vita che si intrecciano con quelli altrui, cucendo il ricamo che siamo oggi. Ecco perché nessuna amicizia, nessun amore, nessuna relazione finisce mai davvero, ma continua a vivere nel tessuto della nostra identità.

Leggere l’inatteso
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Irene Greco
Cambiamento, distacco, morte e lutto narrati negli albi illustrati. Un’accurata selezione di albi illustrati per affrontare temi come il distacco, la morte e il lutto grazie al potere della finzione narrativa e dell’immaginazione. Con interventi di counseling per instaurare una comunicazione efficace e rassicurante.