Capitolo 6

Le immersioni

Il riflesso di apnea

Il riflesso di apnea è uno stimolo involontario che provoca la chiusura automatica della glottide. Fa parte di un formidabile “kit di sopravvivenza” di cui il bebè è dotato appena nato. Il pacchetto consta di ben sei “riflessi salvavita” che scompaiono quando il piccolo non risulta più in pericolo. Questione di poche settimane: il riflesso, infatti, poco alla volta si trasforma in gesti volontari. Ecco i sei riflessi involontari:

  1. Il riflesso di suzione (e deglutizione) consente al neonato di introdurre il nutrimento. Di fatto soltanto latte. Non appena è in grado di nutrirsi mettendo a sistema gli schemi motori che gli consentono di “gestire” il cibo che il genitore gli offre, muovendo la lingua, le labbra e i muscoli del cavo orale, il riflesso scompare e si passa alle famose “pappe”.
  2. Il riflesso di prensione è un automatismo che consente al bebè di prendere gli oggetti (i capelli della madre, un dito…).
  3. Il riflesso di Moro è una sorta di reazione di soprassalto. Lo si può notare quando, adagiando il bebè appena nato in posizione supina egli apre le braccia e inarca la schiena, come alla ricerca di un appiglio o sostegno. È una risposta a una situazione che viene percepita come pericolosa.
  4. Il riflesso di marcia lo si nota quando, sostenendo il piccolo in posizione eretta e facendogli appoggiare i piedi al suolo, si mette a sgambettare automaticamente.
  5. Il riflesso spinale è una sorta di contrazione che avviene sfiorando determinate zone ai lati della colonna vertebrale (lo si nota, ad esempio, quando il pediatra visita in bebè). Serve a verificare eventuali criticità a livello cerebrale.
  6. Il riflesso di apnea, o immersione, ha diverse definizioni ed è quello che consente al bebè entro i primi 5-6 mesi di non bere se immerso per qualche istante. L’epiglottide è una levetta di cartilagine che di norma è direzionata verso l’alto ma che con il passaggio di cibo o liquidi si abbassa e chiude le vie aeree. Se ci pensiamo, ogni volta che compiamo una deglutizione, di fatto la eseguiamo in apnea. Certo, questione di un istante. Ma potete farlo come prova. Vedrete che non c’è un altro modo. Non è possibile respirare mentre mandate giù qualcosa, che sia dell’acqua o del cibo. Quindi, l’epiglottide è responsabile di tutte le apnee.

I video sul web

L’obiettivo più ambito di tutta l’esperienza acquatica, e forse anche quello caricato di maggiori aspettative, è certamente l’immersione. Infatti arriva il momento in cui il bebè è in grado di fare rapidi passaggi subacquei fino a tuffarsi liberamente e con immensa gioia, sicuro che l’adulto di riferimento lo prenderà al volo mentre si abbandona nell’acqua.


Chi di noi non ha mai visto sui social video di bambini di pochi mesi che nuotano liberi e sorridenti, completamente immersi e con gli occhi aperti? Ce ne sono numerosi. Ma negli anni ho imparato che questa non è la regola. Per quanto sia vero che a pochi mesi molti bimbi hanno ancora il riflesso spontaneo di chiusura dell’epiglottide, è altrettanto vero che presto perderanno queste competenze innate per poi reimpararle da capo in maniera consapevole. Peraltro ogni bimbo ha una diversa reazione alle immersioni: a parte il riflesso di apnea, alcuni bebè sembrano non provare effettivamente fastidio nell’essere immersi, altri invece possono piangere e trovarsi spaesati.

Quindi penso che proporre questa esperienza con troppa fretta non sia tutto sommato particolarmente efficace dal punto di vista didattico. O quantomeno terrei sempre presente il concetto della gradualità.


Non lasciamoci prendere dalla frenesia delle immersioni. Ci arriveranno. Sicuri. L’importante è che ci arrivino in un contesto felice e amorevole.

Tecniche

Per immergere il bebè ci sono diversi modi e mi verrebbe da dire che, come in tutti gli àmbiti, anche le tecniche seguono mode e correnti.

Una delle ultime è quella che consiste nel sollevarlo fuori dall’acqua, capovolgerlo con la testa verso il basso e i piedi verso l’altro in modo tale che entri nell’acqua come se facesse un tuffo di testa: la prima parte che si immerge è la parte alta del capo, poi a seguire il resto del corpo. Il vantaggio di questa tecnica è che l’acqua scivola sulla fronte e sulla radice del naso rispetto ad altre modalità in cui invece le narici sono le più esposte. In questo caso, quindi, è più difficile che l’acqua entri nel naso.


Sì, perché dobbiamo riflettere sul fatto che l’epiglottide sta in gola, e impedisce all’acqua di entrare nei polmoni. Ma il naso non ha protezione, quindi può riempirsi d’acqua e sappiamo tutti che non è una sensazione piacevole.

Un’altra tecnica un po’ più graduale è quella in cui teniamo il bebè di fronte a noi e prima di immergerlo gli soffiamo un istante sul viso. Quello che gli succede è un po’ quello che accade mettendo il viso fuori dall’auto mentre è in corsa. Questo gioco era un buffo passatempo per i bambini delle generazioni precedenti alle cinture di sicurezza! Nei lunghi viaggi estivi per raggiungere i luoghi di villeggiatura, era facile vedere ragazzini con la testa fuori dal finestrino sull’autostrada, che facevano vocalizzi e facce buffe nel vento. La pressione dell’aria sul viso, di fatto, produceva una specie di apnea se si cercava di respirare solo dal naso e si era costretti ad aprire la bocca.


Di fatto, soffiando sul viso del piccolo si ricrea la medesima situazione per un attimo: tu soffi e lui all’istante chiude gli occhi e trattiene il respiro. È quello il momento in cui puoi immergerlo. Ma la difficoltà sta proprio in questo: se non si è davvero molto rapidi, praticamente contestuali al soffio, il rischio è che venga immerso esattamente nel momento in cui ricomincia a inspirare. Nulla di drammatico, come abbiamo detto. Se invece si è rapidi, funziona, e vi trovate anche in una posizione nella quale non occorre immergere tutto il viso, ma riuscirete facilmente a fargli immergere solo la bocca o il naso.


Sia che siate intenzionati a insegnare al vostro bimbo a nuotare, sia che invece preferiate un corso con insegnanti qualificate che vi stanno accanto, ci sono alcune accortezze che possono essere di grande aiuto.

Verso i 20-24 mesi, quando cominciano a cimentarsi nel linguaggio e la comunicazione migliora enormemente, prima di immergerlo possiamo dargli qualche informazione per non bere. Indicazioni semplici come: “chiudi la bocca.” O ancora: “Fai le bollicine” o “Soffia forte”. Magari possiamo prepararlo con un “Sei pronto?” e possiamo anche attendere la risposta. Dopo che lo avrete fatto alcune volte, se non vi risponde annuendo o se vi dice di no, significa che in quel momento, per una qualche ragione, non gli va. Potete fare di più: potete dargli l’opportunità di dire come si sente. Chiedeteglielo. Serenamente. “Ti piace questo gioco?”, oppure: “Ti fa un po’ paura fare questa cosa?”. Il fatto di poterlo esplicitare lo aiuta.

La parola d’ordine è sempre una: osservazione.


Di seguito un po’ di elementi cui prestare attenzione, che possono essere di aiuto per orientarsi:

  • Cosa succede quando riemerge?
  • Quale espressione ha sul viso?
  • L’acqua gli esce dal naso?
  • L’acqua gli è andata di traverso?
  • Tossisce o per qualche istante non riesce a respirare?
  • Vi si aggrappa al collo appena riemerge?
  • Piange? Sorride? È perplesso? È spaventato? È incuriosito?

Poi, mamma e papà, ci siete voi. Molto di ciò che esprimete sarà fondamentale per dare una connotazione emotiva a questa esperienza. Perciò provate a guardarvi da fuori e ad ascoltare come vi sentite. Qualche buona domanda anche per voi.

  • Vi sentite pronti?
  • Pensate di spaventarvi?
  • Siete pronti a gestire l’emozione che vivrà vostro figlio?
  • Siete sicuri di saperla riconoscere?
  • Ma soprattutto, siete pronti ad accoglierla?


Mamma, papà, prendetevi il tempo necessario per imparare a conoscere il vostro bambino. Servono il tempo e la pazienza. Seguitelo e proponetegli giochi che istintivamente sentite utili in quel momento.

Vi riporto a questo proposito il racconto di un’esperienza.

Mi viene chiesta una sostituzione da un collega per l’acquaticità 0-18 mesi. Mi trovo quindi con genitori nuovi e bimbi che non ho mai visto. Una mamma molto giovane mi si avvicina e mi fa notare come sua figlia sia eccitata e molto dinamica nell’esplorare l’acqua, quasi incontenibile. La osservo per un po’, seguo madre e figlia mentre saltellano per la vasca provando il materiale che ho proposto. Ho la sensazione che la madre fatichi a contenere la bimba e che quest’ultima non sia soddisfatta.

Ma è solo una sensazione.


In effetti poco dopo la madre torna da me come se non riuscisse a trovare il gioco adatto. Provo a proporle quindi di mettere la piccola a sedere su un tappetone di gommapiuma, così da farle provare l’instabilità e la morbidezza dell’acqua e nello stesso tempo per stimolare lo sviluppo dell’equilibrio.

Prendo quindi il tappeto, la mamma siede sopra sua figlia e si gira un momento, distratta dal commento di un’altra mamma. È in quel preciso istante che la bambina decide di tuffarsi a capofitto nell’acqua, proprio mentre la madre è di spalle e non può assolutamente vederla né tantomeno recuperarla. Ovviamente appena quest’ultima si gira e si accorge di ciò che sta accadendo si allarma e cerca di recuperarla. Decido di fermarla e le prendo la bimba dalle braccia: la madre è davvero molto spaventata, mentre la piccola è solo un po’ perplessa; se leggesse lo spavento nella madre assocerebbe automaticamente quella spontanea esplorazione a qualcosa di pericoloso. Faccio presente alla madre che la sua bimba sta facendo semplicemente il suo compito evolutivo di sperimentazione, e che non c’è da allarmarsi: si tratta di pochi istanti sott’acqua, non c’è il minimo pericolo. Le lascio quindi il tempo di rincuorarsi e nel frattempo saltello con la sua bimba ridendo e sottolineando quanto sia stata brava.


Quando sento che la madre e la figlia sono emotivamente allineate per sperimentare insieme, rimetto la piccola sul tappeto e propongo alla mamma di lasciare ancora una volta che vada sott’acqua prima di prenderla.

Nel frattempo, gli altri genitori si sono avvicinati al tappeto e ci hanno fatto sedere i loro bambini. Quell’episodio ha creato eccitazione e ora anche loro sperano che i loro piccoli si buttino in acqua spensierati. Invece gli altri non si comportano così: uno ad esempio si gira a pancia in giù e arretra verso il bordo in modo da scendere prima con i piedi e dopo con il resto del corpo, mentre gli altri guardano un po’ timorosi tendendo le braccia al genitore e sperimentando l’instabilità della gommapiuma sull’acqua, che di fatto è la ragione per la quale ho proposto quel gioco.


Questo episodio consente di capire quanto sia soggettivo l’apprendimento e quanto siano soggettive le attitudini. E non dobbiamo mai dimenticare che a una certa “precocità” non corrisponde necessariamente una predisposizione. Nel caso precedente, la bimba che si tuffa dal tappetone prima dei suoi coetanei non è detto che sia adatta a fare nuoto agonistico più di quanto non lo siano gli altri.

Per questo, è importante procedere con gradualità.

La tua esperienza

Partiamo dall’inizio. Prima volta nell’acqua. Primo bagnetto. Ma anche, qualche mese in più, prima volta in piscina o al mare.

La sostanza non cambia. Il bambino di fatto ha lasciato l’acqua nella quale viveva nel grembo materno da pochissimo tempo. Proviamo a immaginare la sensazione che provava: tepore, rumori corporei ovattati, il sottofondo costante del battito materno, la voce interna della mamma, la voce del papà tutte le volte che si avvicina e parla sulla pancia. Leggerezza. Assenza di gravità. Un senso di contenimento come una coperta soffice che lo protegge e segue i suoi gesti.


Molti di questi elementi di fatto li possiamo ricreare nelle diverse “prime volte” con l’acqua al di fuori del grembo materno. Ed è importante ritrovarli, perché hanno un potere immenso.

L’obiettivo è creare una situazione di estrema tranquillità e piacevolezza. Lo capisco, sembra un consiglio apparentemente inutile e quasi banale. Ma non è sempre facile capire se siamo realmente tranquilli o se invece ci sforziamo di esserlo, soffocando un’irrequietezza che ci disturba.

E qui torniamo alle domande di prima, ti ricordi?

Come mi sento?

Sono stanco/a? Sono assonnato/a?

C’è qualche preoccupazione che mi distrae e che non mi lascia tranquillo/a? Magari del lavoro o altro.

Mi pesa un po’ fargli il bagnetto, o andare in piscina o invece non vedo l’ora?

Mi preoccupa? E se sì, qual è il motivo della preoccupazione?


Ascòltati: è il primo e più importante consiglio che ti aiuterà a ricreare quella tranquillità profonda che ha accompagnato il bambino per tutta la gravidanza. Ascoltare il nostro stato d’animo, infatti, ci consentirà di esplorare le ragioni della nostra ansia così come di tutte le nostre emozioni, ma soprattutto ci consentirà di rimetterci in contatto con quegli aspetti che contribuivano a rasserenarlo.


Un altro esercizio molto importante è quello di allenarsi all’ascolto della propria voce. L’importanza della voce nei primi mesi di vita è risaputa e documentata da una corposa bibliografia. Il piccolo, infatti, non vede ancora perfettamente, mentre è in grado di percepire i “colori” emotivi del timbro.

Oggi di cosa c’è più bisogno? Di stimoli o tranquillità? Di gioia o coccole?

Capire se c’è qualcosa che ci disturba ci aiuta a togliere dalla voce certe “spigolosità” tipiche di quando siamo irritati. Ci verrà più facile sintonizzarci sui bisogni del bebè e parlare con il giusto tono e volume. Poi saremo meno distratti: ci verrà spontaneo prestare attenzione a dettagli come la temperatura dell’acqua, l’osservazione accurata del contesto, la scelta dell’oggetto giusto che può essere di aiuto in quel momento per iniziare una esplorazione.


Infine c’è una serie di domande legate alla propria esperienza, al proprio vissuto. Mi capita spesso di sentirmi dire: “Fai tu, che io sono in preda al terrore!”

Quando chiedo cos’è che fa tanta paura, spesso è quel senso di inadeguatezza di cui parlavamo prima: l’inesperienza, la sfiducia nella propria capacità di ascoltare e rispondere ai bisogni del bimbo. Ma quello che altrettanto spesso genera ansia è la propria esperienza vissuta. Tantissime volte, infatti, soprattutto quando mi sono trovata a insegnare a persone adulte a nuotare da zero, è emerso il loro ricordo d’infanzia del “battesimo” dell’acqua, battesimo che alle volte non è riuscito proprio come da aspettative. Il tema è peraltro abbastanza ricorrente: un parente che, nel bonario tentativo di rendersi utile, si è improvvisato maestro di nuoto e lo ha “spartanamente” lanciato in acque profonde, convinto che questa sua iniziativa sortisse una qualche forma di autoapprendimento.


Risultato: un grande spavento, una solenne bevuta e un pessimo ricordo dell’acqua.

Papà? Mamma? E tu come ti senti? Come ti sentivi da piccolo? Hai avuto anche tu un fantastico nonno, o uno zio burlone, che pensando di far bene ti ha fatto fare un tuffo dove non toccavi? Un cugino più grande che vedevi d’estate al mare e che un giorno mentre facevate la lotta ti ha spinto giù e ti ha fatto bere?

Tieni sempre a mente la tua storia e, per quanto ti è possibile, fai in modo che la tua esperienza non invada quella di tuo figlio.

Quand’è il tempo giusto?

A volte ci viene spontaneo “dirottare” l’esplorazione dove a noi sembra più importante o divertente, mentre sarebbe più utile riuscire a trattenerci, lasciando che il piccolo vada dove vuole.

Altre volte, invece, ci facciamo prendere dalla “fretta”: abbiamo la forte sensazione che il bambino stia “perdendo tempo”, fissandosi troppo su un gesto che a noi pare elementare, come aprire e chiudere un contenitore. Abbiate pazienza, cercate di non accelerare i suoi tempi e non sottovalutate ciò che sta facendo. Anche se l’interesse per quella determinata abilità vi risulta incomprensibile.


Ora torniamo a un concetto a cui abbiamo già accennato perché dobbiamo fare subito una precisazione rispetto al tema delle immersioni. Come abbiamo visto, quando parliamo di apprendimento c’è una prima fase nella quale è ancora presente il riflesso di chiusura della glottide, che è appunto un riflesso. Possiamo proporre qualche immersione nei primissimi mesi, modalità che è favorita da molte scuole di pensiero. Ciò che a mio avviso non possiamo fare, però, è considerare questo un vero e proprio “apprendimento”: manca infatti una consapevolezza che arriva solo con il consolidamento di alcune funzioni cognitive, tra cui la memoria.


Quindi, mentre prima si trattava di un riflesso e tutto avveniva come un automatismo, verso i due anni e mezzo i piccoli si guardano intorno spaesati, come se vedessero realmente per la prima volta quel luogo. Cerchiamo di immaginare cosa hanno visto finora: nei primi mesi, infatti, il loro mondo è vicinissimo, prossimale, e tutto risulta immenso. Non riescono a vedere le cose per intero e non riescono a vedere lontano. Soprattutto, ciò che più a loro manca, e che è fondamentale, è la volontarietà dell’atto, che comporta un certo grado di consapevolezza e quindi la possibilità di apprendimento.

Poi all’improvviso qualcosa cambia. Il bambino volge lo sguardo oltre la mamma, oltre il loro mondo, e tutto deve apparire comunque vastissimo. Per questo è utile “frammentare” l’acqua con oggetti colorati con cui può facilmente interagire.

L’azzeramento

Vi è poi un aspetto che è bene tenere sempre a mente, e cioè che vi sarà un momento intorno ai 15 mesi in cui plausibilmente il bimbo manifesterà una sorta di “azzeramento” di tutto ciò che ha appreso in precedenza. È da questo momento in poi, infatti, che le funzioni cognitive sono mature per consolidare l’apprendimento. Non solo. Lo sviluppo cognitivo procede in parallelo con quello emotivo-relazionale, e in questa fase il piccolo comincia a fare i conti con il distacco dalla mamma.


Iniziano ad esserci degli aggiustamenti, dei momenti di stasi, di stanchezza. Talvolta contestualmente si verifica qualche episodio di influenza. In sostanza, ci sono delle naturali interferenze legate al processo di crescita. Quindi può capitare che per qualche settimana i bebè non siano più in grado di fare esercizi che invece prima svolgevano con facilità. Soprattutto se prevedevano competenze su base riflessa o istintuale, quindi automatica. Ma non è solo questione di automatismi.

L’allievo x

Una delle situazioni che costantemente mi sono trovata ad affrontare è la seguente: una classe di giovanissimi allievi di una età indefinita tra una manciata di mesi e una manciata di anni, a cui tento di insegnare una serie di semplici competenze base. Dopo qualche lezione (tre, quattro, ma a volte anche dopo diverse settimane) ce n’è sempre uno che resta fermo. Non fa un progresso, non mostra alcun miglioramento. La mia sensazione è di non servire a nulla, ma continuo a insistere e a mostrargli come fare e a fargli percepire la resistenza dell’acqua. Nondimeno, di lezione in lezione, a fronte dei miglioramenti del resto del gruppo, l’allievo x rimane fermo. E non si può dire che abbia paura o che abbia limiti fisici oggettivi. Anche la predisposizione all’acqua sembra essere accettabile. Insomma, non sembrano esserci motivi per i quali questo allievo non impari. Poi, per una ragione o per un’altra, succede che resta assente per un paio di settimane.


La logica potrebbe indurre a pensare che l’assenza di due settimane risulterà ancora più dannosa per l’allievo x, che quindi rimarrà ancora più indietro rispetto al gruppo.

Invece quello che accade con più frequenza è l’esatto opposto. Le due settimane di assenza hanno contribuito a far “sedimentare” le competenze. Il cervello e il corpo si sono “riposati”, e nel riposo hanno avuto modo di recuperare quelli che possono essere considerati degli “arretrati” di lavoro. Ora questo bambino ha raggiunto i compagni e padroneggia con gioia e disinvoltura quanto non riusciva ad apprendere prima della pausa.


Quindi, ricordatevi: è il naturale corso dell’apprendimento, che ha momenti di accelerazione e momenti di quiete. Quiete. Il fatto che il vostro bambino non faccia progressi non deve scoraggiarvi o esasperarvi. I miglioramenti ci sono. Stanno accadendo. Solo che ancora non si possono vedere.

Guai ad aprire il forno prima che sia finito il tempo di cottura!

Vediamo invece cosa possiamo fare per incoraggiare questo processo.

Il potere della fiducia

L’aspetto più delicato e sorprendente su cui ancora oggi, dopo più di vent’anni, mi trovo a riflettere è il potere della fiducia. Agire con fiducia, ma anche attendere con fiducia, e tutto arriva. Arriva il gesto, arriva il movimento giusto. Arriva il superamento di una paura. La fiducia sotto forma di un sorriso, di una parola incoraggiante, di una stretta, di una carezza, funziona come un catalizzatore: accende l’apprendimento rafforzandolo. Tuttavia alcune volte la fiducia può essere difficile da coltivare: in determinate condizioni, nei confronti dei nostri figli prendono il sopravvento aspettative, ansie, così come le nostre fragilità e insicurezze. Può sopraggiungere persino lo sconforto, lo scoramento; finanche la delusione.


Può capitare quando si fanno confronti con altri bimbi, che magari a parità di età sono più competenti. Oppure può accadere con un parente, un nonno o una zia che vengono a vedere i progressi del piccolo e allora bisogna che vedano a tutti i costi quanto è bravo. Ecco, quello che succede sovente in queste circostanze è che il bimbo non collabora. Se fino a un secondo prima era un pesce guizzante che saltava agile nell’acqua, con l’arrivo dell’ospite si paralizzerà. Se fino a un istante prima sorrideva e canticchiava gioiose parole incomprensibili, si zittirà chiudendosi nel mutismo con un’espressione intimidita. Se prima pareva un palombaro, dopo non ci sarà verso di fargli immergere neppure un dito. Ma tant’è!


Sono quelli i momenti in cui scopriamo che un dubbio ci attanaglia nel profondo, e siamo pronti a mettere in discussione il dato incontrovertibile che qualunque essere umano grande o piccolo può imparare a nuotare.

Un senso di inadeguatezza ci fa temere che “il nostro bimbo è l’eccezione che conferma la regola”, o “meglio se non immerge il viso”, e ancora “forse non è portato per l’acqua”. Sono i nostri timori a parlare, d’un tratto non siamo più focalizzati sul nostro bimbo, sulla sua esplorazione, lo siamo invece sui nostri timori e sulle nostre aspettative.


Per spazzare via lo sconforto o l’incertezza che a volte prende noi adulti, dobbiamo rimanere ferrei e concentrati sull’obiettivo: consentire al bambino di sviluppare una relazione amorevole con l’acqua. Relazione amorevole con l’acqua vuol dire in buona sostanza che avrà il potere di trarne benessere e felicità ogni volta che ci avrà a che fare. Se ci pensate, nell’arco di tutta una vita, questo è l’aspetto più importante. Una delle “fatiche” più importanti della crescita è quella di trovare modalità di felicità che non siano dannose. Facciamo degli esempi concreti: il cibo è una naturale e importante fonte di felicità. Ma se diventa la più importante, se non addirittura l’unica, questo danneggerà il nostro corpo, costringendo a lavorare in modo eccessivo organi come il fegato e il pancreas. Fornire al piccolo un elemento nel quale può facilmente essere felice, vuol dire fornirgli la possibilità di tanti spazi in cui può rifugiarsi dalle fatiche e dal peso della vita quotidiana. Insegnargli come essere felice dentro l’acqua significa che ogni volta che è triste, o arrabbiato, o ha bisogno di ascoltarsi, può trovare un centro termale, o una piscina, un laghetto o anche semplicemente una vasca da bagno e concedersi una mezz’ora di gioia e quiete.


Ecco, tutto ciò che ci serve per sostenere il nostro bimbo nella sua scoperta del nuovo elemento è la fiducia nel fatto che creeremo per lui una relazione felice con l’acqua. E questo se lo porterà dentro per sempre.

Esorcizzare la paura

Tra i tanti scogli che ostacolano una crescita armoniosa ce n’è uno che è bene considerare un vero e proprio segnale anziché una semplice difficoltà: la paura. Quando c’è la paura c’è un “alert”.

“Sto per fare qualcosa che non conosco”.

Oppure “sto per fare qualcosa che mi separa dalla mia mamma”.

O ancora “sto per fare qualcosa che mi fa venire dolore al naso”.

Oppure “sto per fare qualcosa che non mi fa respirare”. E molto altro. Allora come la risolviamo? Cercando di intuire quale o quali sono queste paure e trovando delle risposte adeguate.


Un esempio. Siete dal dentista per togliere un dente. Siete terrorizzati e vorreste una rassicurazione. Gli chiedete allora: “dottore, sentirò male?” Lui vi guarda con aria euforica e nel frattempo prende la siringa con la quale si appresta a farvi l’iniezione per l’anestesia. Non vi risponde però. E voi non sapete cosa sia quello strumento che ha in mano. Intanto però continua a sorridere. Immaginate come potreste sentirvi? Ma andiamo avanti. Mentre si appresta a farvi l’iniezione e voi avete il cuore in gola, alla fine vi dice “Eh! Bisogna toglierlo perché è cariato! Non si può lasciarlo lì.” Come vi sentite? È rassicurante quello che vi risponde?


Personalmente preferirei sentirmi dire qualcosa del tipo “è probabile che sentirai un dolorino quando ti faccio la puntura, poi sentirai il suono di quando tiro via il dente dalla gengiva. Fa un po’ strano in effetti: ma dolore, a quel punto, zero.”

E vorrei che me lo dicesse esattamente così.

Mamma, papà, tu come vorresti che ti rispondesse?

Quando senti che il tuo piccolo ha paura, prova a rispondergli come pensi che lui vorrebbe.

Gli errori comunicativi più frequenti

Sul tema della comunicazione ci sarebbe da parlare per ore. Cerchiamo quindi di essere concreti e tenere a mente due aspetti delicati e sostanziali.

  1. Il bebè non parla, quantomeno non subito, quindi si comunica attraverso modi alternativi o aggiuntivi alle parole.
  2. La comunicazione serve soprattutto a cogliere ciò di cui il piccolo ha bisogno e a essere certi di riuscire a darglielo. Non come noi vorremmo riceverlo, ma come lui effettivamente chiede.

Per quanto sia impossibile elencare tutti i casi in cui commettiamo errori o creiamo fraintendimenti comunicativi, di seguito riporto le ingenuità in cui cadiamo più di frequente.

  • Enfatizzare: “Povero piccolo, chissà che spavento. Fare una cosa così brutta e difficile, chissà che paura!”
  • Minimizzare: “Ma sì, non è successo niente, in fondo non è un dramma”
  • Generalizzare: “Sì è sempre fatto così”, “Ci siamo passati tutti”
  • Razionalizzare: “Non impara perché è successo questo e questo”
  • Comparare: “Guarda quel bimbo come si tuffa, lui lo sa già fare”
  • Avere fretta: “Sei già grande per fare ancora questi giochi”
  • Viceversa rallentare e non comprendere quando i tempi sono maturi: “Sei troppo piccolo!”
  • Creare una dipendenza da noi: “Aspetta amore, non lo sai fare senza la mamma”

Su quest’ultimo punto bisogna fare un distinguo, più che altro di natura temporale. La dipendenza è cosa buona. È cosa inevitabile e strutturante nei primi mesi di vita, necessaria al bambino per consolidare la percezione della propria esistenza. Verso i 18 mesi però, i bimbi cominciano a voler sperimentare l’indipendenza, che è bene incoraggiare rimanendo però sempre a vista.

Gli errori tecnici-procedurali

A questo punto vi starete chiedendo: e se va sotto? Se non lo sostengo correttamente?

Succede. Capita piuttosto spesso che con il bebè girato, non potendo vedere il suo viso, mentre gironzoliamo gli facciamo andare un po’ la bocca sott’acqua. Poi c’è l’inesperienza.

Ma in fondo non è un grosso problema, non siete e non dovete diventare istruttori di nuoto. Vediamo invece com’è utile comportarsi.

Come riparare

Per poter riparare a un errore commesso, per prima cosa occorre essere consapevoli di averlo fatto. Per quanto questa affermazione possa apparire un po’ assurda, quando si tratta di esseri umani diventa molto difficile capire quando stiamo sbagliando l’approccio. E tanto più quando abbiamo a che fare con i più piccini, che di fatto non sono ancora capaci di parlare.

Intanto dobbiamo specificare cosa intendiamo per errore.


Ogni volta che devo fare una manovra nuova, o complessa, come provare per la prima volta un’immersione o un esercizio di galleggiamento, quando ho terminato chiedo sempre: “Com’è andata?”, e mentre formulo questa semplice domanda a un bimbo di pochi mesi così come a un ragazzino delle medie, lo osservo e capisco dalle espressioni del suo viso com’è andata realmente.

Può essere andata “Alla grande!”

Oppure “Benone, dài!”

O anche “Be’, tutto sommato non male”

Poi “Bene, ma non benissimo”

E ancora “Ho avuto momenti più entusiasmanti”

O semplicemente “Così così”

Oppure “Oddio, cos’è successo? questa cosa mi ha terrorizzato”

Per terminare ingloriosamente con “È stato un disastro!”

È molto importante osservare le espressioni del viso in quel momento. È fondamentale e difficile allo stesso tempo, perché non siamo disposti a leggere sul viso del piccolo il corrispettivo di “è stato un disastro”, ma neppure di un dignitosissimo “così così”. E non lo siamo perché leggere sul viso quelle espressioni ci provoca un sottile senso di malessere.


Questa è la ragione per la quale è così difficile leggere con attenzione le espressioni del loro viso: perché potrebbero farci soffrire. Ma questa è anche la ragione per la quale è importante: perché ricevere con serenità qualunque manifestazione del piccolo rafforza in lui la consapevolezza di essere vivo e di poter esprimere con libertà ogni emozione.

Una volta accolta la sensazione che il bimbo ha vissuto e mi ha manifestato, trovo molto utile sottolineare con le parole ciò che l’altro ha espresso con il volto.


Di solito mentre lo osservo formulo la domanda e rimando a entrambi la risposta di ciò che leggo sul suo visino: “Com’è andata? Insomma, così così, vero?”. Basta quello: il riconoscimento. Lasciamo lo spazio di manifestare, attendiamo un gesto, una faccia buffa e torniamo gradualmente alla tranquillità della routine.

In generale, la cosa più importante da tenere a mente è: se abbiamo la sensazione che qualcosa non sia andato per il verso giusto, osserviamo. Accogliamo qualsiasi emozione.

Ma ricordiamoci che abbiamo un’altra freccia al nostro arco: il gioco!


Il gioco ha il potere di esorcizzare la paura. Di imbrigliarla, di raccontarla. Far fare agli oggetti cose che fanno paura, ancora una volta, allena. Inoltre, consente al bambino di esprimere quel qualcosa che ha dentro e che lo fa stare male; lo può dire, lo può trasformare in colpi. Suoni. Urli. Schiaffi. L’acqua si può battere, calciare, schiaffeggiare liberamente, tra l’altro riproduce un suono molto verosimile se battuta con la mano aperta. Tutti gesti utili e permessi, nell’acqua.

Poi c’è un livello di espressione della paura più profondo e strutturato: le storie. E qui occorre prestare attenzione. Perché quando c’è una storia è facile che, inventandola o raccontandola insieme al bimbo, diventi tua, più che sua. Con le tue strategie per risolvere i problemi della trama e i tuoi stratagemmi per affrontare le paure. Fate attenzione: ricordate che è la sua paura e il suo momento per esplorarla. Accompagnatelo, ma con gentilezza e discrezione.

Esercizio

Proponi i personaggi e lo scenario di una storia, che consenta a tuo figlio di esprimere la sua paura.

Ti do qualche spunto, per farti capire meglio: c’è un sottomarino che ha il motore in avaria. Cosa fa? Chiama i soccorsi? Arrivano i sommozzatori dal porto?

O ancora: c’è un piccolo delfino spiaggiato che non riesce a prendere il largo. Chi arriva in suo aiuto? Dove sono la sua mamma e il suo papà?

Primi tuffi e acquaticità neonatale
Primi tuffi e acquaticità neonatale
Maria Letizia Trento
Guida con esercizi e giochi per esplorare l’acqua. Una guida ricca di esercizi, di semplici ma preziose informazioni tecniche, nonché di aneddoti e racconti, pensata per accompagnare i neonati alla scoperta della loro corporeità e di questo magico elemento, di cui conservano ancora una vivida memoria.