CAPITOLO 2

I DANNI DELLA PEDAGOGIA NERA

C’era qualcosa in lui, qualcosa di selvaggio, di sregolato, di barbarico, che bisognava prima spezzare; una fiamma pericolosa, che bisognava prima calpestare e spegnere. L’uomo, come la natura lo crea, è qualcosa di imprevedibile, di impenetrabile, di pericoloso. È un fiume che erompe da monti sconosciuti; è una selva primordiale che non ha né vie né ordine. E come una foresta deve essere sfoltita e ripulita e chiusa di forza entro confini precisi, così la scuola deve spezzare, vincere, chiudere di forza entro limiti precisi l’uomo naturale; il suo compito è di trasformarlo in un utile membro del consorzio umano secondo principi approvati dall’autorità; di destare in lui le qualità il cui compiuto sviluppo verrà poi coronato dall’accurata disciplina della caserma. 

Hermann Hesse, Sotto la ruota

I nostri figli sono stati esposti per due anni a un lavaggio del cervello senza precedenti, a violente limitazioni della loro libertà e a un pensiero totalitario e antiumano che li ha profondamente segnati. Come dicevamo, la scuola, lungi dall’essere per loro un luogo protettivo, un’oasi di pace e di tolleranza, nel quale poter sanare le ferite inferte dalla lunga interruzione delle lezioni e dal clima di psicosi collettiva, è stata bersagliata da norme criminali e avvilenti, applicate quasi ovunque con spietato zelo da passivi esecutori senz’anima e senza cuore. Come potevano difendersi, se tutti – genitori, insegnanti, forze dell’ordine, autorità politiche e sanitarie che li martellavano quotidianamente grazie ai media asserviti – facevano pressione perché rinunciassero al diritto di respirare, alla libertà di uscire, di viaggiare, di fare sport, di frequentare gli amici, i nonni, insomma di vivere? Possiamo scrivere bellissime pagine sulla capacità di resilienza di bambini e ragazzi, ma una pressione psicologica così estrema non può non lasciare il segno. E deve lasciare il segno, perché ciò che abbiamo visto non deve più succedere.

Mattias Desmet si è chiesto come mai una parte non piccola della popolazione – secondo lo studioso, il 30% circa – non ha creduto alla narrazione mediatica e in molti casi non si è piegata, se non per sopravvivere, alla follia collettiva. Per questa fetta della popolazione, la formazione di massa non ha avuto luogo, l’ansia non ha trovato nella malattia un oggetto a cui attaccarsi. La ragione più plausibile, secondo lui, è la visione del mondo a cui le persone aderiscono. Per chi ha una visione materialista della vita e della medicina, per la quale l’essere umano è fondamentalmente materia, la malattia un nemico da combattere con ogni mezzo e la nuda vita biologica (ζωή, zoé) è prioritaria rispetto alla libertà e alla vita piena e vissuta (βίος, bíos)1, la paura di morire è invalicabile e la sopravvivenza l’unico obiettivo in grado di mobilitare le risorse interiori. Potremmo dire che, in questa prospettiva, meglio essere schiavi, ma vivi, e affidarsi all’autorità piuttosto che prendersi la responsabilità di decidere per sé, assumendosene il rischio. Per chi invece percepisce l’uomo come un essere multidimensionale, fatto di corpo, mente, anima e spirito in costante dialogo fra loro, la libertà è il valore più alto, la malattia va compresa e prevenuta con uno stile di vita sano, la vita è degna di essere vissuta solo se piena e soddisfacente, non è la morte a suscitare paura, ma la perdita della libertà. Per queste persone, è meglio la morte che la rinuncia a essere liberi e a potersi autodeterminare. Non sono disposte a delegare all’autorità né a cederle sovranità personale e diritti inviolabili, in nessun caso. Sono probabilmente meno sensibili alla pressione alla conformità da parte della maggioranza, più fiduciose nella propria capacità di badare a se stesse e più inclini a proteggersi. Per loro, piegarsi a norme illegittime e dannose o cedere a un ricatto è un’inaccettabile violazione della propria dignità o per lo meno un insulto alla propria intelligenza.

Si potrebbe ipotizzare che tale differenza sia di natura squisitamente spirituale e indipendente da età, sesso, livello sociale o di istruzione. È stata esperienza di molti il fatto che tale differenza abbia attraversato le famiglie, le coppie, le classi scolastiche, le relazioni di amicizia, di lavoro, di vicinato. La polarizzazione è stata in gran parte voluta per ragioni di controllo sociale da parte delle autorità politiche, che hanno artificiosamente creato i buoni e i cattivi, i responsabili e gli egoisti, i credenti e i negazionisti, i provax e i no-vax. George Orwell, ben consapevole dei progetti di depopolamento e di controllo totalitario della Fabian Society2 di cui faceva parte, ha illustrato con chiarezza nel romanzo 1984 come la creazione di un nemico immaginario sia funzionale al dominio elitario sulle masse. Ciò che invece non era intenzionale da parte dei controllori era lo straordinario senso di unione che si è creato fra i reietti e gli esclusi, accompagnato da uno spettacolare risveglio delle coscienze su scala planetaria. Il male, spinto alle estreme conseguenze, finisce con il rovesciarsi nell’opposto. 


Come i nostri figli sono stati esposti al campo morfico collettivo della paura e del controllo, sono esposti e lo saranno sempre più alla radiazione della coscienza e dell’amore. È a questo che dobbiamo prepararli. A tal fine, ci serve una riflessione pedagogica su misura per questo momento storico e per i loro nuovi bisogni, il primo dei quali è riparare ciò che è stato danneggiato.

Un bilancio dei danni 

Quando si vuole distruggere una nazione, com’è avvenuto all’Italia nel 2020-22, non basta fermare l’economia, bloccare il turismo, togliere reddito e lavoro, vessare le piccole e medie imprese, aumentare le tariffe, privatizzare tutto il possibile, acqua compresa, far esplodere la spesa pubblica con spese sanitarie folli quanto inutili, abbattere il morale, disgregare la coesione sociale con campagne d’odio martellanti, instaurare un regime di controllo poliziesco e arbitrario anche fra i cittadini, inoculare senza alcuna precauzione una sostanza mai sperimentata prima sull’uomo e potenzialmente pericolosa o addirittura mortale. Occorre soprattutto colpire e indottrinare i bambini e gli adolescenti, fiaccarli, annientare il loro spirito e coinvolgere beffardamente nell’operazione anche gli adulti che dovrebbero tutelarli, e poi inoculare senza alcuna ragione scientifica anche loro, costringendoli a piegarsi con un bieco ricatto. Se si possono irreggimentare i giovani e sottrarre loro ogni possibilità di ribellione, si può dominare una nazione completamente e impadronirsi del suo futuro. 


Bambini e adolescenti italiani hanno pagato un prezzo altissimo per questi due anni di follia, più dei loro coetanei di altre nazioni europee e occidentali. Centinaia di studi scientifici3, pubblicati sulle migliori riviste internazionali, hanno lanciato l’allarme fin dall’inizio del 2020. Ne abbiamo parlato nel libro Emergenza scuola (Scanu, Fagnani, 2020). Ormai non passa giorno senza la pubblicazione di dati sempre più preoccupanti. Si può citare uno studio canadese importante, pubblicato su Jama Pediatrics il 7 febbraio 2022, che segnala l’aumento rilevante di disturbi mentali e comportamentali nei ragazzi e, in particolare, l’incremento del 74,7% per i disturbi d’ansia, del 73,2% per le psicosi, dell’83,6% dell’abuso di sostanze, del 64,6% di problemi sociali, del 69,8% dei disordini del neurosviluppo (Saunders et al., 2022). Le misure di isolamento e quarantena, come confermato nel 2020 da uno studio britannico (Brooks et al., 2020) su Lancet, che presenta un’ampia revisione della letteratura sull’argomento, producono effetti psicologici negativi a breve e a lungo termine: diminuzione del benessere psicologico e una varietà di sintomi psicologici e disordini emotivi, come depressione, ansia, insonnia, sintomi post-traumatici. Se questo vale per gli adulti, ancora più gravi le conseguenze per bambini e adolescenti, per i quali si assiste a un incremento del rischio di suicidio correlato alla quarantena, per via del senso di esclusione e di isolamento (Longobardi et al., 2020).


Se si volesse provare a tracciare un quadro sintetico dei danni prodotti dalla gestione politica dell’epidemia da Covid-19 sulla salute complessiva di bambini e ragazzi, si potrebbero raggruppare in tre tipologie, senza dimenticare gli effetti di interazione fra i diversi piani: danni fisici, danni psichici, danni spirituali. Poiché se ne è già trattato ampiamente nel libro Emergenza scuola, può essere sufficiente qui una rapida carrellata.

Danni fisici 

  • danni provocati da un uso prolungato delle mascherine (aumento di volume dello spazio morto respiratorio, aumento della resistenza respiratoria, aumento dell’anidride carbonica nel sangue, diminuzione della saturazione di ossigeno nel sangue, aumento della frequenza cardiaca, aumento della pressione sanguigna, diminuzione della capacità cardiopolmonare, aumento della frequenza respiratoria, mancanza di respiro e difficoltà respiratorie, cefalea, acidosi, difficoltà di concentrazione, malessere e senso di soffocamento, ridotta capacità di pensare, acne, lesioni e irritazioni cutanee, possibile influenza negativa sullo sviluppo cerebrale per riduzione cronica dell’apporto di ossigeno in un cervello in crescita) (Kisielinski et al., 2021); 
  • danni provocati dalla sedentarietà e dall’interruzione delle attività ludiche, motorie e sportive, soprattutto all’aperto; 
  • danni provocati dall’eccesso di utilizzo delle tecnologie digitali, fra cui miopia, disturbi del sonno, riduzione delle attività di motricità fine e impatto negativo sullo sviluppo delle corrispondenti vie neurali; 
  • indebolimento delle difese immunitarie per via del clima di paura intenso e prolungato, della vita malsana al chiuso, della carenza di luce solare e di attività piacevoli in compagnia dei pari; 
  • aumento dei casi di violenza domestica; 
  • gravi patologie e morti conseguenti alla violenta campagna di inoculazioni (miocarditi, pericarditi, infarti, specie fra gli sportivi, patologie neurologiche, morti improvvise, ecc.).

Danni psichici4 

  • Ritardi nell’apprendimento del linguaggio; 
  • Difficoltà a decodificare le espressioni facciali per via delle mascherine; 
  • Apprendimenti mancati per la prolungata interruzione scolastica e per le frequenti quarantene; 
  • Dipendenza da digitale e da sostanze; 
  • Perdita di empatia; 
  • Isolamento e mancanza di relazione; 
  • Emozioni negative fuori controllo (ansia, frustrazione, paura, ostilità); 
  • Rischio suicidario, psicosi, disturbi psichici vari; 
  • Effetti dannosi della colpevolizzazione e del clima abusante; 
  • Effetti della discriminazione e dell’emarginazione; 
  • Induzione all’obbedienza acritica, che azzera la capacità di reazione; 
  • Conformismo, delazione ed esclusione morale; 
  • Accettazione passiva di misure coercitive al limite della tortura psicologica e del sadismo di Stato.

Danni spirituali 

  • Perdita di senso; 
  • Perdita della gioia di vivere; 
  • Rinuncia alla propria dignità; 
  • Rinuncia a soddisfare bisogni fondamentali; 
  • Rinuncia a progettare il futuro; 
  • Rinuncia a esercitare i diritti umani basilari, fra i quali il diritto allo studio, al gioco, all’autodeterminazione; 
  • Complicità con chi esercita il ricatto, per il fatto di cedere; 
  • Disumanizzazione dell’altro e discriminazione; 
  • Addomesticamento. 


Parlando della teoria economica neoliberista, la premier britannica Margaret Thatcher diceva, nel 1981, “l’economia è solo il mezzo; il fine è cambiare il cuore e l’anima”5. I risultati si sono visti: competizione, individualismo, lotta per la sopravvivenza, il denaro come unico dio e suprema misura del valore, disgregazione della famiglia e dei valori di solidarietà sociale, trasferimento sistematico di ricchezza dai poveri ai ricchi su scala globale sono stati gli effetti di questa visione predatoria e disumana dell’economia, nella quale l’uomo non è il fine, ma solo il mezzo. È l’apoteosi del darwinismo sociale, per il quale solo i più forti economicamente sono adatti a vincere la quotidiana lotta per la sopravvivenza. Sulla scuola, la visione neoliberista ha prodotto aziendalizzazione dell’istruzione, subordinazione della cultura alle esigenze produttive, impoverimento dei contenuti e del potenziale emancipante del sapere, idolatria della tecnologia digitale e tutta una serie di riforme che hanno sfigurato il sistema educativo. Tale obiettivo, stando alla leader politica britannica, era intenzionale. 


I danni della gestione epidemica si sommano a quelli già prodotti da decenni di riforme peggiorative e di scadimento complessivo dell’offerta formativa delle scuole italiane. Se alla frase della Thatcher sostituiamo la parola “pandemia” a “economia”, il risultato può apparire più chiaro. La “pandemia” ha dato il colpo di grazia a quello che restava della scuola della Costituzione e della vitalità dei più giovani. Ha tolto loro ogni residua autonomia di pensiero e di azione, li ha completamente asserviti all’autorità e resi intolleranti, passivi e rassegnati a subire. Li ha cioè addomesticati, spenti e privati della possibilità di difendersi dagli abusi e dalla discriminazione verso i coetanei a cui sono stati incoraggiati dai loro presunti educatori. Per molti di loro la vita nella scuola della Covid è diventata un inferno di obblighi, divieti, prescrizioni, punizioni, colpevolizzazioni, moniti e dogmi. Che si tratti di un’“inutile tirannia”, secondo la definizione data dal giornale britannico Spectator6 a proposito delle deliranti misure restrittive del governo italiano, è dimostrato dal fatto che, nei Paesi dove non sono state applicate, gli studenti sono ancora vivi, sani e sicuramente meno danneggiati a livello psicologico, mentre l’Italia detiene il record dei morti fra i Paesi europei7 (si veda il grafico a pagina seguente).


Non possono perciò che suonare ipocriti gli allarmi dei giornali filogovernativi sulla devastazione psichica degli adolescenti8 e il cordoglio del Ministro dell’Istruzione per i tre studenti morti suicidi il primo giorno di scuola a settembre 20219, come se si trattasse di una disgrazia inevitabile senza responsabilità precise.

Tasso di letalità al 21 febbraio 2022 (Fonte: Johns Hopkins University)

Ai più piccoli, ha ridotto pure la possibilità di crescere sani. Sono impressionanti i dati sul ritardo del linguaggio, dovuti alla mancanza di relazione e all’uso insensato della mascherina: si passa dal 5% prima dell’epidemia al 20% dopo, secondo i dati clinici, seppur solo aneddotici, raccolti da Jaclyn Theek, direttore clinico e patologa del linguaggio allo Speech and Learning Institute di North Palm Beach, che riferisce un aumento del 364% dei ritardi del linguaggio fra i suoi pazienti10. I bambini, infatti, apprendono il linguaggio attraverso più stimoli sensoriali contemporaneamente e imparano a coordinare suono e movimenti della bocca, ma anche a cogliere le sfumature emotive osservando ripetutamente le espressioni facciali.

Il danno potrebbe essere grave e diffuso, se il CDC statunitense11, senza clamore, ha modificato gli standard di apprendimento del linguaggio, da “50 parole a 24 mesi” a “50 parole a 30 mesi” (Zubler et al., 2022). Basti pensare che, secondo quanto pubblicato sul sito dell’Ospedale “Bambino Gesù” di Roma, a 30 mesi normalmente le parole usate sono circa 500 e con meno di 50 parole a 24 mesi si parla di ritardo dello sviluppo linguistico12. Questo ritocco agli standard non deve sorprendere. Giustificata sempre con nuove esigenze scientifiche, in alcuni casi comprensibili, la tecnica di modificare gli standard è prassi comune in ambito medico-sanitario13 e spesso sembra funzionale allo scopo di nascondere o minimizzare la quantificazione di un danno (o di aumentare i profitti delle case farmaceutiche, quando si vuole ampliare la platea di possibili consumatori di un farmaco: così infatti i sani diventano malati). Proprio in occasione della crisi pandemica, sono state modificate la definizione di “pandemia”14 e quella di “vaccino”15, nonché quella di “immunità di gregge”16. Senza le nuove definizioni quella di Covid non sarebbe una pandemia e gli intrugli a mRNA non sarebbero vaccini. In più, i guariti sarebbero più che sufficienti per garantire l’immunità di gregge, che ora viene attribuita fantasiosamente solo ai vaccinati. Magari a qualche malizioso verrà spontaneo un confronto con la riscrittura quotidiana della storia di cui ci parla Orwell in 1984. Come dicevamo, c’è del metodo in questa follia.

Anche la percezione infantile del volto umano è stata alterata, con tutte le conseguenze immaginabili sul piano dell’empatia e delle abilità sociali e relazionali. “I piccolini di 4, 5 anche 6 anni cominciano a non avere più memoria del mondo come lo conosciamo noi adulti. E per chi ha meno di 4 anni la vita senza Covid non è mai esistita”. Così recita il sottotitolo di un breve video agghiacciante, pubblicato da Repubblica17. I bambini più piccoli non si ricordano più degli abbracci; per loro, la normalità è il dramma disumano che vivono da due anni. Molti hanno paura ad avvicinarsi alle persone o paura di contagiarsi; molti manifestano sintomi psichiatrici. 22 bambini si sono suicidati nell’arco di pochi mesi, diceva Sigfrido Ranucci alla TV nel mese di settembre 202118. Secondo i dati diffusi dall’ospedale pediatrico “Bambino Gesù” di Roma i tentativi di suicidio tra i ragazzi a causa della pandemia sono raddoppiati: nel mese di aprile 2020 il 61% delle consulenze neuropsichiatriche ha riguardato “fenomeni di ideazione suicidaria e tentativi di suicidio”, con un aumento quasi doppio rispetto al 36% dell’aprile 201919.

Un discorso a parte è la pressione violenta che è stata esercitata su genitori e figli per indurli a farsi inoculare il siero del tutto inutile per bambini e ragazzi, come rilevato da molti autorevoli ricercatori meno legati alle case farmaceutiche20 e che sta causando moltissimi effetti avversi gravi o mortali a breve termine, mentre quelli a lungo termine restano del tutto ignoti. Nel periodo 14 dicembre 2020-16 luglio 2021, un programma di vaccino-vigilanza attiva della durata di 7 giorni avviato dal CDC negli USA (Hause et al., 2021)21, ha riscontrato un numero molto elevato di effetti avversi gravi fra i minori. “Il dato generale è che l’insorgere di questi eventi avversi cresce, anche parecchio, dopo la seconda dose rispetto agli effetti prodotti dalla prima22. Nel cluster 12-15 anni il campione ha segnalato impatti severi sulla salute nell’11% dei casi dopo la prima dose e addirittura del 28,6% dopo la dose di richiamo, mentre tra i 16-17enni le stesse percentuali indicano rispettivamente il 10,6% dopo la prima dose e il 25,4% dopo la seconda”. Un dettagliato articolo pubblicato sul Guardian calcola che “per prevenire ipoteticamente la morte di un solo bambino in un periodo di 6 mesi, si dovrebbero iniettare circa un milione di bambini con almeno due dosi del vaccino Pfizer”. Se però si considerano gli effetti avversi, anche solo le reazioni allergiche gravi, “la dose Pfizer potrebbe uccidere più di 200 bambini per salvarne uno solo”23


Un articolo investigativo pubblicato dal Daily Exposé titola in modo significativo: “Le morti fra gli adolescenti sono cresciute del 47% nel Regno Unito da quando hanno iniziato a sottoporsi al vaccino Covid-19 secondo i dati ufficiali ONS [Ufficio Nazionale di Statistica]”24. L’indifferenza con la quale, a fronte di dati mai visti di danni gravi e di morte, molti governi, fra cui il nostro, continuano a terrorizzare e a ricattare bambini e adolescenti già allo stremo, si può spiegare in gran parte con i lauti profitti previsti per la vendita di questi farmaci sperimentali25. Il resto, è puro crimine contro l’umanità.

Riparare il danno 

Non basteranno certo il bonus psicologo, lo sportello psicologico a scuola o gli psicofarmaci a ricostruire le menti spezzate, le anime spente, i corpi danneggiati di milioni di bambini e ragazzi. Il trauma collettivo è così vasto, profondo e incompreso che occorrerà inventarsi una pedagogia riparativa ad hoc per tentare di rimediare al danno. Come si potranno restituire loro fiducia nell’altro, spontaneità, gioia e serenità? Come si insegnerà a questi ragazzi vessati e torturati il valore della libertà, della tolleranza, del rispetto, dell’empatia? Come li si aiuterà a dare un senso, a capire chi sono, a guardare al futuro?

Non sarà la scuola il luogo della rinascita. L’istituzione scolastica esce radicalmente snaturata da due anni di delirio collettivo. Dirigenti scolastici, insegnanti, perfino molti psicologi e pedagogisti hanno taciuto sul sinistro esperimento sociale che si è svolto per due anni nelle scuole italiane, quando non vi hanno collaborato attivamente. Questo silenzio pesa come un macigno, perché rivela come minimo una completa cecità rispetto alla sofferenza dei minori e una spaventosa sottomissione a ordini palesemente insensati e sicuramente dannosi, spacciati per misure di sicurezza. Come potranno parlare ancora di democrazia, diritti, valori gli isterici esecutori passivi, che senza remore hanno accettato di diventare zelanti piazzisti di un prodotto farmaceutico truffaldino e pericoloso e di indottrinare i loro poveri allievi alla nuova religione pandemica? Le scuole di regime non producono mai teste pensanti e uomini liberi, solo schiavi e lividi burattini dei capi, che traggono una miserabile gratificazione e un vuoto spirito di gruppo dalla loro supina obbedienza, giustificata per autoinganno come partecipazione a una grande missione comune. Chi comprenderà l’enormità della propria deresponsabilizzazione, andrà come minimo in crisi di coscienza. Chissà se se la sentirà di insegnare ancora. 


Per il futuro della scuola, i politici telecomandati che hanno condotto l’Italia nel baratro hanno già progettato un futuro antiumano di totale asservimento agli interessi delle aziende. Basta scorrere le pagine del PNRR26 (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) per rendersene conto. Il Piano prevede finalmente, almeno negli intenti dichiarati (Missione 1, 2 e 4), un investimento di risorse negli edifici scolastici, nella realizzazione di asili nido e scuole materne, la lotta all’abbandono scolastico e alla dispersione, la formazione sistematica degli insegnanti (sulle modalità della quale si potrebbe ampiamente discutere). Ma prevede anche un ulteriore impulso alla digitalizzazione, la spinta verso i licei quadriennali, che per forza di cose riducono fortemente i contenuti culturali, il forte potenziamento delle discipline STEM (scienza, tecnologia, ingegneria, matematica) e dei percorsi tecnico-professionali, con una decisa espansione degli ITS, Istituti di Formazione Superiore post-diploma, chiaramente orientati all’inserimento nel mondo del lavoro, e una potente spinta all’ulteriore burocratizzazione e standardizzazione del lavoro dei docenti. Il modello di riferimento è chiaro ed è quello aziendale, per il quale il fine dell’istruzione non è la formazione della persona umana e del cittadino critico e consapevole, ma la formazione del lavoratore specializzato, obbediente e già “competente” che serve all’industria. Se nel modello economico neoliberista il denaro è il fine e l’uomo il mezzo, nella scuola 4.0 la prospettiva è la stessa: il fine – il lavoro – è esterno al soggetto che apprende e funzionale agli interessi economici di altri. Ma è questo il fine previsto dalla Costituzione? E soprattutto: è davvero il fine che vogliamo perseguire per i nostri figli? È proprio quello che serve loro per crescere bene? Quale tipo di individuo vogliamo costruire? Un individuo libero che lavora quanto basta per vivere o un servo che vive per lavorare?

Non può essere il PNRR a tirare fuori la scuola dal baratro. Appare notevole che, in tutta la sezione sulla scuola, non si parli mai delle conseguenze della gestione pandemica e dello stato mentale degli alunni né sia faccia cenno ai loro bisogni educativi o alla situazione di grave disagio lavorativo dei docenti, a cui nessuno sembra interessato. 


Potranno farlo i genitori? Se non hanno percepito il dramma vissuto dai loro figli, viene difficile pensarlo. Ancora più problematico è trovare soluzioni, anche ammesso che si constati il problema. Sappiamo tutti che è aumentata moltissimo la richiesta di sostegno psicologico e di psicoterapia, ma molto probabilmente non sarà sufficiente a sanare tutte le ferite. Certamente, i genitori più consapevoli possono fare qualcosa, purché sappiano in che direzione andare. Non si sono tecniche, metodi, protocolli da seguire. Siamo in terra incognita, potremmo dire. Non si ricorda a memoria d’uomo un trauma così subdolo e di così vasta portata, se non in riferimento alle guerre e alle persecuzioni. 


Dalla psicologia sappiamo che la relazione cura. Vale per la psicoterapia e vale anche in ambito educativo. Scriveva Carl Gustav Jung che “in psicoterapia il grande fattore di guarigione è la personalità del terapeuta”27. Una relazione calda, profonda, empatica, amorevole e nutriente è l’ingrediente principale di ogni guarigione interiore. Bambini e ragazzi sono stati privati della relazione (con gli insegnanti e con i coetanei) e dell’amore a scuola. E la relazione è fatta anche di corporeità, di contatto, di abbracci, di sorrisi. L’amore è cura, rispetto, attenzione al benessere di chi si ama. Non c’è amore dove regna la paura e di paura molti insegnanti ne hanno spesso provata e seminata a piene mani, condizionati dai media. Come i genitori, peraltro. Del resto, non c’è salute senza benessere psicologico.

Relazione vuole anche dire amicizia e cooperazione, dopo mesi di isolamento e distanziamento sociale, che ha interrotto il normale processo di costruzione del sé attraverso lo specchio sociale. Vuol dire anche guardare l’altro senza ostilità e timore, ma con il desiderio di incontrarlo e di condividere esperienza. Non bisogna dimenticare che i nostri figli hanno assorbito il veleno della discriminazione verso i disobbedienti e la perfidia della delazione. Senza dialogo, apertura e cooperazione, parlare di inclusione è pura ipocrisia. 


Il movimento e la corporeità, così sacrificati in una fase cruciale della crescita, hanno un notevole potenziale riparativo. Il corpo va valorizzato, percepito e amato. Per i più piccoli, fino ai 6 anni, che hanno perso due anni di contatti umani, è lo strumento principale per fare esperienza. Il cervello umano si costruisce letteralmente attraverso le mani e il movimento. Per i più grandicelli, è la modalità di esplorare e di mettersi alla prova, di interagire con i coetanei, di sperimentarsi in diverse attività finalizzate. Per gli adolescenti, è essenziale alla costruzione dell’identità, alla scoperta della sessualità, allo sviluppo di una buona autostima. Per tutti, un corpo sano non deve essere visto come una fonte di contagio. Questa idea assurda e superstiziosa è pericolosa e devastante per la costruzione del concetto di sé. Nessun bambino deve macerarsi nel senso di colpa per il fatto di percepirsi come un untore. 


La vita all’aria aperta è da sempre considerata come una delle condizioni più felici per crescere. La natura è di per sé rigenerante e curativa. Portare i bambini e i ragazzi nella natura, guidarli nel riconoscere piante e animali, nel dialogare con tutti gli esseri viventi, nel conoscere in prima persona la meraviglia della vita che cresce potrebbe davvero fare la differenza. I grandi pedagogisti, come Fiedrich Froebel, Ovide Décroly, Carolina Pizzigoni, hanno sempre dato valore all’esperienza di prendersi cura di una pianta o di un animale nel tempo. I nativi digitali, abituati all’ambiente cittadino e per di più reclusi in casa per mesi, sono esposti al nature deficit disorder, un disturbo non classificato ufficialmente come patologico, ma che identifica una mancanza di familiarità con l’ambiente naturale, con le piante, i fiori e gli animali. Il termine fu coniato dal giornalista Richard Louv nel suo libro Last Child in the Woods (2008) per indicare l’insieme dei segnali che caratterizzano la condizione umana in assenza di contatto con la natura. Le conseguenze del mancato contatto con la natura comprendono diverse disfunzioni fisiologiche e comportamentali, come la riduzione dell’uso dei sensi (tatto e olfatto), disturbi dell’attenzione e un rischio aumentato di ADHD, depressione, obesità. Anche stanchezza cronica, irrequietezza e insonnia possono esservi correlati almeno in parte. Viceversa, il contatto con la natura aumenterebbe il livello di endorfine (Bruno, 2020) e di benessere. Osservare scene naturali riduce di per sé lo stress e regola il battito cardiaco (Brown, 2013). Stare all’aperto nel verde facilita indubbiamente l’esperienza del contatto con se stessi e con il corpo, al contrario dei mondi virtuali che alienano e assorbono, occupando una fetta molto ampia delle ore della giornata e generando la dipendenza dal digitale (nomofobia = no more phone phobia) (Spitzer, 2018b).

Perciò, dopo il purgatorio della DAD, che li ha risucchiati nella realtà virtuale e li ha privati delle esperienze che fanno crescere, servirà loro una sorta di digiuno dal digitale. Sappiamo dalla ricerca che il digitale peggiora il rendimento scolastico, specie degli allievi più deboli e ha un effetto negativo sull’umore e sul senso di benessere dei ragazzi (Spitzer, 2012; 2018b). Questi nostri figli hanno perso due anni di vita scolastica. Hanno necessità di fare esperienza, di vivere intensamente, di emozionarsi per qualcosa. La DAD li ha spenti, isolati e resi più aggressivi28. Diventa perciò urgente un periodo di disintossicazione. 


Difficile che lo si possa fare a scuola, sia perché il futuro deciso dall’alto è tutto digitale sia perché per molti ragazzi la scuola è diventato un luogo repulsivo, associato a esperienze negative e dolorose. Il luogo della ricostruzione non può essere lo stesso che ha causato la distruzione. Può essere perciò senz’altro preferibile l’esperienza di una scuola parentale, che presenta il vantaggio di garantire la socialità in piccoli gruppi e permette, se ben gestita, di valorizzare la libertà, il movimento, la giocosità della vita all’aperto. Dopo la scuola che opprime, resta come alternativa la non-scuola, l’ambiente educativo senza orari rigidi, senza voti, senza banchi, senza standardizzazione e senza digitale. Uscire dagli schemi riattiva la creatività. Di qui il contributo essenziale dell’arte: musica, arti figurative, teatro possono fare molto per riattivare la vitalità perduta.

Dare un senso alla vita e alle proprie esperienze è la condizione primaria per poterle assimilare e ritrovare fiducia e senso di autoefficacia. Tutti protesi a compiacere gli adulti, questi nostri ragazzi hanno smarrito il senso stesso del loro agire, che non può certo risiedere nell’obbedienza cieca e negli automatismi pavloviani con i quali sono stati condizionati. La costruzione del senso è opera paziente e tenace, davvero degna di un buon educatore. Può essere utile perciò ripercorrere i vissuti, magari scriverli, discuterli, elaborarli con distacco emotivo, comprenderli e infine consegnarli alla memoria, come un pezzo della costruzione del sé che apre nuove possibilità e nuove esperienze. Quando serve, anche il lavoro psicoterapeutico può aiutare nell’elaborare il trauma e nel trasformare un vissuto doloroso in una tappa del percorso di crescita. Questi bambini e ragazzi hanno visto anche morire parenti e amici per malattia, incuria o vaccino; hanno vissuto la solitudine, la negazione dei diritti al lavoro, alla salute, all’autodeterminazione dei genitori, l’emarginazione e lo stigma sociale, il declassamento economico, quando non la povertà e la fame. Gli effetti distruttivi della discriminazione sull’autostima dei bambini sono notissimi in psicologia da almeno settant’anni. E qui, è stata l’istituzione a farsene interprete. Non presentando vie di fuga, l’istituzione chimerica che ingloba mass media, politica, pubblica amministrazione, magistratura, scuola sanità e Forze dell’Ordine si configura come una spaventosa istituzione totale29 e totalitaria, che stritola tutti senza pietà. 


La disgregazione sociale e le campagne d’odio collettivo verso il nemico esterno e interno hanno assestato il colpo definitivo al già fragile tessuto dei valori, logorato da decenni di consumismo, materialismo, individualismo e da continue finestre di Overton, con le quali si rende progressivamente accettabile o addirittura lecito e desiderabile l’inaccettabile: per esempio, la sessualizzazione dei bambini, la pedofilia, la perdita di ogni riferimento identitario e familiare, la discriminazione e la totale sottomissione al potere. Su questo vuoto valoriale la dipendenza da digitale o da sostanze, l’assenza di una consapevolezza della propria trascendenza e della profonda connessione fra tutti gli esseri ha reso i giovani per lo più indifesi e influenzabili dai messaggi ambigui, falsamente solidali o benevoli, in realtà subdolamente distruttivi e violenti che li hanno bombardati per due anni. Diventa perciò fondamentale riportare al centro i valori umani e spirituali, come la solidarietà vera, il rispetto, la tolleranza, l’amore, l’etica, la responsabilità, la giustizia, la libertà, la verità.


La continua pressione psicologica, l’addestramento all’arbitrio e l’adattamento al continuo cambiamento delle regole, sempre più irrazionali e vessatorie, hanno chiuso agli adolescenti la prospettiva del futuro. Non vanno assolutamente lasciati in questo limbo disperato e privo di sbocchi. Sarebbe invece fondamentale progettare con loro e per loro la società del futuro, opposta allo spaventoso sistema di controllo totale che stanno vivendo, ma anche al folle sistema darwiniano che hanno conosciuto prima del virus apocalittico. Dobbiamo cioè aiutarli a dare voce alla propria Coscienza spirituale. Ciò che distingue la Coscienza dalla mente animale è il fatto che la mente si adatta, mentre la Coscienza trasforma la realtà e la eleva. Questa è l’autentica resilienza, non l’adattamento animale che viene spesso definito con quel termine. Un ragazzo che si adatti è spiritualmente spento. La ribellione all’ingiustizia e la prontezza dell’agire sono la cifra della Coscienza.

La domanda sui fini 

Quando si parla di educazione, bisognerebbe porsi sempre la domanda sulle finalità. Sono i fini che qualificano i mezzi. Per esempio, volendo costruire un edificio scolastico, avere chiara la finalità educativa è fondamentale per la scelta degli spazi, degli arredi, delle funzionalità. Lo stesso discorso vale per la tecnologia digitale. Si dà sempre per scontato che essa sia di per sé un fattore di innovazione e di potenziamento dell’apprendimento per i ragazzi, ma le cose non stanno affatto così, come ha spiegato ampiamente il già citato neuropsichiatra tedesco Manfred Spitzer nei suoi documentatissimi libri (2012; 2015; 2018a; 2018b). Al più, può essere un mezzo fra gli altri, e non il principale, specie per soggetti in crescita, che hanno bisogno di tutt’altro. 


Possiamo spiegare questo concetto centrale con una metafora. In pedagogia, ha avuto molta fortuna la metafora froebeliana30 della piantina e del giardino: educare in questo caso equivale a creare un ambiente ricco e stimolante (il giardino) nel quale il bambino (la piantina) possa crescere con le cure amorevoli del giardiniere (il maestro). La metafora è potente, perché richiama due aspetti essenziali dell’educazione, che sono la relazione amorevole e l’esigenza di rispettare profondamente le potenzialità di ciascuno. D’altra parte, suggerisce anche l’idea della spontaneità della crescita e della sua finalità immanente; non si cresce “per” qualcosa che viene imposto dall’esterno, ma si cresce per crescere, per sviluppare il proprio potenziale attraverso l’esperienza, come spiegava con chiarezza John Dewey (1916), il grande maestro della pedagogia americana: “l’educazione è crescenza, il cui fine è il crescere stesso”. “Educare” vuol dire esattamente “tirare fuori” qualcosa che è dentro l’allievo, con un’idea di ripetizione e di intensità. 


Un’altra metafora molto usata è quella dell’edificio: la parola stessa “istruzione” rimanda all’idea di disporre in modo ordinato, dal basso verso l’alto, proprio come si fa con una casa. In questo caso, si allude all’edificio del sapere dell’allievo, del quale l’insegnante è il costruttore. Il progetto può essere il suo oppure essere predisposto dall’istituzione. La metafora allude all’esigenza che la crescita sia strutturata, solida, armoniosa e progressiva; inoltre, mette al centro il lavoro dell’insegnante e la sua professionalità, la capacità di costruire con ordine e la corrispondenza dell’opera a un progetto. È implicita nell’immagine anche l’idea che l’istruzione elevi, dia forma a qualcosa che spontaneamente non potrebbe assumerla e dia forza, protezione, sicurezza.

La prima metafora rimanda alla nozione di autoeducazione, la seconda a quello di eteroeducazione. Nel primo caso, il fine è principalmente far esprimere le potenzialità dell’allievo, nel secondo è soddisfare fondamentali esigenze sociali. Ovviamente, un fine non esclude l’altro e può riferirsi anche a momenti diversi della crescita. Rousseau, accingendosi a esporre l’educazione di Emilio, conforme all’idea di sviluppo naturale, specifica che essa forma l’individuo affinché possa inserirsi al meglio nella società ideale, da lui descritta nel Contratto sociale. Tuttavia, individuo e società sono sempre in tensione: una tensione feconda, che dovrebbe permettere alla scuola di tramandare un sapere del passato e di innovare continuamente, trasmettendolo rinnovato alle generazioni successive, ma che espone al rischio duplice di perdere il contatto con la tradizione, quando si esalta uno spontaneismo senza costrutto, o di schiacciare l’individuo nella vuota ripetizione di un sapere sterile, che mortifica e limita l’espressione creativa di nuove idee, quando le esigenze individuali vengono accantonate rispetto all’obiettivo sociale. Sarà per abituarli a questo modo di pensare conformista che negli ultimi due anni si è ripetuto alla nausea agli adolescenti, perfino nei manuali scolastici, che il bene collettivo deve prevalere su quello individuale? E che i loro diritti devono cedere senz’altro alla volontà dello Stato? Si tratta di una menzogna, perché senza bene individuale il bene collettivo è una spaventosa incognita e lo Stato senza il contrappeso dei diritti è un mostruoso Leviatano senza controllo. 


L’esito del conformismo pandemico, dell’omologazione e della standardizzazione dell’insegnamento previsto dalle riforme neoliberiste e dal PNRR, nonché la sua subordinazione alle esigenze del mondo del lavoro, si colloca interamente nella seconda modalità, quella dell’eteroeducazione, con una connotazione peggiorativa. La metafora appropriata per qualificare il fine della scuola 4.0 è forse quella del robot. Anche il robot è artificiale, come l’edificio, ma molto più tecnologico; è digitale, sicuramente più sofisticato e programmato per svolgere mansioni lavorative. Il robot non pensa, ma esegue; deve solo essere “addestrato” con un’opportuna sequenza di istruzioni. Non è certo importante che si faccia domande sul senso della vita e della morte, che si chieda se il lavoro sia l’unico destino possibile o che si commuova per la bellezza di una musica o di un paesaggio. Può avere aspetto umano, ma è strumento, non fine. Richiede buoni programmatori, non maestri di vita, perché non è vivo e non pensa, è transumano. La società tecnologica finisce con l’espellere la coscienza umana dall’orizzonte dell’esistere, se non per usarla come batteria, come ci ha raccontato persuasivamente la quadrilogia di Matrix. La tecnologia tende a sostituirsi alla coscienza creativa, perché non può controllarla in altro modo. Sembra questo il modello di essere umano che viene fuori dalla sostanziale marginalizzazione delle discipline umanistiche e dall’insistenza su materie STEM, competenze digitali e mondo del lavoro. Formare il lavoratore-cyborg, non l’uomo o la donna, è un obiettivo coerente con il transumanesimo collettivista e neofeudale professato da alcuni membri del Governo di simpatie fabiane e sicuramente vantaggioso per le imprese. Chi non sa di avere diritti e una dimensione spirituale non crea problemi e, se ben formato, fa risparmiare la formazione alle aziende. In più, è abituato a passare il tempo davanti a uno schermo o nei mondi virtuali e si adatta meglio alla rinuncia a vivere veramente. Del resto, parlare di inclusione e pari opportunità solo come pari possibilità di lavorare, come fa il PNRR, ignorando il fatto evidente della mostruosa disuguaglianza nei diritti fra studenti di serie A e studenti di serie B a scuola e all’Università sulla base di un QR-Code, suona falso e sinistro. Ma la scomparsa dell’etica è il prezzo da pagare per il progresso tecnologico.

Il ruolo dell’insegnante 

Cambiando la finalità, cambia il ruolo dell’insegnante e anche il senso stesso dell’imparare. Nella scuola 4.0, l’insegnante-addestratore per l’inserimento lavorativo ha ben poco spazio per l’autonomia didattica e per la costruzione del pensiero critico. Niente, ovviamente, è più lontano dalla scuola della Costituzione, anzi, dalla scuola tout court, se pensiamo che, nel suo significato etimologico, scholé è l’equivalente greco dell’otium latino, cioè il tempo dedicato allo studio e all’elevazione dell’anima, in opposizione al negotium, al lavoro. E come nel significato etimologico, l’otium è l’attività tipica degli uomini liberi, il negotium degli schiavi. Se non è la scuola a offrire agli studenti un sapere non finalizzato al lavoro, quando avranno mai la possibilità di acquisirlo? Quando mai potranno elevare il proprio spirito? All’orizzonte della scuola 4.0 c’è l’addestratore che può lavorare a distanza per centinaia di studenti o essere sostituito da una macchina. In uno scenario del genere, imparare equivale all’essere addomesticati, ovvero a rinunciare alla propria dimensione spirituale e creativa. Nel quadro ideologico del PNRR, l’educazione scompare dalla scuola e con essa il riferimento ai valori universali da promuovere. Si dovrebbe, per coerenza, cambiarle il nome: “centro di addestramento”? “corso di pre-lavoro”? “servizio di programmazione mentale”? 


Se la finalità della scuola è invece trasmettere conoscenze, l’insegnante appare piuttosto come il depositario della tradizione, che riversa diligentemente nella mente degli allievi. La scuola ha inteso a lungo il proprio compito sociale essenzialmente come trasmissione del sapere, e di fatto questa resta una delle funzioni principali della scuola. Le metafore che si possono usare variano da quella coercitiva dell’imbuto (l’insegnante infarcisce la mente dell’allievo di nozioni) a quella più gentile del vaso (l’insegnante versa il suo sapere nella mente vuota dell’allievo) a quella più complessa dell’edificio (l’insegnante progetta e costruisce con ordine l’edificio della conoscenza nella mente del suo allievo) o della banca (l’insegnante deposita il sapere nella mente dell’allievo come si deposita il denaro in banca, sperando che frutti qualcosa; la metafora è di Paulo Freire). In questa visione della scuola, il bravo allievo è quello che si rende ricettivo e accoglie con fiducia e con una dose variabile di passività quanto gli viene elargito. Lo svantaggio è che la sua creatività non è richiesta e la sua individualità non riesce a esprimersi granché, il vantaggio è che però dispone – nel migliore dei casi – degli strumenti per elaborare un sapere ulteriore dopo la scuola; nel peggiore dei casi, ha comunque acquisito quello che la società ritiene essenziale per avere un ruolo al proprio interno, compresa la reverenza verso l’autorità.

Se il fine è favorire lo sviluppo spontaneo della persona, come suggerito dall’immagine della piantina, l’insegnante assume piuttosto il ruolo di regista di un processo che si svolge per impulso interno e predispone al meglio l’ambiente educativo intorno all’educando, il quale è sempre coinvolto attivamente nel percorso di apprendimento. Questo ruolo è ancora più indispensabile e complesso del precedente, perché richiede preparazione, empatia, attitudine pedagogica, creatività e poco ego. Si tratta infatti di mettere al centro l’espressione piena dell’individuo, nella sua unicità. Indubbiamente, questo modo di intendere il processo implica dedizione piena e coinvolge l’intera persona dell’educatore, comprese le sue doti relazionali e affettive. Può però anche presentare lo svantaggio dell’eccesso di individualismo, a scapito delle esigenze sociali, o nel peggiore dei casi, dello spontaneismo caotico, a scapito della continuità con la tradizione e di una mente strutturata. 


Ma se la scuola 4.0 rinuncia a educare, riducendosi ad addestramento; se quella tradizionale si riduce spesso a mera attività di istruzione, perdendo di vista l’individuo, e quella attiva, pur educando, presenta il rischio dello spontaneismo destrutturato ed eccentrico rispetto alle richieste sociali, quale metafora e quale finalità sono appropriate per l’educazione che intende riparare un trauma collettivo enorme e una spaventosa desocializzazione? E soprattutto, a che cosa si deve tendere, oltre la scuola dell’ipocrisia e della coercizione sanitaria, la cui morte è ormai certificata? Quale essere umano vogliamo costruire? Da dove vogliamo partire per la rinascita educativa? Quale insegnante ci serve? E per quale società dobbiamo gettare le basi? Che cosa dobbiamo salvare della tradizione e che cosa lasciarci alle spalle? A quali valori dobbiamo fare riferimento? 


Come novelli Robinson Crusoe, dobbiamo ripescare dal naufragio del nostro mondo in disfacimento l’indispensabile per ricostruire un ambiente di vita che rispecchi la nostra autentica natura umana e che ci restituisca grazia, armonia e dignità, da poter consegnare alle generazioni che verranno.

Tanti modi di essere insegnante 

Si dice spesso che per insegnare occorre una specifica vocazione. Fare l’insegnante, il medico, lo psicologo richiede infatti, oltre a una formazione adeguata, una scelta esistenziale e una predisposizione alla relazione d’aiuto. Quelli che nella nostra esperienza personale consideriamo i migliori insegnanti sono quelli che, con la loro umanità e con il calore dell’empatia, ci hanno fatto amare la loro materia e hanno risvegliato in noi il fuoco del desiderio di conoscenza. “Per insegnare, affermava Platone, c’è bisogno dell’Eros, cioè dell’amore. È la passione dell’insegnante per il suo messaggio, per la sua missione, per i suoi allievi che garantisce un’influenza possibilmente salvifica, che fa sbocciare una vocazione da matematico, da scienziato, da letterato”31.

Nessuna professione è più indispensabile alla sopravvivenza di una società nel tempo e nessuna comporta una responsabilità maggiore nel lungo periodo. Certo, anche il medico ha enormi responsabilità, come chiunque si occupi della salute fisica e psichica delle persone. Ma nell’insegnamento è in gioco lo sviluppo della coscienza individuale. La forma con cui viene plasmata l’anima in tenera età produce effetti di risonanza per tutta la vita, nel bene e nel male, e in molteplici ambiti dell’esistenza. Tale effetto si propaga anche nelle generazioni successive, perché è sulla base dei modelli educativi che abbiamo interiorizzato nella nostra esperienza diretta che poi educhiamo a nostra volta. 


Ci sono tanti modi per essere insegnanti. In parte, come abbiamo detto, ciò dipende dalle richieste del ruolo istituzionale e dalle tendenze del momento in ambito educativo. Ogni epoca e ogni società richiede alla scuola “prodotti” diversi e non è certo facile per il singolo insegnante interpretare il ruolo in modo troppo personale, specie in contesti rigidi e dogmatici. Ma c’è comunque una differenza fra individui che rimanda piuttosto alla presenza o all’assenza di vocazione educativa e di talento pedagogico. Chi è educatore dentro sa esserlo in qualunque contesto. Anche se un po’ troppo idealizzata, la figura del maestro-artista delineata da Giovanni Gentile, che insegna in quanto è maestro nell’animo, ma a cui non si può insegnare a insegnare, in assenza dell’attitudine a incontrare in profondità l’animo del discepolo, esprime abbastanza bene l’idea che la competenza nella disciplina insegnata costituisce solo una delle componenti necessarie al maestro per svolgere bene il suo compito. La competenza si può insegnare, il talento no. Ma solo il talento, secondo Gentile, definisce il maestro. Tale convinzione ha senso quando si considera l’educazione qualcosa di più della semplice trasmissione di un sapere, perfino se trasmesso con tutti i sacri crismi della didattica più avanzata. 


I docenti di ogni ordine e grado che hanno abdicato al ruolo educativo nella scuola della tirannia sanitaria, per quanto magari molto competenti nella loro materia, hanno talento e vocazione per educare davvero, per coinvolgere i loro allievi in un ineffabile e irripetibile incontro di anime? Difficile rispondere affermativamente a questa domanda, dopo l’esperienza tragica della loro completa indifferenza al sentire degli allievi nella scuola pandemica. Non che prima fosse molto meglio: i criteri di selezione dei docenti in Italia fanno acqua da tutte le parti da tanto tempo e, benché il successo della scuola dipenda anche da aspetti strutturali e organizzativi, è innegabile che una scuola di qualità richieda docenti altamente preparati, formati, motivati e remunerati, ai quali vengano riconosciute dalla pubblica opinione dignità, competenza, centralità del ruolo sociale.

Nell’esperienza di tutti, capita purtroppo di incontrare, accanto a docenti di eccezionale livello culturale e di straordinaria umanità, dei tipi umani molto meno autorevoli: l’insegnante stipendista, che è lì solo per lo stipendio e che è costantemente concentrato su circolari, leggi e regolamenti, e che potrebbe svolgere con la stessa energia minima qualunque tipo di lavoro burocratico; l’insegnante per caso, che, privo di ogni interesse e attitudine per l’educazione, si ritrova a insegnare, mentre vorrebbe (o non saprebbe) fare altro; l’insegnante chioccia, che infantilizza i suoi allievi e impedisce loro di crescere, facendo la mamma protettiva; l’insegnante amico grande, che, completamente inconsapevole della necessità di una relazione asimmetrica con gli allievi per poterli educare, fa il fratello maggiore o l’amicone, distruggendo il lavoro dei colleghi autorevoli; l’insegnante compagno di giochi, molto amato all’inizio, perché permette di fare tutto ciò che si vuole, ma che con il tempo lascia vuoti e sgomenti, perché con lui si ride tanto, ma non si impara nulla; l’insegnante prete (o guru), che assume il tono e la postura del predicatore, mentre arringa agli allievi con ammaestramenti moralistici, spesso servili verso il potere e autoreferenziali; l’insegnante divo, troppo preso dal suo ego per accorgersi degli allievi; l’insegnante istruttore, che spiega bene come svolgere tecnicamente un certo compito, ma senza la minima consapevolezza educativa; l’insegnante ripetitore, che fa lezione leggendo il manuale e senza aggiungere nulla di proprio; l’insegnante erudito, che sa tutto di un argomento, ma non ha mai compreso né trasmesso il senso di ciò che studia; l’insegnante sergente, che interpreta il ruolo come se avesse i gradi militari e si aspetta di essere obbedito come un sergente con le reclute, punendo chi non si adegua; l’insegnante kapò, triste esperienza di questi mesi, che perseguita i suoi allievi con sadico zelo e cieca obbedienza a norme palesemente dannose per la loro salute, invece di difendere con la schiena dritta la Costituzione e la loro integrità; l’insegnante caso umano, completamente privo di autorevolezza o di forza psicofisica per ragioni diverse, anche non dipendenti da lui, fra le quali il burnout, che viene lasciato al suo posto, anziché compreso e sostenuto o spostato altrove o mandato in pensione, facendo danni a centinaia di studenti.

Il fatto è che ai molti docenti italiani manca proprio una formazione pedagogica seria e in alcuni casi anche un livello di padronanza dei contenuti adeguato al ruolo. Un insegnante dovrebbe sapere, saper insegnare e saper educare. Occorrono tutti e tre questi elementi per far crescere bene i ragazzi che gli sono affidati, più un quarto, che definisce l’eccellenza: saper pensare con la propria testa. Ma le “riforme” degli ultimi vent’anni hanno prodotto l’effetto opposto: scarsa conoscenza, poiché i nuovi docenti sono il prodotto di quella scuola già depotenziata e di procedure di assunzione discutibili; scarsa competenza psicologica e didattica, fatta salva una spolverata sulla didattica digitale, sui DSA, sulle didattica per competenze, non senza risvolti ideologici o commerciali e comunque a macchia di leopardo; scarsissima o nulla preparazione a educare, dato che il docente-tipo, adatto alla “nuova normalità”, è il passivo esecutore di ordini che provengono dall’alto, a cui deve adeguarsi con burocratica acquiescenza, sotto pena di sanzioni disciplinari. Del resto, non si può essere contemporaneamente educatori e servi obbedienti. 


La capacità di pensare e di avere una visione critica degli eventi e del sapere, invece, è direttamente osteggiata, come in ogni regime autocratico. I docenti che, usando la loro capacità di analisi critica, hanno rifiutato la violenza istituzionale delle misure sanitarie e degli irragionevoli e antiscientifici obblighi di vaccinazione, sono stati prima umiliati con i tamponi ogni due giorni, poi sospesi a tempo indeterminato senza stipendio e infine oltraggiati con il demansionamento e il raddoppio dell’orario di lavoro. 


I Padri costituenti, ben consapevoli del rischio che corre una democrazia quando i docenti sono obbligati ad aderire a una visione ideologica della realtà, che non disturbi i manovratori e i loro maneggi, avevano previsto nella Costituzione la libertà di insegnamento, garantita dall’art. 33 che, al primo comma, recita: “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Senza possibilità di esprimere liberamente un pensiero critico, ponderato e motivato sulla base di un’accurata ricerca, non si può insegnare il pensiero critico agli allievi e non esiste più libertà di insegnamento né pluralismo delle idee. Con la tecnica del capovolgimento semantico della neolingua autoritaria, la libertà personale e il rispetto della dignità umana invocati dai docenti “dissidenti” sono diventati sinonimo di irresponsabile egoismo e di malsana ideologia, benché costituiscano i pilastri dei diritti umani riconosciuti dalla Costituzione. Segno, questo, che, dopo il regresso dei diritti sociali iniziato con gli anni Novanta, ormai siamo giunti alla destrutturazione dei diritti naturali e civili e che la Costituzione è stata definitivamente stracciata anche nella sua prima parte. Del resto, il ladro accusa gli altri di rubare, ma mai ammetterebbe di farlo lui stesso, nemmeno se colto in flagrante. Accanto alla medicina e alla psicologia di regime, che espelle i dissenzienti e li punisce sadicamente, abbiamo anche l’istruzione di regime, che espelle il pensiero critico, mentre ipocritamente lo difende, e coloro che lo veicolano – dirigenti, docenti e studenti. Le prove scientifiche o giuridiche del più grande crimine a memoria d’uomo, a cui una testa pensante non può rinunciare per argomentare la sua posizione, diventano così irricevibili fake news, da tacitare ad ogni costo32. Chi controlla la narrazione, manipola la percezione della realtà e chi non ha gli strumenti critici difficilmente mette in discussione la versione ufficiale. In mano ai docenti conformisti, i giovani continueranno a dormire e a vegetare insoddisfatti dietro a un banco a rotelle o a uno schermo.

Da dove cominciare? 

Se qualcosa è mancato durante la psicopandemia, è stato l’ascolto di bambini e ragazzi. Quanti adulti si sono chiesti che cosa stessero provando i propri figli, allievi, parenti giovani? Quanti si sono accorti di che cosa stessero perdendo in termini di esperienza e di costruzione del sé? Quali fossero i loro vissuti emotivi? Sono consapevoli di che cos’è stata la scuola per loro, di che vissuto hanno degli adulti di riferimento, di come hanno percepito i loro insegnanti? Che cosa significa, per un bambino della scuola primaria, indossare una mascherina per tutto l’orario scolastico, respirando male, e non vedere in faccia per mesi i propri compagni e le proprie maestre? O essere sgridato e punito perché presta una penna al compagno che l’ha dimenticata? O portare il peso della colpa di far ammalare i nonni o gli insegnanti? Che significa per un adolescente non uscire di casa, non incontrare gli amici, non fare nessuna esperienza di esplorazione del mondo ed essere escluso dalla vita sociale per un disgustoso ricatto? O rinunciare allo sport, all’Università, al lavoro? Si può essere così forti a 6, 8, 12 o 16 anni da ribellarsi a una costrizione ingiusta e insensata, imposta da tutto il mondo degli adulti, genitori compresi, e sostenuta da una violenta campagna diffamatoria verso chi resiste, nonché dalle manganellate della polizia? E quali conseguenze provoca nell’animo il cedimento a questo abuso? Loro – gli adulti – lo avrebbero accettato da ragazzi? 


In pieno lockdown, un gruppo di adolescenti che avevo radunato online per permettere loro di condividere i vissuti e dei momenti di incontro, avevano risposto ad alcune di queste domande. Ecco le loro risposte: “Non possiamo stare insieme come classe. Mi sento privata di un’esperienza”; “Ci hanno sottratto la vita un po’ alla volta”; “Non abbiamo nessun tipo di interazione sociale”; “A volte stai bene, poi ti svegli la mattina dopo e non hai voglia di niente”; “È come essere un po’ in una gabbia”; “Come se mi mancasse il respiro”; “Dove mettiamo tutte le energie che abbiamo?”; “Mi manca il sociale”; “La botta più difficile è stata la seconda chiusura”; “Ritorno a fare le cose di sempre a vedere gli amici a uscire e poi… Arriva il secondo blocco, crollo, lì si fatica a recuperare”; “manca qualcosa, le domande che noi ci facciamo non hanno nemmeno più un terreno da cui partire”; “Fatichiamo a dare un senso alle cose”; “La seconda volta è pesante”; “C’è il bisogno di non sentirsi soli”; “Rabbia, tristezza, disperazione: manca l’energia davanti al pc, l’energia è calata molto”; “Siamo in un momento in cui cerchiamo di capire i nostri colori, ma come possiamo capirlo in questo modo?”; “Si amplificano le emozioni, soprattutto quelle negative”; “Mi sento privata della mia libertà, è la cosa più importante che abbiamo”; “Io ero una persona sempre allegra ora mi sento molto più insicura come se fossi in standby”; “A volte mi domando: quella che gli altri vedono davanti al pc sono veramente io?”; “Mi manca la motivazione”; “Nessuno ci chiede come stiamo”; “Sento ingiusto l’aver interrotto il legame con i miei nonni e i miei amici”33.

Questi vissuti di prigionia, di privazione, di ingiustizia, di pesantezza, di insicurezza, di mancanza di senso, di perdita del legame richiedono un intervento riparativo, fondato sull’empatia e sull’ascolto. Sono i ragazzi stessi a indicarci la direzione, partendo da ciò che è mancato per un sereno sviluppo. Ma soprattutto, occorre cominciare con l’interrompere l’effetto distruttivo della pedagogia nera (Rutschky, 1977) che li ha devastati e deumanizzati. Come scrive la psicologa Carla Sale Musio, “si chiama pedagogia nera uno stile educativo che utilizza punizioni e castighi nella convinzione che siano indispensabili per far crescere bene i bambini. Le opinioni dominanti della pedagogia nera possono essere riassunte in tre punti principali: i genitori e gli adulti meritano rispetto a priori. L’obbedienza fortifica. La severità e la freddezza costituiscono una buona preparazione alla vita”34. Nella pedagogia nera, non si mira a costruire la personalità del bambino, ma a distruggerla, reprimendo la sua parte più vitale, creativa e attiva per renderlo dipendente e sottomesso alla volontà adulta. Gli obiettivi della pedagogia nera comprendono – fra gli altri – il condizionamento, l’obbedienza cieca, l’educazione alle virtù borghesi, l’onestà (solo del bambino), la percezione della violenza come normale, il divieto di parlare; i metodi vanno dalla violenza fisica (sculacciate, botte, schiaffoni) a quella psicologica (umiliare, spaventare, angosciare), passando per la punizione (compreso il ritiro dell’affetto), la manipolazione, la ricompensa, il rifiuto dei bisogni fondamentali del bambini, il controllo35. Le conseguenze di lungo termine sono gravi nel breve periodo e incalcolabili a medio-lungo termine. La violenza subita devasta, corrompe e contagia.


Bisogna innanzitutto riconoscere la realtà della violenza. Come scrisse Alice Miller (1988), “non possiamo liberarci da un male senza averlo chiamato e riconosciuto come tale”36. In caso contrario, se non interromperemo la catena invisibile del male, avremo una generazione di adulti conformisti, dipendenti, ipocondriaci, anaffettivi, impassibili, prepotenti e privi di creatività. Già ci si può aspettare che l’uso prolungato delle mascherine, come dice il filosofo Francesco Lamendola, sommato alla dipendenza dal digitale, produrrà degli spostati, nevrotici e insicuri: “L’abitudine a non vedere più il volto degli adulti ha creato dei bambini insicuri, anaffettivi, staccati dalla realtà, terrorizzati da mille paure”37


Ci è stato fatto credere che la sicurezza meritasse il sacrificio della libertà e dei diritti; che fossero i bambini a doversi sacrificare per gli adulti; che l’obbedienza a un ordine ingiusto fosse doverosa per senso di responsabilità verso gli altri; che il singolo dovesse sacrificarsi per la collettività; che un adulto avesse il potere e il dovere di costringere bambini e adolescenti all’obbedienza; che il rispetto per la dignità e i bisogni dei più giovani, come dei più anziani, dovesse essere messo in secondo piano rispetto agli obblighi immotivati dell’autorità; che rivendicare la libertà fosse un atto di egoismo e una mancanza di rispetto per gli altri; che accettare senza protestare la violazione dei propri diritti fondamentali fosse segno di resilienza. Era tutto falso. Questo è ciò che si insegna nei regimi totalitari. La differenza fra libertà e sottomissione da schiavi sta nel rispetto pieno della dignità umana, senza alcuna eccezione. La responsabilità enorme degli adulti è ora di far cessare l’arbitrio e l’abuso e di riportare nell’educazione gioia, serenità e pace.

Oltre la scuola e l’homeschooling
Oltre la scuola e l’homeschooling
Patrizia Scanu
Riparare i danni della pandemia ed educare per il mondo che verrà. Una proposta di intervento educativo da realizzare nel contesto dell’istruzione parentale per gli allievi della scuola secondaria inferiore e superiore, ispirata al modello umanistico dell’educazione integrale (che coinvolge corpo, mente, anima e spirito), con il proposito di formare anime libere e capaci di sentire e di pensare.