CAPITOLO 3

I bisogni fondamentali

La bellezza salverà il mondo. 
F. Dostoěvskij

Per descrivere il fine immediato di un’educazione riparativa su misura per i giovani reduci dalla crisi infinita, potrebbe essere utile la metafora del custode. “Custode” è parola latina dall’etimologia interessante: deriva dalla radice Kuh-, Kuhd- o Ghud-, che significa “coprire, difendere” e implica insieme l’idea di proteggere, di stare in guardia, di preservare con cura, di avvolgere, di coprire e di nascondere. Si custodisce qualcosa di prezioso, che si vuole mantenere integro; è un’azione statica, che implica amore, attenzione e cura. Si custodisce qualcosa che è minacciato, e questa generazione di studenti ha subìto in modo pesantissimo un attacco congiunto alla mente, al cuore e all’anima fatto di manipolazione mediatica, di ricatto in stile mafioso, di colpevolizzazione ingiusta, di insulto all’intelligenza e alla logica, di privazione arbitraria di tutti i diritti. Gli adulti avrebbero dovuto proteggerli, ma pochi l’hanno fatto, e questo ha enormemente peggiorato la devastazione. Difficile aiutare chi si è piegato e si è fatto del male per fiducia nei genitori e negli insegnanti. Chi, fra gli adulti, ha compreso anche tardi la gravità dell’attacco, li deve tutelare ora. 


Un’educazione che si ponga come fine il custodire deve prima di tutto allontanare bambini e ragazzi da ciò che li danneggia e insegnare loro come difendersi. Bisogna toglierli dalla scuola, se il clima di indifferenza e di discriminazione è irrespirabile, se manifestano segni di disagio ad andare a scuola, se il loro rendimento scolastico precipita e aumentano ansia, depressione, ritiro sociale o se si manifestano comportamenti autolesionistici, disturbi alimentari, dipendenze relative al disagio di essere esclusi da tutto o di essere bullizzati dall’istituzione. Occorre combattere per loro le battaglie legali necessarie a ribadire i loro diritti inalienabili, il che è una splendida lezione di civismo, e seguirli come non mai.

Occorre anche farli seguire da un terapeuta, se segregati perché non inoculati, purché il professionista sia in grado di rimandare loro l’immagine di sé come di individui coraggiosi e liberi dentro, che non si sono piegati a un vile ricatto, non come di egoisti irresponsabili che non fanno il loro dovere e vanno curati per una malattia mentale. È difficile, fino al limite dell’eroismo, essere non conformi in mezzo a una massa omologata; vanno sostenuti in una lotta così ardua, che è una vera e propria prova esistenziale, potenzialmente positiva per la loro autostima e per la loro maturazione. Se invece hanno ceduto al ricatto e sono a disagio per questo, vanno sostenuti nel prendersi cura della propria salute e nell’elaborare l’eventuale vissuto negativo rispetto alla rinuncia all’autodeterminazione. In nessun modo vanno alimentati il conflitto e la divisione che le istituzioni hanno intenzionalmente seminato nella società e nelle famiglie. I nostri figli, i nostri allievi meritano incondizionatamente di essere accolti e abbracciati. 


Bisogna mostrare loro come sono stati manipolati e come possono resistere, attingendo alle proprie risorse interiori. Bisogna essere vigili, per prevenire ulteriori danni. Bisogna restituire loro tutte le esperienze che sono state negate per due anni e soprattutto la libertà. Per questo, può rendersi necessario anche creare un contesto su misura e metterli in contatto con ragazzi come loro, per ricostruire la vita sociale perduta, a un livello più alto e maturo. 


L’arma del custode è l’amore. Per risanare le ferite, fatte di umiliazione e disumanizzazione, occorre che l’educatore-custode tiri fuori tutto l’amore che ha dentro, le sue capacità di ascolto empatico e di attenzione consapevole. Nessuno sa se ferite così profonde potranno mai essere guarite del tutto. Ma questo attiene al destino dell’anima di ciascuno e va accettato. Resta invece agli adulti la responsabilità di fare tutto ciò che è possibile per prendersi cura di loro al massimo grado. Gli attacchi all’anima sono i più subdoli e pericolosi; essere custodi dell’anima è un compito delicatissimo e assolutamente ineludibile.

La rinascita educativa 

La morte della scuola come luogo della crescita fine a se stessa, della solidarietà e dell’inclusione non implica la rinuncia a educare e a istruire. Proprio la crisi esiziale dell’istituzione scolastica ci spinge a riflettere sulle modalità di una rinascita educativa che guardi oltre i suoi limiti strutturali, determinati dal contesto sociale degradato che l’ha poco alla volta strangolata e asservita. 


Riparare il danno è un’esigenza contingente; riflettere su quale educazione sia in grado di aprire la strada a un futuro migliore per i nostri discendenti è una necessità, se non vogliamo semplicemente rinunciare a un futuro umano, accettando senza ribellarci quello transumano che è già stato pensato per noi. Per questa educazione che guarda oltre (oltre la scuola, oltre la pandemia, oltre il disastro economico e il Great Reset), ci può aiutare la metafora dell’arca di Noè


Noè custodisce e preserva nell’arca gli esemplari di ogni specie animale e vegetale per ripopolare il mondo distrutto dal Diluvio universale. Allo stesso modo, tocca a noi proteggere, nutrire e traghettare i nostri figli dal vecchio mondo, ormai marcio e decrepito, a quello nuovo. Non il mondo del Nuovo Ordine Mondiale e del Great Reset, fatto di povertà diffusa, di neofeudalesimo, di devastazione dell’umano e di trionfo del transumano, di controllo sociale spietato da parte di un’élite di autocrati padroni del mondo e di completa perdita di libertà e di dignità per tutti gli altri, ma il mondo nel quale l’evoluzione dell’umano verso il divino non sarà ostacolata come accaduto finora. 


Veniamo da un lungo periodo di progressivo declino della coscienza. I due principi complementari, quello maschile e quello femminile, che costituiscono il nostro sé profondo, sono stati entrambi mortificati e degradati nei secoli, fino a ridursi al mero livello animale. La violenza, le guerre infinite, le ingiustizie, la competizione sfrenata, la visione predatoria dei rapporti sociali, economici e politici, che sono gli aspetti deteriori del maschile animale, nonché il vittimismo, la sottomissione, la tendenza al sacrificio, la manipolazione proprie del femminile animale al livello più basso, hanno profondamente condizionato e limitato le possibilità di espansione della componente spirituale negli esseri umani. Ci portiamo dentro le memorie genetiche della sofferenza inflitta e subita da decine di generazioni; le emozioni primordiali di paura, rabbia, odio, risentimento, invidia, avidità, caratteristiche di una specie poco evoluta; le esperienze di prigionia, guerra, fame, sopraffazione, lotta per la sopravvivenza vissute dai nostri antenati e da molti nostri contemporanei.

Poiché esiste una coscienza collettiva dell’umanità e noi ne siamo parte, tutto questo appesantisce la nostra coscienza e restringe la nostra possibilità di elevarci. Abbiamo infatti in noi anche un Maschile e un Femminile spirituale, manifestazione della nostra unica essenza divina in questa dimensione. In particolare, è il risveglio del Femminile, represso e umiliato per secoli, la via per risalire dall’abisso. Le qualità del Femminile spirituale, più orientato alla connessione con l’altro, sono la morbidezza dell’amore, la comprensione, l’empatia spirituale, la percezione intuitiva, la creatività pura che costruisce legami e produce armonia, l’accoglienza, l’amore spirituale (capace di accogliere e trasformare profondamente l’altro), la letizia, la gioia di esistere, la responsabilità verso gli altri e verso la loro crescita, l’armonia sociale, l’equità (che consiste nel portare la giustizia dall’astratto al concreto), la coerenza rispetto ai principi, la dignità. Risanando e potenziando il Femminile in noi e nella società, permettiamo anche al Maschile spirituale di manifestarsi, con le sue qualità più orientate all’espressione dell’individuo: la forza interiore, il potere come servizio, la responsabilità verso se stesso e il proprio gruppo, l’armonia interiore, la razionalità, la protezione e il sostegno, la giustizia, l’amore disinteressato, la lealtà, la determinazione, l’onore. 


Sono queste le qualità che i nostri ragazzi devono sviluppare. Poiché il vecchio mondo è finito per sempre, devono poter immaginare e costruire quello nuovo: un mondo cooperativo e non competitivo, orientato all’uomo e non al denaro e al potere, amante della conoscenza, consapevole ed etico, in grado di superare quell’innaturale senso di separazione che è stato alimentato per tanto tempo. Perché possa realizzarsi, occorre che un certo numero di individui lo pensi e gli dia energia. Occorrono spiriti liberi e creativi, amorevoli e autenticamente responsabili: l’esatto opposto di quello che le forze oscure stanno imponendo a questa generazione. 


La rinascita educativa deve partire dalla comprensione degli errori e della cecità mentale che hanno prodotto il presente disastro e rifondare l’educazione sulla base di solidi valori spirituali, per colmare il vuoto della coscienza prodotto dalla visione materialista ed egoista dell’essere umano in cui siamo immersi. Per certi versi, si tratta di riscoprire idee e modelli già elaborati nella tradizione pedagogica e cancellati dalla pandemia; per altri, occorre creare qualcosa di completamente nuovo e adatto allo snodo cruciale della storia che ci è toccato di vivere. Sarebbe infatti sbagliato pensare al presente scenario come a una contingenza politica: il piano reale sul quale stiamo agendo è invisibile agli occhi, e riguarda proprio la nostra anima e la sua capacità di resistere al male dilagante, attingendo alle sue risorse profonde per salire più in alto.

La responsabilità che abbiamo come adulti è enorme: dobbiamo lanciare questi giovani verso un futuro per il quale non siamo attrezzati e quindi dobbiamo fare lo sforzo immane di trasformare noi stessi, sviluppando la Coscienza superiore, mentre tutto ci forza a scendere al livello della mente animale, con i suoi automatismi e la sua incoscienza. Ma solo così possiamo aiutarli. Per educare bisogna essere. Noi insegniamo ciò che siamo e nient’altro. 


Ci servono perciò consapevolezza e un grande lavoro su di noi, per risvegliare il divino in noi stessi e poter sostenere la crescita interiore delle giovani menti a noi affidate. Per poterli accompagnare, è indispensabile comprendere a fondo i loro bisogni. Abbiamo già individuato quelli contingenti, derivanti dalla situazione eccezionale vissuta. A essi dobbiamo aggiungere i bisogni evolutivi tipici dell’età, che vengono descritti sui manuali di psicologia dello sviluppo, e soprattutto i bisogni spirituali fondamentali, sui quali invece di solito si tace e che nella scuola non hanno più alcuno spazio per trovare soddisfazione. 


Il recupero della dimensione spirituale sarà ciò che farà la differenza, intendendo per “spiritualità” non l’adesione a credenze, pratiche o riti religiosi, che appartengono alla libera scelta di ciascuno, ma la semplice consapevolezza della propria essenza infinita e creativa, che supera i vincoli del nostro corpo tridimensionale, e dell’infinita connessione di tutto ciò che esiste. Questo ritrovarsi nella propria interezza di esseri multidimensionali è un’esigenza che un numero sempre maggiore di persone sta avvertendo in questi mesi, nei quali comincia a palesarsi la vera natura del potere nel nostro mondo.

I bisogni evolutivi dei bambini 

I bisogni evolutivi hanno natura essenzialmente psicologica e sono comuni ai bambini e ai ragazzi di una certa fascia di età. Non è certamente possibile riassumerli qui in poche righe, ma se ne può fare una carrellata per farsi un’idea d’insieme della complessità psicologica di un essere in crescita e anche della sensibilità necessaria a un adulto che voglia esserne il custode, soprattutto in un contesto ostile come quello attuale. 


La psicologa dell’età evolutiva Anna Oliverio Ferraris ha dedicato un breve e intenso capitolo1 ai bisogni dei bambini, rivolgendosi proprio ai genitori. I bambini, scrive, hanno bisogno di amore incondizionato, ovvero di essere accettati pienamente per come sono e di sviluppare legami di attaccamento sicuro, di sentirsi protetti, al sicuro, accolti nella famiglia, di avere regole chiare, che danno sicurezza. 


Hanno poi bisogno di essere rispettati in quanto bambini, di vedere riconosciute e validate le loro emozioni, di non venire caricati di responsabilità troppo grandi rispetto all’età, di non essere colpevolizzati, derisi o etichettati con nomignoli, di ricevere fiducia e autenticità, di avere risposte precise alle loro domande e di ricevere comunicazioni oneste e chiare, di non essere oggetto di critiche distruttive e di avere l’interesse degli adulti per ciò che fanno. Hanno bisogno del tempo dedicato a loro dagli adulti, di presenza, di attenzione individualizzata e di condivisione di attività, di contatto fisico, di supporto nei momenti di difficoltà, di non essere lasciati troppo soli e di ottenere ascolto, quando serve. 


Hanno bisogno di stimoli e di novità, ma anche di stabilità e di coerenza, di punti di riferimento affettivi e della stabilità emotiva che deriva da buoni legami di attaccamento. La stabilità familiare permette loro di sviluppare fiducia e ottimismo, di esplorare e prendere iniziative, di dare un senso coerente agli eventi, che diventano più prevedibili, favorisce la socializzazione, l’equilibrio fra autonomia e dipendenza, lo sviluppo della coscienza, la gestione dello stress, del dolore e dei conflitti, la formazione dell’identità, l’instaurarsi di legami affettivi sani. I bambini soffrono i cambiamenti troppo grandi e troppo rapidi; perciò è essenziale che i genitori abbiano reazioni prevedibili e la vita familiare e scolastica presenti delle routine, che garantiscano continuità alla loro esistenza.

I bambini hanno tempi diversi e più lenti di quelli degli adulti, e le tappe della crescita non possono essere forzate. Come diceva Rousseau, hanno bisogno di perdere tempo, cioè di assimilare le esperienze, di fare pause e di commettere errori, facendo da sé. È necessario che gli adulti rispettino i tempi della crescita, le fasi critiche dello sviluppo e i corrispondenti interessi dei bambini: il linguaggio nel secondo e terzo anno di vita; i coetanei e i rapporti sociali fra i tre e i sei anni; la scrittura fra i cinque e i sei; la seconda lingua prima dei sette anni, perché si impara più facilmente; l’attività motoria non specializzata e il gioco nei primi anni, per poter iniziare più tardi un’attività sportiva. Anche il mettere alla prova le proprie capacità è un’esigenza che richiede il rispetto dei tempi. Non si deve infantilizzare un bambino che sta conquistando una quota di autonomia. 


I bambini hanno inoltre bisogno di autorevolezza, quindi di genitori emotivamente forti, responsabili e capaci di prendere decisioni anche difficili, di essere caldi e amichevoli, ma anche di dare regole e controllo. Sebbene aspirino a rendersi autonomi e abbiano bisogno di essere incoraggiati in questo, hanno anche bisogno di dipendere dagli adulti. Non si può chiedere loro più di quello che l’età consente. 


Perciò è fondamentale dare loro sostegno alla crescita, fornendo modelli di comportamento, di gestione delle relazioni e dei conflitti, di azione responsabile. I bambini imparano imitando gli adulti. Devono essere evitati gli estremi dell’abbandono e dell’iperprotezione e va favorita la consapevolezza dei diritti e dei poteri: di esprimersi, di appartenere, di scegliere, di agire, di comprendere, di cavarsela. 


Infine, i bambini hanno bisogno di giocare, specie all’aria aperta. Il gioco è un’attività libera, gioiosa e appagante, che permette di sbagliare senza conseguenze e quindi di imparare. Soprattutto, va favorito il gioco spontaneo con i coetanei, che richiede fantasia, organizzazione, socialità, progettazione e regole autoimposte. Il gioco spontaneo permette di liberare energie e di curare ferite psicologiche, di sperimentare ruoli sociali e di esplorare il mondo, trovando adattamenti originali. Nell’attività fisica spontanea il bambino si mette alla prova e sviluppa audacia, sicurezza, senso di autoefficacia, autocontrollo, conoscenza di sé; acquisisce la capacità di fare amicizia, di comunicare, di fare la pace dopo un litigio o di condurre trattative con i pari, di misurarsi con i coetanei e di crescere sul piano emotivo, affettivo e sociale.

I bisogni evolutivi degli adolescenti 

Come ci ha spiegato lo psicologo del ciclo di vita Erik Erikson, ogni età della vita ha i suoi compiti di sviluppo. Un bambino non si conosce se non attraverso le sfide di crescita che la vita gli mette davanti: se tutto va bene, conquista dapprima la fiducia (0-1 anni), poi comincia a esplorare l’autonomia (2-3 anni), la sua capacità di iniziativa (3-6 anni), le sue capacità personali (6-12 anni), infine conquista la propria identità (in adolescenza) e si attende un riconoscimento sociale di essa. All’adolescente è richiesto di darsi un’identità stabile, che integri le proprie caratteristiche personali, i propri progetti di vita e le proprie potenzialità (Pace, 2008). Le tappe dello sviluppo psicosociale continuano con l’età adulta e con la vecchiaia (con le sfide dell’intimità, della generatività, dell’integrità dell’io), ma solo se ogni sfida è stata superata con successo si ha una crescita soddisfacente. Un anziano che non abbia conquistato la consapevolezza di sé ha di fronte la disperazione dell’aver mancato il senso profondo della propria esistenza. In ogni passaggio si annida il rischio del fallimento; per questo l’educazione è indispensabile a indicare la meta, a sostenere la ricerca del proprio percorso individuale e a riparare eventuali danni o a correggere le perdite di direzione. 


Il bisogno di darsi un’identità riconosciuta dall’ambiente sociale è il compito di sviluppo primario per un adolescente, davvero arduo in una società altamente complessa che non offre prospettive chiare di futuro e presenta molte insidie e ostacoli a una transizione serena all’età adulta. A questi ragazzi è richiesto di finire in fretta il ciclo secondario degli studi (come suggerisce l’assurdo liceo quadriennale), ma non è prospettato un avvenire dignitoso nel mondo della ricerca o del lavoro. La digitalizzazione a tutti i costi ha ridotto notevolmente le prestazioni cognitive dei ragazzi, sottratto tempo alla lettura e alla socialità, aumentato il disagio psicologico, senza dare un contributo reale alla loro crescita umana e personale. In una fase nella quale sono operanti le spinte all’esplorazione dell’identità e all’impegno nel conquistarla, la sfida evolutiva può essere mancata e sfociare nella diffusione dell’identità, nella moratoria o nella preclusione dell’identità (J. Marcia, 1980). Nella diffusione dell’identità sono bassi il livello di esplorazione delle identità possibili e di impegno nel deciderne una e l’adolescente fallisce il compito di sviluppo della sua età, rimanendo in un limbo esistenziale nel quale non si impegna in nulla, né nello studio né nel lavoro né nella formazione. Nella moratoria, esplora attivamente, ma non sceglie un’identità, rimanendo sospeso nell’incertezza sul suo futuro. Questa condizione, normale quando è di breve durata, se protratta a lungo impedisce di fatto di assumersi la responsabilità di decidere. Nella preclusione dell’identità, invece, l’adolescente si adegua alle aspettative familiari e sociali, seguendo passivamente una strada già tracciata per lui/lei. Abbiamo quindi alto impegno e basso livello di esplorazione.

Il modello degli stati d’identità di Marcia, per certi aspetti meno esplicativo di quello di Erikson che lo ha ispirato, per la minore attenzione agli aspetti relazionali e sociali, è stato integrato dal modello di Berzonsky (1989) sugli stili di identità, che illustra meglio i processi cognitivi e sociali medianti i quali gli individui si differenziano. Ognuno di noi costruisce una teoria del sé, che rimodella costantemente sulla base delle nuove informazioni che via via integrano quelle precedentemente acquisite. Esistono stili e orientamenti diversi nel funzionamento socio-cognitivo, nella risoluzione di problemi (problem solving) e nella presa di decisione (decision making), secondo Berzonsky: c’è uno stile orientato all’informazione (Information Oriented), che è tipico di chi ricerca attivamente le informazioni, le valuta e le elabora prima di impegnarsi in un ambito; uno stile orientato alla norma (Normative Oriented), caratteristico degli adolescenti che accettano in modo acritico la definizione dell’identità data dagli adulti e dalle norme sociali dominanti e si conformano agli standard della società e dei gruppi di riferimento; uno stile orientato all’evitamento (Diffusion Oriented), caratterizzato dall’evitamento di qualsiasi impegno in progetti a lungo termine e dal rinvio sine die delle decisioni importanti. Il primo orientamento rimanda agli stati di conquista dell’identità (alta esplorazione e alto impegno) e di moratoria (alta esplorazione e basso impegno) di Marcia; il secondo alla preclusione dell’identità (Bassa esplorazione e alto impegno); il terzo alla diffusione dell’identità (Bassa esplorazione e basso impegno). 


L’impegno, in questa prospettiva, diventa l’elemento decisivo, in grado di mediare fra lo stile individuale e l’esito finale del processo. L’annichilimento subìto dalle misure pandemiche non ha certamente potenziato l’orientamento all’impegno degli adolescenti. Molti si sono persi e non si sono ritrovati; altri hanno accettato passivamente la situazione, rinunciando a ribellarsi per definirsi in modo autonomo. L’intero processo di costruzione dell’identità è stato interrotto e messo in crisi; sono stati costretti a stare a casa con la famiglia e isolati dai coetanei nel momento in cui avevano bisogno di rendersi più indipendenti e di vivere la socialità con i pari; non hanno potuto valorizzare il corpo e sperimentare la sessualità nella fase più delicata dell’accettazione di sé; l’interruzione della scuola e per molti la discriminazione violenta sono stati motivo di smarrimento, di svalutazione e perdita di sé. Molti loro bisogni sono stati ignorati o cancellati: il bisogno di differenziarsi dai genitori e di conquistare l’autonomia; il bisogno di sentirsi adulti, di fare esperienza, di istituire mondi sociali; il bisogno di esplorazione, di valorizzazione e di affermazione di sé; il bisogno di appartenere, di costruire legami, di comunicare, di condividere azioni ed emozioni, di celebrare riti di legame e di passaggio; il bisogno di trasgressione e di superamento dei limiti, di esercitare il controllo personale, di emulazione e di superamento nei confronti dei coetanei, di accettare il proprio corpo e di usarlo in modo efficace, di acquisire un ruolo femminile o maschile; il bisogno di progettare il ruolo professionale e sociale, di sviluppare competenze intellettuali e conoscenze, di acquisire un sistema di valori e una coscienza etica e di sentirsi responsabili (Bonino, Cattelino, Ciairano, 2007). 


I comportamenti a rischio in adolescenza (assumere droghe, bere alcolici, fumare, guidare in modo spericolato, adottare comportamenti sessuali promiscui, commettere piccoli reati, come il taccheggio, ecc.) che riguardano solo una parte minoritaria dei ragazzi, rispondono agli stessi bisogni e svolgono le stesse funzioni dei comportamenti costruttivi (Ibid.). Spesso è il contesto di vita familiare, amicale, sociale che funge da fattore di rischio o di protezione nei confronti dell’esito finale. Di qui la grande responsabilità degli adulti nel favorire il soddisfacimento di questi bisogni in una modalità positiva per il ragazzo.

I bisogni spirituali 

Il punto di partenza e di arrivo del processo educativo deve essere la conoscenza di sé: di partenza, perché spetta all’educatore per primo porsi la domanda; di arrivo, perché se riesce a dare all’allievo gli strumenti per trovare se stesso ha adempiuto in pieno al suo compito. Le esperienze che un bambino o un adolescente fa nel suo percorso di crescita sono occasioni per conoscere se stesso. Se un adulto consapevole è presente accanto a lui, ogni evento, per quanto difficile o doloroso, può diventare un gradino di elevazione della coscienza. 


Sul piano spirituale, la conoscenza di sé implica molto più della soddisfazione dei bisogni psicologici, per quanto essenziali. Implica la comprensione della propria natura multidimensionale (corpo-mente-anima-spirito), dell’unità spirituale profonda oltre la dualità maschile/femminile e oltre la separatezza che caratterizza la nostra fisicità, della propria origine e della scintilla divina che ci portiamo dentro – se non si è del tutto spenta -, della condizione ontologica in cui ci troviamo a vivere in questa realtà che filosofi, mistici e poeti ci hanno descritto come apparente2, degli enormi vincoli che condizionano la nostra mente e che rendono necessario riconquistare la libertà e la forza che ci appartengono, della necessità di risvegliare la Coscienza e di rimanere, nonostante gli scenari in cui ci troviamo continuamente immersi, saldamente ancorati alla dimensione superiore da cui proveniamo, fatta di etica, responsabilità, giustizia, amore, gioia e bellezza3.

Ogni volta che si chiede qualcosa a un bambino o a un ragazzo, bisognerebbe sempre chiedersi se quella richiesta risponde ai suoi bisogni autentici, se lo fa crescere in modo libero, se favorisce la sua autonomia, se protegge la sua gioia interiore, se gli insegna a rimanere integro e a volersi bene. Se la risposta è “no”, allora quello che si sta facendo è dannoso, quando non abusante. Non importa se serve a calmare le nostre ansie o a farci fare bella figura. 


Proteggere l’integrità dell’educando è il compito primario di un educatore che voglia essere “custode dell’anima”. Rimanere integri significa rimanere interi, ovvero non permettere a nessuno di strapparci un pezzo della nostra anima, della nostra gioia, della nostra attitudine etica, della nostra libertà interiore. Siamo integri quando diciamo di no a qualcosa che ci degrada, che ci fa vibrare più in basso, che ci spinge a compiere un’azione dannosa per noi stessi o per gli altri. Per essere integri, occorre amare se stessi e sapersi proteggere; a volte, anche sapersi difendere. È il bisogno di integrità che fa anteporre la propria libertà a tutto, anche alla vita e che impedisce di cedere a un ricatto a qualunque costo. Quando cediamo al ricatto o alla violenza, poi ci sentiamo male e percepiamo il senso della perdita di una parte luminosa di noi. Questo sentimento può avere conseguenze devastanti. Per questo l’integrità è il bisogno educativo primario di un individuo in crescita. 


Il secondo bisogno educativo fondamentale è imparare ad amare se stessi. Lungi dall’essere segno di egoismo, l’amore per se stessi è la condicio sine qua non per poter amare veramente gli altri. Se c’è una parte di noi che rifiutiamo, disprezziamo, odiamo, essa proietterà la sua ombra sugli altri e ci impedirà di accoglierli per come sono, oltre a farci sentire sempre indegni di essere amati. Non per nulla il precetto evangelico dice: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Mc 12, 31; Mt 22, 39; Lc 10,27). Non dice più di te stesso. Amare se stessi vuol dire riconoscere la realtà del proprio essere, vedersi come si è effettivamente, senza illusioni consolatorie e senza condanna. Vuole dire prendersi cura dei propri difetti, delle ferite che ci portiamo dentro, dei propri bisogni autentici, che spesso ignoriamo, della propria salute fisica, psichica e spirituale, dei propri limiti, che vanno riconosciuti, delle proprie aspirazioni profonde. Quando un bambino impara ad amarsi, sarà un adulto sereno, equilibrato, amorevole ed empatico con la sofferenza altrui.

Il terzo bisogno educativo fondamentale è sentirsi amati e nutriti da almeno una relazione profonda. Gli esseri umani sono letteralmente costruiti dalle relazioni profonde, come si è già detto. La responsabilità dell’educatore è di far vivere al suo allievo l’esperienza di sentirsi amato e nutrito dall’amore autentico, che si fonda sulla cura (nel senso di agire responsabile) e sulla gioia spirituale. Chi fa questa esperienza troverà più facile amare se stesso e dare amore e a non scambiare il bisogno egoico e il possesso per amore, come avviene di solito. C’è una differenza fondamentale fra l’amore spirituale e l’amore come legame, attaccamento, bisogno o possesso: l’amore spirituale favorisce la libertà dell’altro e gioisce nel vedere la sua elevazione interiore; non possiede, non soffre per il distacco, non si aggrappa a nessuno. Sentirsi amati con questa qualità pura e luminosa è di per sé un modo per elevare la coscienza e fare esperienza della dimensione altra. 

Il quarto bisogno è diventare padroni della propria mente e delle proprie emozioni, per realizzare il distacco da entrambe. La mente animale, tipica della specie, la mente genetica, che ci collega ai nostri avi, e la mente autobiografica, con le nostre memorie personali, condizionano il nostro agire e limitano la nostra libertà quasi fino ad annullarla. Condizionati a nostra insaputa da automatismi e schemi di comportamento che non ci appartengono o su cui non esercitiamo un controllo, ma che ci portiamo dietro come un bagaglio ingombrante, oltre che come un repertorio di risorse di sopravvivenza, finiamo con lo smarrire completamente il senso di ciò che siamo davvero e di perdere il contatto con la Coscienza superiore, che è la nostra essenza autentica. Come essenze divine, non abbiamo identità né forma né dualità né materialità. Il lavoro sul Femminile e sul Maschile interiore dovrebbe condurci a sanare le ferite transgenerazionali che ci portiamo dentro, a riconoscere e ad abbandonare gli schemi animali e di addomesticamento che ci condizionano, a smettere di nutrire la mente animale con le emozioni fuori controllo e a ritrovare quel punto di consapevolezza, l’Osservatore puro, dal quale possiamo vedere e comprendere in modo immediato e intuitivo la nostra realtà al di là del velo di Maya. 

Un quinto bisogno educativo è crescere liberi da troppe interferenze. Un figlio o un allievo non è un pezzo di cera plasmabile a nostro piacimento. Ogni individuo che nasce ha in sé talenti e progetti, che è nostro compito far emergere e custodire, affinché possa esprimerli e realizzarli, anche quando sono diversissimi dai nostri. Il compito assai difficile dell’educatore è mantenere la giusta misura fra presenza e assenza, per essere autorevole senza interferire e sostenente senza soverchiare.

Il sesto bisogno è imparare a pensare con la propria testa e sviluppare discernimento, senso critico e indipendenza di giudizio. A scuola non lo si insegna quasi più, ma solo chi sa essere critico innanzitutto con se stesso e sa vagliare continuamente le proprie convinzioni, confrontandole con quelle degli altri, è in grado di rendersi libero da condizionamenti e manipolazioni. Il conformismo uccide l’intelligenza e degrada la coscienza. Perciò il pensiero libero, che aiuta a liberarsi dalle illusioni, ha natura spirituale. 


Al settimo posto possiamo mettere il bisogno di imparare ad ascoltare con empatia, ma senza far propri stati d’animo ed emozioni altrui, e a comunicare in modo non violento, dialogante e rispettoso. Proprio perché in questo mondo dilagano la sordità alle ragioni altrui, la prepotenza e l’ostilità, è necessario sviluppare la capacità di cercare la verità attraverso il dialogo. Ogni bisogno educativo è relativo al contesto in cui si cresce, e il nostro è molto degradato. 


L’ottavo bisogno fondamentale è imparare a essere autentici, ad amare la verità e ad agire con giustizia. Quando siamo autentici, quando evitiamo le ipocrisie e le manipolazioni, ci sentiamo meglio e costruiamo relazioni più solide e durature, anche se ci mostriamo meno compiacenti. Niente è più sano del togliersi la maschera e di trovare il coraggio di fare la cosa giusta. 


Il nono bisogno educativo è imparare dai propri errori. A scuola e in famiglia spesso l’errore è visto come qualcosa da evitare a tutti i costi e viene sanzionato e disapprovato. In realtà, l’errore è il mezzo migliore che abbiamo per avanzare nella conoscenza e per sgonfiare l’ego. Occorre una sana pedagogia, che insegni la felicità dell’errore e la grande soddisfazione che si prova quando lo si riconosce, facendo così un passo verso la verità, specie nel confronto con gli altri. Solo attraverso l’accettazione dell’errore si può sviluppare la creatività, che è una delle qualità originarie dell’essenza spirituale. 


Al decimo posto, per concludere questo decalogo, potremmo collocare il bisogno di conservare o risvegliare la gioia spirituale che ci portiamo dentro dai mondi superiori, che si risveglia attraverso la bellezza. Si tratta proprio di quella gaiezza che vediamo nei bambini, prima che il mondo degli adulti gliela distrugga. Proteggere la propria gioia e quella dei più giovani è essenziale per rigenerare la Coscienza spirituale. Di conseguenza, occorre imparare a non farsela togliere da niente e da nessuno. Educare alla bellezza, che giustamente Platone nel Simposio considerava la via di accesso alla dimensione delle Idee, è una delle attività più preziose e dense di futuro.

L’ambiente educativo 

Maria Montessori diceva che il bambino deve vivere in un ambiente di bellezza. L’amore per il bello fa parte della nostra essenza più profonda ed è ciò che va recuperato per uscire dall’oscurità profonda in cui sono stati cacciati i nostri ragazzi. La rinascita educativa è innanzitutto spirituale. “L’occhio non vedrebbe mai il Sole se non fosse già simile al Sole, né un’anima vedrebbe il bello se non fosse bella. Ognuno dunque diventi anzitutto deiforme e bello, se vuole contemplare Dio e la Bellezza”4, scriveva Plotino. 


Platone ci ha illustrato i gradi di elevazione dell’anima fino alla Bellezza ideale: la bellezza di un corpo, poi di tutti i corpi, poi la bellezza dell’anima, la bellezza delle attività umane e delle leggi, la bellezza delle scienze e infine lo “sconfinato oceano della Bellezza”


una bellezza, anzitutto, eterna, che non ha origine né fine, che non cresce né si consuma e, inoltre, che non è per un verso bella e per un altro brutta o che a volte sì e a volte no, né bella da un punto di vista e brutta da un altro, né bella qui e brutta là, come se lo fosse per alcuni e per altri no, né, questa bellezza, gli apparirà con un volto o con due mani, né come qualcosa che possa riferirsi ad alcunché di corporeo e nemmeno come discorso o come dottrina, né come quella che possa esistere in qualche altra cosa, in altri esseri viventi, per esempio, o nella terra o nell’aria o altrove, ma quale essa è, in sé e per sé, sempre uniforme e mentre tutte le altre cose belle che di quella partecipano, nascono e periscono, essa non ha alterazione di sorta, in più o in meno, non subisce mutamento5.

Per riconoscere la bellezza, occorre viverla, sperimentarla, averla sotto gli occhi. Percepire e comprendere la bellezza è un percorso spirituale, che parte dai sensi e arriva alle vette dello spirito. Un ambiente educativo armonioso, luminoso e bello è sempre stato il luogo ideale per crescere, ma ora lo è più che mai. Dopo anni di bruttezza, di degrado morale, di violenza, di informazione tossica, di film macabri e di musica orrenda, con cui si è imprigionata la mente dei giovani ai livelli più bassi, la liberazione e il risveglio non possono che venire dalla riscoperta del bello. 


La bellezza è innanzitutto un’esperienza. Si apprende sperimentandola, respirandola, standoci immersi. Non è comunicabile per via linguistica o concettuale, se non in misura del tutto inadeguata. Non dipende dal gusto soggettivo, come ci ha insegnato Immanuel Kant, ma è un a priori, una tendenza costitutiva della nostra mente, che tende all’universalità. Il giudizio estetico è sempre disinteressato, pura contemplazione che dà piacere, perché riflette uno stato interiore, una condizione della mente che si percepisce solo attraverso la contemplazione del bello. Potremmo dire che la percezione del bello risveglia in noi la consapevolezza della nostra natura spirituale. 


Se facciamo crescere un bambino nella bellezza e gli facciamo sperimentare i diversi livelli di elevazione a cui la bellezza può condurre, gli diamo la possibilità di sviluppare al meglio quello che Maria Montessori chiamava l’embrione spirituale. Se respira bellezza, un essere in crescita saprà sempre distinguere il bello dal brutto, ciò che eleva e ciò che degrada. La bellezza è forma e la forma è risonanza. Un ambiente educativo bello, armonioso, accogliente, ordinato, su misura, nel quale il bambino fa esperienza di arti figurative e plastiche, di musica, di danza, di teatro; in cui sta bene e si sente amato e sostenuto, in cui si muove libero ed è disciplinato dal suo interesse per ciò che sta imparando; nel quale è responsabile degli oggetti e del suo movimento nello spazio; in cui sperimenta l’amicizia, la gioia di condividere, la bellezza delle azioni e delle parole è esattamente ciò che serve per superare l’orrore del carcere sanitario e della persecuzione dei sani. 


Se a scuola non c’è, come accade spesso, occorre crearlo. L’ambiente ideale per l’educazione, come hanno insegnato tutti i grandi pedagogisti fin dall’epoca dell’Umanesimo, è collocato nel verde, in un luogo tranquillo, e dà la possibilità di sperimentare la connessione profonda con la natura e il suo potere rigenerante. Come dicevamo, niente può aiutare a disintossicarsi dal digitale quanto l’entrare in contatto con gli elementi (acqua, aria, terra, fuoco) e con il mondo vivente, vegetale e animale. Come dicevamo nel capitolo precedente, Froebel, Montessori, Décroly, Pizzigoni e tanti altri hanno insistito sul valore responsabilizzante della coltivazione dell’orto o dell’allevamento di piccoli animali, che offre anche un grande potenziale didattico trasversale fra le discipline, specie per i più piccoli. Anche questo aspetto non va sottovalutato: l’isolamento, l’abuso del digitale e l’uso coercitivo delle mascherine hanno prodotto un impatto devastante sulle capacità empatiche di bambini e ragazzi. La relazione anche affettiva con un animale può senz’altro contribuire a riparare il danno: fra bambini e animali c’è un’intesa innata e immediata, se gli adulti hanno saputo mantenerli integri. In ogni caso, insegna l’empatia e il rispetto verso le altre specie viventi.

Stare all’aperto il più possibile favorisce il movimento, la salute, il benessere e la gioia. Inoltre, favorisce lo sviluppo della capacità di osservare e la motivazione ad apprendere. La curiosità e il bisogno di mettersi alla prova sono infatti spinte potentissime alla conoscenza. I suoni della natura distolgono la mente dal suo lavorìo inconcludente e riportano nel qui e ora dell’esperienza. Anche negli ambienti al chiuso la presenza di piante o animali può rendere l’atmosfera più calda e accogliente. 


L’amore per la natura può potenziare l’attitudine a riconoscere il bello naturale. Un’educazione integrale deve anche sviluppare la sensibilità alla bellezza artificiale, prodotta dall’uomo con la sua ispirazione profonda e con il suo ingegno. Per distinguere una musica bella ed elevata da una cacofonia degradante bisogna frequentare la bella musica fin dall’infanzia, entrare in risonanza profonda con essa. Per apprezzare la bellezza di un dipinto, di una scultura, di un edificio, di un oggetto occorre rimuovere le influenze condizionanti provenienti dai media e dalle politiche di destrutturazione dell’umano, che bombardano continuamente i giovani con messaggi violenti e oscuri. Attraverso le canzoni, i film, le mode, le immagini di ogni tipo, compresa la trappola del Metaverso, l’inconscio dei ragazzi è intossicato e imprigionato in idee, immagini, vibrazioni sonore velenose e perverse. Occorre quindi prima togliere il veleno, poi sostituirlo con esperienze nutrienti per l’anima. La bellezza non è un orpello decorativo, ma è il cuore della rinascita dell’umano. La si deve respirare in ogni istante e in ogni forma: visiva, sonora, verbale, motoria, tattile, nelle azioni e nelle relazioni. Educare alla bellezza sarà la priorità assoluta per una pedagogia veramente ricostruttiva, attenta ai bisogni fondamentali dei bambini e dei ragazzi.

La consapevolezza emozionale 

Come abbiamo detto, la leva principale della manipolazione mediatica con la quale sono state distrutte la convivenza civile e la dignità umana è costituita senza dubbio dalle emozioni, suscitate, ingigantite, piegate con pervicace cattiveria sempre verso il registro della paura, dell’odio e della colpa. Nella mente psicopatica dei tiranni globali la società da plasmare è una società aperta (open society), nella quale, con il solito stravolgimento semantico, il concetto in apparenza positivo di “aperta” sta per “atomizzata, priva di qualunque identità o legame”, in cui il singolo è nemico di tutti gli altri ed è solo e inerme di fronte al Potere senza volto degli oligarchi che lo rende schiavo e anonimo. 


La guerra psicologica contro la gente ha coinvolto e colpito soprattutto i ragazzi, che ne saranno segnati per sempre. In particolare, ha riattivato le memorie collettive di guerra, di schiavitù, di paura della morte e di sottomissione al tiranno, nonché le memorie animali del branco, della solitudine, della violenza. Un tale livello di intossicazione emotiva, che comprende anche la negazione dei propri bisogni vitali, la dissonanza cognitiva fra l’amore per i genitori e l’esperienza di essere costretti a comportamenti dolorosamente innaturali da chi dovrebbe occuparsi del loro benessere, l’esposizione a un clima da caccia alle streghe, che li ha spinti nel ruolo di vittima o di persecutore, il senso di colpa verso i nonni e il terrore del contagio, non può che richiedere un’attenzione estrema al vissuto emotivo. Servirà uno specifico lavoro sulla consapevolezza emozionale, alla quale di solito a scuola si dedica uno spazio marginale e che, nel contesto dell’istituzione totalizzante a cui si è ridotta, non ha margini di credibilità e di realizzabilità. Non si cura la ferita dell’abuso in un ambiente abusante e non si tratta un inquinamento così profondo dell’inconscio collettivo con mezzi ordinari. 


Saper riconoscere, nominare, gestire, padroneggiare le emozioni è ciò che caratterizza l’intelligenza emotiva (Salovay e Mayer, 1990). Daniel Goleman (1995) ritiene che essa sia definita da diverse abilità: l’autoconsapevolezza, ovvero la capacità di riconoscere un sentimento nel momento in cui esso si presenta, intesa come una continua attenzione riflessiva verso la propria esperienza interiore; l’autoregolazione, che permette di gestire emozioni, limiti e punti di forza per raggiungere i propri obiettivi, proprio perché ci si conosce; la motivazione, che permette di trasformare i pensieri negativi in positivi e di mantenersi concentrati sull’obiettivo; l’empatia, ovvero la capacità di comprendere appieno e percepire lo stato d’animo delle altre persone; l’abilità sociale, che consente di comprendere gli altri, di percepire l’effetto che si ha su di loro, di sapere come comportarsi e di gestire quindi le emozioni altrui, grazie all’autocontrollo e all’empatia.

Non ci sono emozioni positive ed emozioni negative in assoluto. Con le emozioni reagiamo a stimoli ambientali sulla base del modo in cui elaboriamo le informazioni e stabiliamo in ogni momento se l’ambiente è conforme ai nostri scopi. Senza la paura, per esempio, non cercheremmo di scappare o di difenderci in caso di pericolo; senza la rabbia troveremmo difficile ristabilire i nostri confini violati; senza la tristezza non riusciremmo a elaborare perdite e lutti. Il problema sorge quando un’emozione è cronica o disfunzionale rispetto al contesto (abbiamo paura senza motivo reale, siamo arrabbiati quasi sempre, siamo abitualmente tristi) o quando è indotta scientemente per manipolarci e per controllare la nostra mente, suggerendo una lettura allarmante o nociva per noi di fatti altrimenti neutri. Bisogna ricordare che persone diverse possono interpretare in modi anche molto differenti stimoli e situazioni: un insuccesso può portare alcuni verso lo sconforto e incoraggiare altri a superare i propri limiti; un evento può essere letto come pericoloso o come indifferente a seconda della propria visione del mondo; una contrarietà può suscitare rabbia, divertimento o sollievo anche nella stessa persona in momenti diversi. 


I filosofi da secoli suggeriscono che siamo noi a decidere se essere padroni o schiavi delle nostre emozioni. Nel primo caso, decidiamo noi che cosa fare della nostra reazione emotiva spontanea; nel secondo, siamo alla mercé degli eventi e diamo agli altri il potere di condurci dove vogliono, prendendo la nostra energia per i propri scopi. Se siamo consapevoli e abbiamo sufficiente distacco, se siamo centrati e capaci di osservarci, riusciamo a accorgerci quando qualcuno sta usando le nostre emozioni, provocate ad arte, per danneggiarci o quando semplicemente stiamo interpretando uno schema di reazione che ha radici nel nostro passato o nelle memorie della stirpe. A volte, reagiamo agli eventi proprio come facevano i nostri genitori o i nonni, e facciamo diventare nostra un’emozione o un’azione che non ci appartiene. 


Per questo, la generazione che ha vissuto questo trauma collettivo ha bisogno di imparare a riconoscere, a esprimere, a gestire e a dominare le proprie emozioni e a comprendere quelle degli altri. Il lavoro sulla consapevolezza emozionale è necessario per diventare empatici e forti nello stesso tempo, usando la Coscienza superiore anziché le memorie proprie o altrui per osservare e comprendere che cosa sta accadendo in ogni situazione.

Rigenerare il linguaggio 

George Orwell, che conosceva i progetti di ingegneria sociale della Fabian Society, ci ha spiegato molto bene come l’uso manipolativo del linguaggio da parte delle élite, che controllano i media, l’economia e l’educazione, orienti i pensieri e definisca i confini entro cui deve collocarsi la comprensione del mondo da parte del popolo. Decenni di falsità accuratamente travestite da verità inconfutabili hanno fatto sì che la visione del mondo delle masse fosse completamente distorta. 


L’intossicazione delle menti prodotta dal linguaggio menzognero è duplice: da un lato, essa consiste nel capovolgimento della realtà, a uso dei manipolatori, dall’altro ha un effetto limitante del pensiero anche per quello che viene taciuto e che non entra nella coscienza collettiva, tenendola costantemente su un basso livello di consapevolezza. Ciò che non viene nominato non esiste; ciò che viene inquadrato in una particolare area di significato per effetto del framing, dell’effetto cornice, viene percepito nel modo voluto da chi ha coniato l’espressione linguistica. La manipolazione dei significati crea un corto circuito semantico che suggerisce particolari connotazioni del messaggio, rimandando a uno specifico universo ideologico, ovvero al contesto valoriale condiviso di una società, al quale la propaganda contribuisce non poco. Per esempio, se chiamo “missione di pace” un intervento armato in un altro Paese non belligerante, sto creando un corto circuito semantico: “missione” rimanda infatti a significati positivi (pure etici e religiosi: fare l’insegnante, il medico per missione; fare il missionario) e anche negativi (incarico pericoloso, magari omicida; missione militare, di spionaggio, criminale), ma associata alla parola “pace” fa selezionare automaticamente solo le connotazioni positive, annullando quelle negative, che sarebbero peraltro più appropriate. E poiché la pace è un bene altamente stimato nelle società occidentali dopo le guerre mondiali e sulla retorica del mantenimento della pace, con una grandiosa opera di propaganda, è stata costruita l’Unione Europea, ecco che in tal modo si azzera subito il potenziale di contestazione dell’opinione pubblica, che mai accetterebbe di pagare per l’invio di armi e contingenti militari in un Paese straniero per tutelare gli interessi di potentati privati, al prezzo di molte vite umane. Ci si sente perfino più buoni a contribuire a una “missione di pace”! D’altra parte, per convincere che di questo si tratti e non di un’impresa criminale di rapina e distruzione, basta bombardare la gente attraverso la televisione e la stampa compiacente di immagini (false) e di narrazioni totalmente infondate sul “nemico” da neutralizzare per riportare la pace. È esattamente quanto successe in Kosovo ai tempi dell’intervento militare italiano (1998- 99): il 6 settembre 2001 la Corte Suprema di Pristina, sotto l’egida dell’ONU, sancì che i miliziani serbi di Milosevic non avevano commesso alcun genocidio. La fuga di 800mila abitanti del Kosovo fu causata dai bombardamenti NATO, non dai serbi. Eppure, i titoli di stampa erano drammatici e riferivano di stragi, di deportazioni e di pulizia etnica. Marcello Foa, che riporta l’episodio6, rileva come la notizia della sentenza fosse passata quasi inosservata, nonostante le clamorose bugie confezionate dalla stampa per giustificare l’intervento armato.


A molte persone sfugge l’enorme potere della parola, che può letteralmente creare la realtà e dirigere la percezione degli eventi. Il filosofo greco Gorgia, nell’Encomio di Elena, lo vedeva molto chiaramente già nel V secolo a. C.: “La parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti sia a calmare la paura sia ad eliminare il dolore sia a suscitare gioia sia ad aumentare la pietà”. La parola muove gli affetti e letteralmente cambia lo stato interiore delle persone; può elevarle o abbatterle, calmarle o eccitarle, mediare i conflitti o suscitarli. Nelle tradizioni religiose più antiche, la parola è suono che crea, manifestazione dell’intenzione creativa. Dio crea attraverso la parola7.

C’è un linguaggio veritiero, che parla al cuore ed esprime giustizia, bellezza, amore, e un linguaggio menzognero, che distrugge, avvelena, consuma. Il primo ci connette con la nostra parte migliore, il secondo la annichilisce in noi e negli altri. Masaru Emoto (2007) ci ha illustrato con le sue eloquenti fotografie l’effetto che la parola e in genere il suono ha sulla forma dei cristalli d’acqua. Gli esperimenti di cimatica8 ci mostrano come la frequenza del suono generi una particolare forma, che si modifica a salti, man mano che la frequenza cambia. Potremmo dire che la parola è vibrazione che crea forma. E la forma è energia, a sua volta; per questo si parla di onde di forma. Di qui il potere dei simboli, anche nella magia, e l’effetto che la forma di una statua, un dipinto, una musica ha sulla nostra psiche. I biologi molecolari sanno bene che il funzionamento corretto di una proteina dipende dalla sua corretta forma tridimensionale e che l’effetto biologico di due proteine identiche, ma orientate spazialmente in senso opposto è diverso. Tutto nella forma è rilevante. 


Tenere a mente il potere in-formativo (= che dà forma dal di dentro) della parola è indispensabile per soddisfare uno dei bisogni educativi più essenziali e trascurati nella falsa pandemia: il bisogno di verità e di comunicazione autentica. Il linguaggio autentico, che esprime verità, dà letteralmente forma, esprime l’essenza di chi lo usa e di chi lo riceve, genera benessere, appagamento profondo, chiarezza del pensiero e dei sentimenti. La verità rende liberi e permette di conoscersi, di stabilire legami profondi, di resistere alla manipolazione, di costruire mondi sociali più evoluti. Dobbiamo perciò rigenerare il linguaggio dalle radici, riportarlo all’autenticità e rendere i nostri figli consapevoli delle sue trappole e delle sue infinite potenzialità.

Oltre la scuola e l’homeschooling
Oltre la scuola e l’homeschooling
Patrizia Scanu
Riparare i danni della pandemia ed educare per il mondo che verrà. Una proposta di intervento educativo da realizzare nel contesto dell’istruzione parentale per gli allievi della scuola secondaria inferiore e superiore, ispirata al modello umanistico dell’educazione integrale (che coinvolge corpo, mente, anima e spirito), con il proposito di formare anime libere e capaci di sentire e di pensare.