di Francesco Bernabei

Postfazione

Sono particolarmente onorato di partecipare al processo culturale di cui questo libro rappresenta un tassello importante. E sono grato a chi, come l’autrice del presente saggio, fornisce così tanti elementi utili per orientarsi meglio in un contesto fondamentale per la vita sociale, come è la scuola. Cosa c’è infatti di più importante del concepire e realizzare adeguatamente percorsi di istruzione ed educazione delle generazioni future? 


Da qualche anno, come sviluppatore sociale, mi occupo di aiutare a organizzare e gestire progetti di istruzione ed educazione parentale; il mio ruolo tuttavia è sempre stato solo quello di costruire i contenitori di questi progetti, ovvero aiutare gruppi di genitori, insegnanti e vari portatori di interesse a organizzarsi in maniera efficace per poter produrre percorsi sociali praticabili da tutti i punti di vista. 


Fornire il contenitore è certamente utile, ma è il contenuto a essere determinante, e proprio questo è l’oggetto del presente libro, che presenta un organico progetto pedagogico, realizzabile nel contesto della scuola parentale. 


L’interesse che l’istruzione parentale in Italia sta sollevando a più livelli, coinvolgendo quasi un centinaio di migliaia di persone, è indubbiamente degno di nota, ma essendo gli utenti della scuola italiana oltre dieci milioni, essa è sostanzialmente una realtà di nicchia, parallela, ma non contrapposta alla scuola pubblica. La sua finalità non è quella di depotenziare la scuola o di creare progetti che le siano antagonisti; al contrario, è nell’interesse di tutti promuovere percorsi di cambiamento, dentro e fuori la scuola pubblica, che permettano alle generazioni future di appropriarsi di contenuti culturali, esperienze e metodi già sedimentati nei contesti parentali, ma non ancora patrimonio di tutti, benché ricchi di potenzialità innovative. Ciò che è ormai assodato per chi ha sperimentato il metodo Montessori, la pedagogia steineriana, la scuola libertaria o la cosiddetta “pedagogia del bosco” non lo è affatto per la stragrande maggioranza degli alunni e dei genitori della scuola pubblica.

La scuola di cui stanno facendo esperienza ancora oggi i nostri figli, ragazzi e ragazze del XXI secolo, è ancora collegata al mondo di idee che si era formato negli anni Settanta del secolo scorso e che richiede un profondo ripensamento, in merito sia ai metodi sia al contesto educativo. La palese inadeguatezza della scuola a educare le nuove generazioni, però, non dipende solo dall’assenza di una volontà di cambiamento negli insegnanti. Il quadro è molto più complesso e comprende l’intera organizzazione sociale. 


In questi anni di collaborazioni mi è capitato di frequente di incontrare docenti, sia della scuola primaria sia della scuola secondaria, che si dichiaravano profondamente stanchi della vita che conducevano all’interno degli istituti presso i quali erano impiegati: parlo di persone impegnate, di amici e parenti, di soggetti che avevano scelto la professione con una forte motivazione e con la convinzione di poter fare qualcosa di veramente utile. Tutti quanti, a un certo punto, si sono ritrovati a dover ammettere che, nonostante i loro costanti sforzi, non era possibile produrre alcun cambiamento, poiché l’istituzione non lasciava altra possibilità se non attendere che qualche legge o circolare ministeriale, o magari un fatto insolito intervenuto provvidenzialmente, determinasse almeno qualche piccolo cambiamento nel comportamento collettivo percepito come ineluttabile e come l’unico adeguato a rispondere a tutti i bisogni, genericamente e unitariamente considerati. 


Questa però è precisamente la ragione per cui il cambiamento che tutti speriamo e auspichiamo non avviene nella scuola: esistono dei depositi culturali dei quali dobbiamo necessariamente curarci perché rappresentano attualmente l’unica risposta ai bisogni percepiti, per lo meno fino a quando non si produca una nuova risposta, parimenti praticabile. Le soluzioni note ci appaiono sempre le più ovvie, perfino quando ne riconosciamo l’inadeguatezza. 


Contribuiscono al mantenimento dello status quo un senso di ineluttabilità dell’esistente, che accettiamo con un certo fatalismo non privo di cinismo, e la tendenza a delegare i processi decisionali ai tecnici, di fatto sottraendoli alla nostra responsabilità. Decidere significa infatti poter sbagliare e l’errore che ne deriva comporterà un costo che la società accollerà a noi. L’errore, in un mondo in cui conta solo il risultato, non è ammissibile e la responsabilità è di chi sbaglia. Inoltre, si è obbligati a seguire la procedura, giudicata a priori come la migliore.

È interessante a tal proposito osservare che non si elimina il diritto di scegliere, ma si rende talmente complicato mettere in pratica le scelte divergenti, ritenute inadeguate o indesiderabili, che risulta quasi impossibile procedere in direzioni diverse da quelle standardizzate e che “qualcuno” ha deciso essere le migliori. 


Il ricorso continuo all’informatica per la gestione della vita quotidiana ha reso questa seconda strategia di fatto la più efficace per indurre le persone a stare entro i confini dell’unica esistenza accettata. La teoria è facile da comprendere: “la macchina non sbaglia”. 


Se la procedura è stata bene impostata, soltanto l’utente può sbagliare e quindi, laddove vi sia un errore, in primo luogo c’è responsabilità dell’utente, che ne paga le conseguenze, perché non in grado di seguire la procedura migliore; in secondo luogo non c’è possibilità di scelta, per cui si giustifica pienamente e si opera l’esclusione di chi non usa la macchina. 


Si noti bene che la macchina, per esempio il casello autostradale, è solo un tramite, un servitore virtuale, non un soggetto al quale si possono rappresentare i propri bisogni o chiedere dilazioni o meccanismi di sostegno e di aiuto che potrebbero, in qualche modo, allargare lo spazio nel quale si viene confinati. Chi non riesce a portare a termine la procedura viene escluso. 


Chi viene escluso, poi, perde ogni diritto e non può più richiedere o pretendere di ottenere quello che solo la procedura poteva dare: l’automatismo insomma va nella direzione dell’esclusione, non dell’inclusione. Siamo diventati tutti utenti e dipendiamo in modo completamente asimmetrico dalla macchina, rinunciando alla nostra autonomia e alla nostra capacità decisionale. 


Ne è stata una lampante dimostrazione la gestione dell’emergenza sanitaria del Covid, che ha avuto forti ripercussioni anche sull’educazione. Come noto a tutti, nel nostro Paese abbiamo gestito l’emergenza sanitaria dovuta al coronavirus per mezzo del lockdown prima, dell’istituzione delle aree a diverso impatto da contagio (le famose aree colorate) durante, per approdare infine al meccanismo del green pass o certificato verde. Dal momento che l’autrice del presente saggio tratta esaurientemente gli aspetti sociali di tutto questo, aggiungendo anche riflessioni che giudico originali e molto utili, non toccherò nessuno di questi argomenti: l’unica cosa che mi sembra rilevante ricordare qui è la gestione del green pass.

A noi utenti, ancora adesso, anche in questi giorni di post-pandemia, non basta avere il certificato verde per ottenere l’accesso completo ai servizi: risulta necessaria la validazione tramite apposita app e solo quando il responso di questa sarà positivo potremo proseguire, altrimenti, pur dotati di incartamenti corretti e di riferimenti digitalizzati in regola, ci può essere negato l’accesso. Il meccanismo stesso dell’isolamento da contagio prevede come fondamentale il nullaosta della piattaforma digitale ufficiale e non la certezza dell’assenza di malattia o contagio. Il dato biologico è ritenuto secondario rispetto al dato informatico. 


Non basta essere guariti e non essere in condizione di infettare gli altri: diventa più importante avere il via libera da parte del “sistema”, anche se questo comporta traffico dati insostenibile, incapacità di adempiere da parte degli operatori, inefficienza e ingiustizia. Quando il sistema è operativo e avviato, non può nemmeno essere fermato o ridimensionato e gli utenti esclusi sono semplicemente ritenuti sacrificabili perché, tanto, “nessuno avrebbe fatto meglio di così”. Come si è detto, infatti, “la macchina non sbaglia mai”. Da cittadini liberi in carne e ossa, portatori di diritti, siamo diventati un’evanescente sequenza di bit, cancellabile insindacabilmente dal sistema informatico, che decide per noi. La nostra libertà viene così subordinata al responso di una macchina. 


Perché abbiamo permesso e consentiamo questo stato di cose?
Perché siamo stati educati e formati in un sistema dove non era concesso nulla di veramente individuale. Abbiamo abitato per decenni un recinto scolastico dove i grandi non sbagliavano mai e noi eravamo contenitori “vuoti” da riempire e da portare avanti, anno dopo anno. Non necessariamente eravamo maltrattati, praticamente mai siamo stati molestati, ma non posso dire che ci fosse nei nostri confronti dell’autentico rispetto. 


Gli stessi insegnanti, anche quelli impegnati seriamente, non riuscivano a sottrarsi al subdolo meccanismo dell’esclusione, che portava a promuovere e lodare lo studente conforme e a fermare, bocciare, evitare quello che non lo era, senza che si compisse il fondamentale atto di capire e creare una relazione con la persona.

Il compito educativo e formativo è immenso e, intendiamoci, non è semplice svolgerlo nella consapevolezza di stare agendo per il meglio: è per questo che serve l’aiuto di tutti, ma se nemmeno ci proviamo, se non osiamo vie nuove, se ci permettiamo di ridurre tutto a routine, necessariamente avremo dei programmi didattici impartiti da robot evoluti, sul modello degli assistenti digitali, che impareranno a mostrarsi magari simpatici e divertenti, ma che saranno anche inflessibili e incapaci di comprensione o autentica empatia. Sarà così molto facile assegnare automaticamente un posto a ciascuno, senza che nessuno trovi niente da ridire, perché “la macchina non sbaglia mai”. 


Alla luce di tutto questo, non possiamo che ringraziare chi prova, come Patrizia Scanu, a descrivere orizzonti diversi e a indicare vie alternative, dove non si tratta di reagire agli incubi postmoderni, ma di imparare a essere persone pensanti, autonome e mature, ovvero ciò che ci auguriamo per i nostri figli. 


Francesco Bernabei Sviluppatore sociale nell’ambito dell’economia sociale, della finanza etica, del no profit e dell’educazione parentale

Oltre la scuola e l’homeschooling
Oltre la scuola e l’homeschooling
Patrizia Scanu
Riparare i danni della pandemia ed educare per il mondo che verrà. Una proposta di intervento educativo da realizzare nel contesto dell’istruzione parentale per gli allievi della scuola secondaria inferiore e superiore, ispirata al modello umanistico dell’educazione integrale (che coinvolge corpo, mente, anima e spirito), con il proposito di formare anime libere e capaci di sentire e di pensare.