Se comprendessimo il meccanismo e le motivazioni della mentalità di gruppo, non sarebbe possibile controllare e irreggimentare le masse secondo la nostra volontà, a loro insaputa?
Edward Bernays, Propaganda
CAPITOLO 1
La rottura pedagogica della pandemia: dalla scuola che accoglie alla scuola che discrimina
Chi insegna nella scuola pubblica italiana sa bene quanto sia stata grande per decenni l’insistenza normativa sull’inclusione, sull’accoglienza, sulle pari opportunità1 a scuola, in ossequio ai princìpi fondamentali dell’ordinamento costituzionale (artt. 3 e 34 Cost.). La retorica ministeriale ha insistito costantemente sulla didattica personalizzata e inclusiva proprio mentre la scuola affrontava la sfida sempre più difficile e via via crescente dell’accoglienza di minori stranieri, di allievi con disturbi di apprendimento, con difficoltà personali, familiari, sociali, con disabilità. A chi ha a cuore la scuola pubblica, tale insistenza, certamente giustificata e condivisibile in linea di principio, dati gli evidenti cambiamenti sociali in atto, è apparsa per lo più di facciata, una modalità per lavarsi la coscienza, mentre di fatto alla scuola venivano sottratti o negati fondi, risorse umane, ambienti e dotazioni adeguati.
Nella struttura organizzativa piuttosto rigida della scuola italiana, infatti – a cui si sono aggiunti dal 2008 (anno della riforma Gelmini) l’aumento sconsiderato del numero di alunni per classe e la riduzione del monte-ore per materia – la possibilità di seguire individualmente bambini e ragazzi è risultata sempre più utopica e affidata alla buona volontà e alle capacità del singolo docente. Le risorse economiche e umane messe a disposizione sono sempre scarse, per cui alle enunciazioni di principio, sicuramente nobili e giuste, corrispondono per lo più riunioni, stesura di documenti, compilazione di verbali dei collegi docenti e poca sostanza. Ne è conseguito un aumento sensibile del carico burocratico, a cui di rado è corrisposto un sostanziale cambiamento sul piano didattico. Tanta carta per poco, insomma, salvo lodevoli eccezioni. In fondo, è sempre stata la passione educativa di una parte dei docenti a tenere in piedi la scuola, nonostante tutto.
Le norme più rilevanti in tema di inclusione scolastica, dopo la legge quadro sulla disabilità n° 104 del 1992, sono la legge n. 170/2010, che ha introdotto importanti novità in tema di didattica compensativa e dispensativa nei confronti degli alunni con disturbi dell’apprendimento, e la Direttiva Ministeriale 27/12/2012, che introduce la nozione di BES (Bisogni Educativi Speciali). Sono BES la disabilità2, i disturbi specifici dell’apprendimento3, lo svantaggio socioeconomico, linguistico, culturale4.
Le indicazioni normative hanno sicuramente migliorato l’attenzione e la sensibilità dei docenti ai bisogni individuali dei loro allievi, rendendo meno invisibili ai loro occhi le difficoltà spesso gravi che ostacolano i processi di apprendimento dei ragazzi. “È la scuola che osserva i singoli ragazzi, ne legge i bisogni, li riconosce e di conseguenza mette in campo tutti i facilitatori possibili e rimuove le barriere all’apprendimento per tutti gli alunni, al di là delle etichette diagnostiche”, afferma il pedagogista Dario Ianes5.
Una scuola che accoglie, riconoscendo le differenze individuali e offrendo a ciascuno ciò di cui ha bisogno, permettendo a tutti di raggiungere il massimo livello possibile per ognuno è indubbiamente il sogno dei pedagogisti più sensibili all’idea di istruzione come promozione della crescita e dell’emancipazione dell’individuo.
Differenza e inclusione a scuola
Parlando di inclusione a scuola, non si può non riflettere sul tema della differenza. Appare infatti evidente il contrasto fra la standardizzazione dell’insegnamento, che viene proposto tradizionalmente in modo indifferenziato a un intero gruppo-classe, e il fatto incontrovertibile che ogni essere umano è unico e presenta una gamma assai variegata di differenze rispetto a ciascun altro. Inoltre, la scuola tende a realizzare prodotti uniformi nei contenuti e nei comportamenti, rispondenti a standard esterni e a esigenze di efficienza economica. L’outsider, il creativo, il ribelle non ricevono facilmente accoglienza nel contesto scolastico.
Da sempre, il diverso (in qualunque accezione) viene guardato con sospetto e diffidenza nella società, come portatore di un potenziale destabilizzante rispetto alla più rassicurante “normalità”. Nella storia, spesso questa differenza, ritenuta ontologica e immodificabile, ha comportato esclusione o espulsione dai contesti quotidiani di vita e di educazione. L’idea stessa, ancora diffusa fino a non molto tempo fa, che l’intelligenza fosse determinata esclusivamente dal patrimonio genetico conduceva all’esclusione dei meno dotati (spesso anche più poveri) da un percorso educativo adeguato e ribadiva una visione classista della società e della scuola. Oggi sappiamo che l’ambiente (fisico, affettivo e sociale) ha un’influenza pari alla dotazione genetica e questo rilancia l’importanza centrale della scuola nei processi di apprendimento.
Le differenze sono molteplici e sovrapponibili; se ci pensiamo un momento, ci accorgiamo che sono tantissime. Ci sono innanzitutto differenze cognitive. Sappiamo tutti che ogni bambino o ragazzo ha talenti e modi di apprendere diversi. Howard Gardner (1983; 20113) ha elaborato la teoria delle intelligenze multiple (intelligenza linguistica, spaziale, musicale, cinestetica, intrapersonale, interpersonale, naturalistica, esistenziale), ma si può pensare anche alla varietà degli stili cognitivi (globale/analitico, visuale/ verbale, dipendente/indipendente dal campo, convergente/divergente, impulsivo/riflessivo ecc.), degli assetti motivazionali (orientati alla curiosità, al bisogno di mettersi alla prova o need for competence, al bisogno di riuscita o need for achievement, all’affiliazione, all’accuratezza ecc.), al quoziente intellettivo (sulla base del Q.I. si diagnostica anche il ritardo mentale, che rappresenta un’ulteriore differenza), al livello di sviluppo.
Gli individui differiscono ovviamente anche per la personalità, per gli stili attributivi (tendenza a preferire attribuzioni causali interne o esterne per i loro successi o insuccessi), per le esperienze relazionali e familiari, per gli interessi. In alcuni casi, la differenza è considerata espressione di una patologia organica o psichica. Anche a livello fisico le differenze sono molte. Tra esse rientrano le diverse forme di disabilità. Diversissime poi sono le storie personali di ciascun individuo, tanto da fare di ciascuno di noi un mondo a sé. A scuola, spesso la conoscenza di queste storie permette all’insegnante di comprendere molto meglio le difficoltà del suo alunno.
Ma esistono anche le differenze sociali. Il sociologo dell’educazione Basil Bernstein (1971) distingue fra codice elaborato e codice ristretto, tra la lingua parlata dalla borghesia e quella degli operai non specializzati, vedendo nella palese differenza fra i due codici l’origine dell’insuccesso scolastico per gli alunni provenienti dalle classi sociali inferiori. Le differenze sociali (che nel loro insieme vengono chiamate DOE, disuguaglianza delle opportunità educative) comprendono anche il reddito, i contatti sociali della famiglia, le caratteristiche della famiglia, la disponibilità di libri e di denaro per spese culturali, il livello di istruzione, le condizioni abitative ecc. Possono rientrare in questa categoria anche le differenze di contesto socio-economico (grande/piccola città, paese isolato, quartiere degradato/ residenziale ecc.), le differenze di genere, l’appartenenza a gruppi minoritari e discriminati (i nomadi, per esempio).
In una società multietnica, contano anche le differenze culturali, di lingua, tradizioni, religioni, usanze e convinzioni. Nei paesi occidentali le politiche di accoglienza dell’immigrazione hanno seguito modelli diversi, dall’assimilazione al multiculturalismo, dal melting pot alla permanenza temporanea o alla segregazione più o meno evidente, ma il problema dell’integrazione resta spesso irrisolto.
Di fronte a tanta frammentazione, bisognerebbe chiedersi in che cosa consista la normalità. Ha ancora senso pensare a una scuola uguale per tutti, come presuppongono i test INVALSI? La scuola si trova di fronte a una sfida molto complessa, per affrontare la quale può trarre spunti dalla pedagogia speciale e dalla nozione di intercultura.
La pedagogia speciale nasce come pedagogia della differenza, ed è su questa base che la legislazione scolastica in Italia ha introdotto, come si è detto, la nozione di BES o bisogni educativi speciali, intendendo con essi “una richiesta di speciale attenzione per una varietà di ragioni: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse”6.
La prospettiva interculturale sollecita invece il riconoscimento delle differenze considerando individui e gruppi come mondi culturali distinti, ma in dialogo fra loro in un orizzonte di rispetto e di valorizzazione delle specificità individuali, attraverso il superamento degli ostacoli che impediscono la piena partecipazione al processo educativo.
Nell’insieme, questa prospettiva prende il nome di inclusione e si differenzia dall’integrazione perché non c’è un diverso da assimilare a un contesto preesistente, ma tante diversità quanti sono gli individui da far coesistere armoniosamente. Nel modello inclusivo si lavora sul contesto, non sull’individuo. L’inclusione ha come obiettivo l’empowerment degli individui, nel riconoscimento dei punti di forza e di debolezza di ciascuno, per attivare i primi e compensare i secondi.
Non si tratta di un concetto nuovo. Negli anni ’20 del Novecento, un grande pedagogista come Édouard Claparède, osservando l’inadeguatezza del modello scolastico tradizionale nel valorizzare le differenze fra gli alunni, introduceva la nozione di “scuola su misura”: una scuola, diremmo oggi, pienamente inclusiva e capace di far sviluppare a ciascun allievo le sue potenzialità e i suoi talenti. Nella tradizione pedagogica, la si ritrova in molti autori ed educatori, da Socrate in poi: il comune denominatore di tutti è il valore attribuito all’individuo che apprende. Non è l’allievo a doversi adeguare al maestro, ma il maestro a dover adattare se stesso e il suo insegnamento all’allievo.
Dall’inclusione all’apartheid sanitario
Chi studierà in futuro la storia degli ultimi anni, dovrà indubbiamente chiedersi come sia stato possibile che la scuola italiana, sulla carta fra le più inclusive d’Europa, sia riuscita nell’arco di pochi mesi a trasformarsi in un sistema di controllo coercitivo dei comportamenti e di discriminazione feroce degli alunni su base sanitaria, seguendo il modello tipico dei regimi totalitari. Per trent’anni e più, considerando le norme precedenti7, la legge 104 del 1992 è stata il fiore all’occhiello della scuola italiana. Siamo stati i primi ad aprire la scuola ai disabili, a introdurre la figura dell’insegnante di sostegno, a pensare all’inserimento nel mondo del lavoro anche a chi presenta menomazioni fisiche o problemi cognitivi. Benché mai riformata completamente sulla base del dettato costituzionale, la scuola italiana ha cercato nel tempo di lasciarsi alle spalle il modello elitario gentiliano e di accogliere tutti. Si può discutere della riuscita di questo tentativo, data la latitanza della politica e anche della pubblica opinione sul ruolo della scuola pubblica nella formazione di teste pensanti e di un’autentica coscienza democratica. Tuttavia, fino alla fine degli anni ’90 la tendenza era positiva, prima del degrado degli ultimi vent’anni. La scuola che accoglie e che offre pari opportunità a tutti è pienamente conforme al principio di eguaglianza sostanziale espresso dall’articolo 3, comma 2 della Costituzione: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Il fine è chiaro: formare prima la persona umana nella sua interezza e poi il cittadino e il lavoratore. Per essere cittadini consapevoli occorre prima sviluppare il potenziale umano e respirare democrazia in ogni ambito della vita, soprattutto a scuola. In effetti, il processo di democratizzazione della scuola italiana poteva seguire due strade diverse, una difficile e una facile. La via difficile cerca di mantenere un livello qualitativo alto nell’insegnamento, puntando a contenuti complessi, al pensiero critico, alla formazione eccellente dei docenti e nello stesso tempo a dotarli degli strumenti relazionali e didattici per tirare fuori il meglio da ciascun allievo. Questa direzione richiede grandi investimenti nella preparazione e nella selezione dei docenti, la mobilitazione delle migliori risorse creative del Paese per immaginare e costruire ambienti educativi adatti e percorsi scolastici flessibili, lo stimolo alle esperienze educative innovative, un forte sostegno economico all’istruzione. È noto da tempo che spendere in istruzione rende più ricco un Paese.
In Italia, dal 2000 in poi, è successo l’opposto: nessuna formazione seria dei docenti, pessima selezione, ambienti di apprendimento spesso inadatti e malsani, nessun incentivo all’innovazione spontanea, continui tagli draconiani alla spesa. Del resto, le politiche dell’istruzione sono condizionate da decenni dalle volizioni dei potentati economici internazionali, a cominciare dalla Tavola Rotonda Europea degli Industriali8, che dettano legge in sede europea e che hanno spinto sempre più l’istruzione nella direzione della formazione professionale e della riduzione dei contenuti culturali. In Italia, per di più, si risente della pochezza della classe politica e dell’asfissia economica prodotta dalle politiche suicide dettate dall’estero.
Da noi si è quindi seguita la via facile: abbassare il livello generale dell’insegnamento, dando poco a tutti e garantendo la promozione quasi universalmente, anche in presenza di evidenti lacune formative. Si hanno così famiglie contente, risparmio assicurato e un’istruzione scadente. Ma poiché in pochi comprendono veramente che cosa sia in gioco, la finzione sta bene a tutti. Abbassando l’asticella si permette a tutti di saltare, ma si impedisce a chi proviene da condizioni di svantaggio culturale di vincere le Olimpiadi, ovvero di arrivare ai più alti gradi dell’istruzione e della cultura solo attraverso la funzione emancipatrice della scuola. Per chi vede come un problema la coscienza critica e la cultura diffusa e vuole soltanto lavoratori docili e scolarizzati quanto basta per le esigenze produttive può essere senz’altro la strategia preferibile, ma dal punto di vista della Costituzione è l’opposto dell’uguaglianza sostanziale. È la scuola classista e ipocrita, mascherata da scuola inclusiva e democratica 2.0.
In questa scuola impoverita, depotenziata, trascurata, se non scientemente smantellata, che era già sull’orlo del precipizio prima della “pandemia”, le misure sanitarie esagerate e immotivate hanno prodotto uno tsunami, che ha spazzato via gli ultimi rimasugli di un’istruzione di qualità. Mascherine, distanziamento, didattica a distanza (DAD), regole ossessive e demenziali, un clima di terrore costante, di colpevolizzazione, di delazione hanno ucciso la socialità e la crescita sana dei bambini e dei ragazzi, provocando danni incalcolabili al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico9.
Ma l’aspetto più angosciante del clima scolastico nei due anni di follia collettiva (2020-2022) è stato il completo abbandono, da parte degli adulti – insegnanti, dirigenti scolastici, genitori – di ogni principio pedagogico, anche del più scontato e consolidato, per obbedire acriticamente a ordini insensati e dannosi, assolutamente antipedagogici. Con un’inconsapevolezza sconcertante e spaventosa, molti insegnanti di ogni ordine e grado, dalla scuola d’infanzia all’Università, hanno accettato senza battere ciglio di trasformarsi in arcigni aguzzini dei loro allievi, in testimonial di prodotti farmaceutici, in persecutori inflessibili di ogni accenno di ribellione, in delatori, controllori, giudici di bambini e ragazzi, fino a inculcare in loro il seme putrido della discriminazione e dell’esclusione morale verso i loro coetanei non vaccinati. La misura esclusivamente punitiva e abusante della DAD ai non vaccinati rappresenta nel modo più evidente la completa assenza di motivazione sanitaria del regime di controllo sociale totalitario installato nelle scuole italiane. Oltre a discriminare10 e a violare le più elementari norme di privacy11, questa misura odiosa genera una forma ulteriore di segregazione (o apartheid, con il termine in lingua Afrikaans usato in Sudafrica) sulla base di una condizione personale e privatissima, che si somma all’esclusione illegittima dei ragazzi dai mezzi pubblici, dai musei, dalle biblioteche, dagli alberghi, dai ristoranti, dalle attività sportive, dai luoghi di divertimento, dai negozi, a meno di cedere al ricatto di Stato e offrire il braccio al siero sperimentale, del tutto inutile per loro. Come questa violenza istituzionale sui minori, degna delle pagine peggiori della storia contemporanea, possa essere passata inosservata a educatori professionisti è qualcosa che mette i brividi.
Abbiamo visto tutti i bambini di tre o quattro anni giocare in una bolla, separati da tutti gli altri, come se fosse normale o accettabile; ci ricordiamo dei bambini di scuola primaria sgridati perché prestavano la penna al compagno o lasciati senza bere perché non riuscivano ad aprirsi la bottiglia o rinchiusi nello stanzino Covid da soli al primo starnuto; dei ragazzini delle medie puniti anche nelle valutazioni perché si abbassavano la mascherina ogni tanto per respirare, delle attività motorie svolte con la pezza sul volto, dei balilla del Green Pass che controllano l’osservanza delle regole e dei divieti discriminatori da parte dei coetanei, degli adolescenti buttati fuori dalle biblioteche e dai mezzi pubblici per i quali avevano pagato l’abbonamento. Ho visto con i miei occhi i ragazzi tristi, svuotati, uccisi nell’anima, che piangevano dietro lo schermo o avevano crisi di panico a casa al pensiero di andare a scuola; studenti universitari perdersi nell’indifferenza di tutti; ho raccolto le testimonianze piene di dolore e di incredulità di tanti adolescenti di fronte alla cecità robotica dei loro insegnanti, preoccupati soltanto di proteggere se stessi dal fantomatico virus e completamente privi di empatia per chi era affidato alla loro cura e protezione. Non meno sconvolgente è la passività dei ragazzi che si sono adeguati e hanno accettato senza protestare di restare immobili, impossibilitati a respirare, a fare sport, a incontrare i coetanei, a fare esperienze fondamentali per la loro crescita, nonché quella di molti genitori che non hanno avuto nulla da ridire su questi abusi, anzi spesso hanno contribuito ad aggravarli, rinunciando alla loro funzione di custodi e tutori dell’integrità dei propri figli.
Nessuno che abbia studiato un po’ di pedagogia ignora che bambini e ragazzi hanno bisogno di contatto fisico, di amore, di relazione, di empatia, di movimento, di aria aperta, sole e natura, di stimoli cognitivi, affettivi ed emotivi, di gioco, di socialità, di esperienza con i coetanei. Non è in alcun modo pensabile che si possa favorire la loro salute, già ben difesa dal loro potente sistema immunitario, negando loro tutto ciò che li fa star bene. Il fatto che questa rottura pedagogica si sia verificata con tanta inquietante facilità dopo decenni di retorica dell’inclusione da una parte dimostra che la formazione psico-educativa di molti docenti è soltanto una spolverata superficiale e mal compresa, quando non assente del tutto e che probabilmente parecchi di loro non hanno alcun talento per questa professione; dall’altra richiede una riflessione sul fallimento della scuola di cui essi stessi sono il prodotto e sollecita a esplicitare nuovamente ciò che è stato dimenticato sotto l’effetto di un lavaggio del cervello collettivo.
Com’è potuto accadere?
Probabilmente si scriveranno fiumi di inchiostro nei prossimi anni per cercare una spiegazione adeguata di quanto è successo. L’enorme esperimento sociale che ha coinvolto soprattutto i Paesi occidentali, di tradizione liberale e democratica, e che ha potuto essere condotto fino a limiti impensabili prima, soprattutto in Italia, ha richiesto indubbiamente una pianificazione accurata, mezzi economici e di pressione smisurati e la complicità dei mass media.
Senza entrare nel perché?, che ci porterebbe lontano, proviamo a rispondere al come?. Com’è potuto accadere che la gente si sia rivelata così indifesa rispetto alla propaganda televisiva, al continuo incitamento all’odio verso una categoria di cittadini innocenti, al terrorismo psicologico, alla pressione della maggioranza e dell’autorità? Come si è potuto costruire un clima sociale simile a quello della caccia alle streghe, dei pogrom, delle leggi razziali? Com’è stato possibile che gli educatori abbiano rinunciato a educare e si siano adattati senza scrupoli di coscienza a indottrinare e irreggimentare?
Primo Levi ci ha ricordato che lo sterminio fu solo l’ultimo atto di un processo di persecuzione iniziato con la contrapposizione fra “noi” e “loro”, con i discorsi di odio e di intolleranza, con la discriminazione, con la cecità della maggioranza rispetto al trattamento inumano della minoranza. Proprio come sta avvenendo oggi, sulla base di false accuse e di una sadica volontà di punire chi dissente. Scriveva Primo Levi: “A dispetto delle varie possibilità di informazione, la maggior parte dei tedeschi non sapevano perché non volevano sapere, anzi, perché volevano non sapere”12 e aggiungeva: “I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e a obbedire senza discutere […] Occorre dunque essere diffidenti con chi cerca di convincerci con strumenti diversi dalla ragione, ossia i capi carismatici: dobbiamo essere cauti nel delegare ad altri il nostro giudizio e la nostra volontà”13.
I processi psicologici in gioco e le tecniche di propaganda sono le stesse di allora. Gli schemi di fondo si ripetono, come ha giustamente rilevato Vera Sharav14, sopravvissuta all’Olocausto: “L’Olocausto non sarebbe accaduto se le persone avessero alzato la loro voce e avessero rifiutato ciò che stava accadendo. Non è stata solo la presa di potere militare; è stata l’apatia della gente la causa dell’Olocausto”. Come in tutti gli esempi storici di totalitarismo, è l’indifferenza della gente la causa ultima della disumanizzazione. Tale indifferenza è il risultato di una modificazione percettiva, per la quale l’inaccettabile diventa normale e non viene più percepito come moralmente sbagliato. Si tratta della “banalità del male” di cui parla Hannah Arendt15. Possiamo cercarne una spiegazione almeno provvisoria e parziale su diversi piani: sul piano psicologico, su quello culturale, su quello storicosociale e politico; da ultimo, sul piano spirituale.
Sul piano psicologico, sono stati ingredienti essenziali per questo risultato il clima di paura diffuso, l’obbedienza all’autorità e il conformismo, a cui possiamo aggiungere l’esclusione morale, il disimpegno morale, la creazione di un capro espiatorio. Lo strumento è stato l’uso spregiudicato e sofisticato delle tecniche di propaganda, di per sé indicatore inequivocabile di una pianificazione politica non democratica.
Sul piano culturale, hanno pesato la scarsa dimestichezza con la lettura e il livello basso di istruzione della popolazione generale, specie in ambito psicologico e storico, ma anche il tradizionale familismo e una mai sopita tendenza degli italiani a svalutare se stessi, a seguire la maggioranza, a prendere per oro colato quanto veicolato dalla televisione e a cedere all’autorità.
Sul piano storico-sociale e politico, la narrazione mediatica ingannevole e strumentale ha tenuto in piedi una percezione distorta dei processi storici ed economici che sono stati attuati a loro danno. Appare sconfortante la sostanziale inconsapevolezza con la quale molti italiani continuano a non vedere come la nostra politica sia stata per secoli pilotata dall’estero, come la torsione elitaria delle istituzioni europee ci abbia sottratto ricchezza e sovranità politica e monetaria e come la classe politica bugiarda e corrotta che ci governa sia uno strumento di potere in mani straniere e mai faccia l’interesse del popolo. L’arretramento dei diritti sul lavoro, l’impoverimento della classe media, la privatizzazione dei servizi pubblici, i tagli a sanità e scuola non sono eventi casuali né fatalità, ma il risultato di un progetto politico di almeno 50 anni che mira a distruggere la piccola e media impresa, a indebolire la capacità di reazione degli italiani e ad acquistare i nostri beni e i nostri asset a prezzo di saldo. Ce ne dovrebbe essere abbastanza per nutrire una sana diffidenza verso il potere politico, ma la cecità dell’autoinganno è più forte. Continuiamo a vedere ingenuamente il potere politico come il buon padre di famiglia che ci protegge e si occupa di noi. Questa stolida proiezione genitoriale ci sta costando carissima.
Sul piano spirituale, la paura della morte ha fatto retrocedere l’etica, la responsabilità, la connessione con la propria dimensione trascendente, potenziando la mente animale (legata al cervello rettiliano e limbico) e addormentando la Coscienza superiore16. Il bisogno animale di sicurezza ci ha reso accettabile la perdita della libertà e la sottomissione codarda a chi ci fa del male. L’attaccamento alla nuda vita biologica ci ha fatto smarrire la nostra natura divina e ci ha reso egoisti e indifferenti agli altri. Il bisogno infantile di certezze ha trasformato la scienza in un dogma, la medicina in una religione e un farmaco di dubbia sicurezza in un viatico di salvezza.
La paura usata come arma
Che la paura sia strumento di governo, è cosa risaputa da millenni. Già questo doveva essere un segnale allarmante per chi ha nozioni anche solo elementari di storia. Che in questi due anni sia stata diffusa a piene mani dai media, in maniera martellante e asfissiante, è un dato di fatto. Forse è un po’ meno noto che c’era del metodo in questa strategia comunicativa. Il governo britannico aveva riconvocato nel febbraio 2020 (attenti alla data! L’emergenza pandemica venne dichiarata dai media in Italia un mese dopo) un gruppo di lavoro, formato da funzionari e consulenti scientifici già riunitosi nel 2009/10 in occasione della pandemia di influenza suina, sotto il coordinamento del Scientific Advisory Group for Emergencies (SAGE). Il nuovo nome del gruppo era Scientific Pandemic Influenza group on Behaviour, or SPI-B. Il suo compito non era di fornire competenze mediche in merito alla pandemia di Covid-19, ma di dare indicazioni sul modo in cui aiutare i cittadini ad aderire alle misure imposte dal governo. Evidentemente, le misure erano già stabilite prima e bisognava farle digerire al popolo. Le stesse misure vennero imposte con curiosa unanime coralità da tutti i governi occidentali e non solo, indizio di una regia unica mondiale. Il documento prodotto dal gruppo si intitola Options for increasing adherence to social distancing measures17. Con una modalità piuttosto aggressiva e dirigistica, individua nove strategie per conseguire l’obiettivo dell’obbedienza: Istruzione, Persuasione, Incentivazione, Coercizione, Abilitazione, Formazione, Restrizione, Ristrutturazione ambientale, Modellamento18.
L’induzione della paura è al primo posto. Le persone devono sentirsi minacciate e l’autorità deve rendere chiare le azioni che possono compiere per ridurre la minaccia (distanziamento, mascherine, igienizzazione). Come ha ammesso uno dei membri dello SPI-B mesi dopo, il popolo “è stato stordito dalla psicologia comportamentale usata come arma”19. Si chiama manipolazione, perché la persuasione viene attuata in modo subdolo e nell’interesse esclusivo di chi la attua. Una persona spaventata è più facilmente condizionabile e poco reattiva, perché le sue difese sono abbassate. Lo sanno i tiranni di ogni epoca. Ma per ottenere l’effetto, si deve usare una comunicazione ingannevole e intenzionalmente strumentale. Il fine è infatti l’acquiescenza all’autorità, non l’interesse dei cittadini, liberamente determinato.
Al secondo posto, gli esperti governativi mettono la disapprovazione dei comportamenti non conformi, rilevando anche il pericolo che ne deriva per la coesione sociale. Essi consigliano insomma di forzare l’adeguamento alle norme sfruttando il conformismo del gruppo che spinge la maggioranza conforme a punire i trasgressori e a farne il bersaglio della loro aggressività. Il controllo sociale viene così affidato direttamente ai cittadini, aizzando gli uni contro gli altri. Suonano alquanto pelose le preoccupazioni indicate sull’effetto inevitabile di criminalizzazione del dissenso.
Per questi e per gli altri obiettivi, lo strumento principale indicato dagli estensori sono i mass media, ridotti così a mero strumento di propaganda e di condizionamento delle masse, anziché elevati a guardiani della democrazia. L’uso dei media a scopi di propaganda politica è tipico dei regimi autoritari e totalitari. Gli indicatori di questo uso aberrante durante la pandemia sono stati l’assenza di ogni forma di pluralismo, la denigrazione delle opinioni dissenzienti, la diffusione dell’odio e dell’ostilità verso una categoria di persone, additate come nemici pubblici, la contraddittorietà e insensatezza delle informazioni pseudoscientifiche fornite ai fini della salute dei cittadini (si pensi al demenziale protocollo sanitario di tachipirina e vigile attesa o alle statistiche inconsistenti e terrorizzanti), l’insistenza sulla prevalenza del bene collettivo su quello individuale (tipico dei regimi totalitari a sfondo collettivistico), il ricorso a evidenti fallacie argomentative, come la falsa dicotomia (“o ti vaccini o muori”; “o obbedisci o rinunci ai tuoi diritti fondamentali”; in realtà, i due elementi non sono mutuamente esclusivi e l’alternativa sottintende un ricatto, in stile malavitoso), la sovrabbondanza di informazioni false, artefatte, strumentali, l’uso di smaliziate tecniche di marketing per piazzare i presunti e costosissimi sieri miracolosi20.
Un dispiegamento così potente di mezzi di manipolazione e di coercizione su una massa spaventata non poteva non produrre effetti aberranti. La giornalista britannica Laura Dodsworth ha raccolto nel 2021 le testimonianze degli esperti dello SPI-B, da lei definiti “psicocrati non eletti”, in un libro intitolato Uno Stato di paura. Come il Governo britannico ha usato la paura come arma durante la pandemia di Covid-1921. Uno di loro, Gavin Morgan, lui stesso incredulo dell’impatto devastante del condizionamento di massa, ha ammesso la natura maligna dell’operazione: “Chiaramente, usare la paura come mezzo di controllo è contrario all’etica. Usare la paura puzza di totalitarismo. Non è un’attitudine etica per nessun governo moderno”22.
Il linguaggio militare usato dagli esperti ci parla di guerra. Non una guerra contro un virus, ma una guerra asimmetrica e ingiusta contro il popolo, contro la democrazia e contro i diritti umani. L’operazione di condizionamento di massa ha funzionato perché la gente ignora il funzionamento della propria mente, ha nozioni vaghe di psicologia e non conosce la potenza delle tecniche di controllo comportamentale.
Conformismo e obbedienza all’autorità
Chi usa mezzi così potenti e sleali conosce la mente umana assai meglio della massa. Conosce perciò benissimo la propensione della gente al conformismo e all’obbedienza all’autorità, la prima ben illustrata – fra gli altri – da un classico esperimento di Solomon Asch (1951)23, la seconda dal famoso esperimento di Stanley Milgram (1963). Asch mostrò come molte persone, quando sono in minoranza, tendano a conformarsi alla decisione della maggioranza anche quando è palesemente errata, per lo più per acquiescenza, per quieto vivere. Milgram, che era allievo di Asch, constatò invece come i due terzi delle persone (il 65%), indipendentemente dall’età, dal sesso, dal livello di istruzione, dalla nazionalità e da altri fattori socioeconomici era disposta a obbedire a un’autorità fino al punto di uccidere (potenzialmente) una persona sconosciuta. Se all’effetto dell’obbedienza all’autorità si sommava la conformità sociale (vedere un altro soggetto andare fino in fondo), la percentuale di obbedienza saliva al 90%. La somma di obbedienza all’autorità e conformità sociale ha prodotto il risultato catastrofico che abbiamo sotto gli occhi. Lo sapevano anche gli esperti dello SPI-B.
Le persone, quando sono sole di fronte all’autorità (politica, religiosa, militare, scientifica – non fa differenza), entrano in una particolare condizione psicologica che si chiama stato d’agente. Si sentono come uno strumento in mano a qualcun altro, come passivi esecutori, e smarriscono il senso della responsabilità personale dei propri atti. Ovviamente, l’autorità tende a sminuire o a ignorare le conseguenze dannose, per tacitare gli scrupoli di coscienza, o a dare motivazioni apparentemente ragionevoli per le azioni richieste. Questo fenomeno viene chiamato dislocazione di responsabilità. È una condizione del genere che può spiegare la stupefacente obbedienza di insegnanti e genitori, disposti a compiere azioni dannose per i propri allievi o per i propri figli senza percepirsi responsabili di questa supina acquiescenza e senza nemmeno percepire di aver fatto qualcosa di sbagliato.
Ma la propaganda mediatica ha fatto anche di peggio. Sempre seguendo i consigli degli esperti, ha criminalizzato i dissidenti, li ha censurati e bullizzati, generando un altro fenomeno pericolosissimo, tipico dei regimi totalitari, che è l’esclusione morale. In psicologia, si chiama “esclusione morale” il fenomeno per il quale un gruppo di persone, percepito come distinto dal proprio gruppo, viene fatto oggetto di discriminazione, fino alla violenza, perché i suoi membri vengono considerati indegni di considerazione e di rispetto, come se non si applicassero a loro le norme morali comunemente seguite. Il processo è graduale e comincia con il semplice etichettamento di un altro gruppo (“no-vax”, per esempio). Se poi la discriminazione è sostenuta dall’autorità e per di più in un clima di paura e di esercizio arbitrario della legge, come quello attuale, che manda la razionalità in soffitta e crea caos normativo, il potenziale per la violenza diffusa è alto. Lo psicologo comportamentista Albert Bandura indicava come risultato del disimpegno morale, ovvero della deresponsabilizzazione del singolo rispetto alle conseguenze dannose dei suoi atti, la deumanizzazione della vittima e l’attribuzione di colpa: la vittima cessa di meritare il rispetto dovuto ai propri simili e appare meritevole del danno che le si infligge. La vittima della violenza e della discriminazione deve apparire colpevole perché il carnefice possa liberarsi dal senso di colpa. È sulla base di un meccanismo psicologico di questo tipo che nei regimi totalitari le persone possono compiere atrocità restando convinte di essere nel giusto.
Secondo il professor Mattias Desmet, docente di Psicologia clinica all’Università di Gand, in Belgio, e autore del libro Psicologia del totalitarismo24, all’origine del totalitarismo c’è sempre un meccanismo psicologico primitivo, che lui definisce “formazione di massa”, una forma di ipnosi collettiva che spinge le persone a obbedire “per il bene della collettività”. La condizione che rende possibile la formazione di massa è la presenza, nella società, di un gran numero di persone ansiose, ma senza un oggetto definito per la loro ansia, depresse, isolate, rabbiose e frustrate, che non riescono a dare un senso alla vita e non riescono a gestire il proprio malessere. Quando viene loro offerto un oggetto definito per l’ansia fluttuante, per esempio un virus, e una via d’uscita esterna, come compiere certe azioni insieme ad altri (chiudersi in casa, distanziarsi, mascherarsi, igienizzarsi ecc.), trovare uno scopo per vivere (la sopravvivenza alla malattia), sperimentare una fittizia solidarietà con altri in vista di un presunto bene collettivo (“insieme ce la faremo”), queste persone recuperano un senso di connessione prima smarrito nella comune lotta alla malattia e scaricano la loro aggressività repressa su un capro espiatorio (i negazionisti, i no-vax), accuratamente indicato dal regime. Il nemico, interno o esterno, è indispensabile al sistema totalitario per restare in piedi.
In questo stato psicologico di ipnosi collettiva, la percezione della realtà si restringe, come se nient’altro avesse importanza oltre al virus, e le persone sono disposte a sacrificare tutto – libertà, figli, lavoro, salute – all’unico obiettivo che conta. Non per nulla in ipnosi si può affrontare un intervento chirurgico senza anestesia e senza dolore: il campo dell’attenzione si restringe ed esclude interi ambiti di esperienza. Per via di questa sorta di visione a tunnel, le persone ipnotizzate diventano estremamente intolleranti e chiuse a ogni elemento di realtà, perché mettere in dubbio l’ideologia condivisa riporterebbe la condizione di ansia dalla quale si è usciti25. Più le azioni richieste dal regime sono assurde, più ottengono acquiescenza, perché la funzione delle azioni è puramente rituale, non razionale rispetto allo scopo. Nel rito collettivo, il pensiero critico viene meno completamente. Il ritorno alla normalità diventa impossibile, perché è nello stato di eccezione che la loro vita vuota e insignificante o comunque poco soddisfacente ritrova un senso26.
Perciò Desmet individua la causa del fenomeno nel contesto sociale disgregato, individualista e competitivo e nella scarsa consapevolezza di sé di molte persone. Purtroppo la scuola non insegna né a conoscere se stessi né a gestire consapevolmente le proprie emozioni. In questo analfabetismo emotivo diventa facile trovare una causa esterna per il proprio disagio interiore.
L’analfabetismo funzionale
Una delle condizioni di fondo che hanno permesso il successo della manipolazione è l’ignoranza diffusa della psicologia, della storia, delle tecniche di propaganda, la mancanza di conoscenza del funzionamento dei media e delle potenzialità di controllo totalitario offerte dalla tecnologia; in Italia ha avuto un ruolo centrale anche la piaga dell’analfabetismo funzionale, che consiste nell’incapacità di analizzare, comprendere, valutare, usare nella vita quotidiana un testo orale o scritto.
Secondo i dati Piaac-Ocse del 201927, circa il 28% della popolazione italiana tra i 16 e i 65 anni è analfabeta funzionale al livello 1 o meno (competenza alfabetica molto modesta al limite dell’analfabetismo). Ma se consideriamo l’insieme dei livelli fino al 3, che indicano comunque una scarsa comprensione di testi e fenomeni complessi, la percentuale sale al 70%. Solo il 3,3% raggiunge il livello 5 (buone capacità riflessive e interpretative). Pochissimi il livello massimo, il 6. Nell’anno prima del Covid solo lo 0,6% dei quindicenni italiani, contro l’1,1% della media Ocse, raggiungeva il livello più elevato di preparazione28. Non osiamo pensare dopo due anni di interruzione scolastica. C’è da farsi più di una domanda su questo fallimento educativo se si lavora nella scuola.
Un analfabeta funzionale sa leggere e scrivere, ma non riesce a comprendere fenomeni complessi, perché gli riesce difficile vedere al di là della sua esperienza diretta, tende a generalizzare partendo da pochi dati o si fida ciecamente del suo limitato sapere, non legge (specie in inglese, lingua franca della scienza) o legge poca saggistica, non approfondisce, non cerca versioni diverse dei fatti per sviluppare un pensiero critico, non collega eventi apparentemente slegati fra loro, non ha dimestichezza con le regole della logica e dell’argomentazione né con la statistica, per cui è soggetto alle fallacie argomentative ed esposto alla falsificazione dei dati, si lascia guidare dalle emozioni a seguire la via periferica e impressionistica, anziché quella centrale e analitica per esaminare i problemi. La sua visione del mondo è frammentaria e superficiale e questo gli rende difficile cogliere le cause, spesso complesse e stratificate, dei fenomeni sociali, economici, politici. Non dipende solo dal livello di istruzione. Desmet nota che sono spesso le persone più istruite a incorrere nella formazione di massa. A volte, è proprio la specializzazione estrema a rendere impermeabili a informazioni provenienti da ambiti diversi, che non si riesce a integrare in una visione critica.
Peraltro, la campagna mediatica terroristica che ha bombardato l’intera popolazione per due anni era difficile da sostenere anche per persone lucide e consapevoli. Un simile allineamento unilaterale dei media, totalmente appiattiti sulla narrazione governativa (e lautamente compensati per questo29), si configura come un vero e proprio atto di guerra asimmetrica contro una popolazione inerme, per fini che non possono essere di salute pubblica, se i mezzi provocano devastazione psicologica, economica e sociale. In democrazia, il fine non giustifica mai i mezzi.
Come hanno ammesso gli esperti britannici dello SPI-B, sono state dispiegate tutte le tecniche di propaganda, marketing e manipolazione descritte da Edward Bernays (1928), Jacques Ellul (1973), da Robert Cialdini (1984), da George Orwell (1949) e usate dai regimi totalitari del Novecento. In particolare, hanno avuto largo impiego le 10 strategie di manipolazione di massa descritte nel 2002 da Sylvain Timsit30 ed erroneamente attribuite a Noam Chomsky.
- La strategia della distrazione: la prima strategia di manipolazione mediatica è la distrazione, poiché è l’elemento primordiale del controllo sulla società. Consiste nel distogliere l’attenzione del pubblico da questioni importanti, occupandolo in quelle banali per togliergli tempo e possibilità di pensare. Per esempio, impegnarle a discutere di norme emergenziali cavillose e confuse, mentre vengono private del lavoro, della ricchezza e dell’autodeterminazione.
- Creare problemi e offrire soluzioni (problema-reazione-soluzione): questa strategia di manipolazione mediatica consiste nel creare un problema per causare una reazione nel pubblico che finirà per chiedere e accettare volentieri la soluzione che chi è al comando voleva adottare sin da subito. Per esempio, ingigantire la pericolosità di un virus per distruggere l’economia, i diritti umani e la democrazia, limitando le libertà fondamentali in nome della sicurezza.
- La strategia della gradualità: si tratta di favorire l’accettazione di una misura esagerata o ingiusta, applicandola gradualmente, poco per volta, nell’arco di più anni. Per esempio, allungare progressivamente la durata dei lockdown o aumentare la stretta sulle misure sanitarie, che diventano sempre più soffocanti a prescindere da ogni reale stato di emergenza. Espropriare il popolo della sovranità, togliendola un po’ alla volta con scuse diverse e apparentemente nobili. Rendere il popolo sempre più povero e insicuro, per dominarlo.
- La strategia del differimento: un altro modo per indurre ad accettare una decisione impopolare consiste nel presentarla come “dolorosa, ma necessaria”, ottenendo l’accettazione pubblica con la promessa di applicarla in futuro. Per esempio, stabilire mediante decreto la vaccinazione obbligatoria dei cinquantenni, ma rinviando la decorrenza dell’obbligo di settimane o mesi. Rinviare l’aumento dell’IVA, dolorosamente necessario in nome del rientro dal “debito pubblico” o introdurre gradualmente dei vincoli energetici per le abitazioni, che impediranno di venderle fra pochi anni, in nome di una non meglio specificata difesa dell’ambiente.
- Infantilizzare il pubblico: trattare il pubblico come una massa di bambini poco svegli o di incapaci, mediante discorsi, argomenti, personaggi e intonazioni che lo fanno regredire al ruolo di un bambino indifeso è una strategia efficace per ingannarlo. Chi viene trattato come un dodicenne finisce con il sentirsi un dodicenne e non reagisce. Per esempio, punire i cittadini che escono di casa durante il lockdown, benché offensivo e umiliante per un adulto, genera la sottomissione tipica del bambino verso il padre autoritario e permette di renderlo complice dell’abuso che subisce.
- Fare appello alle emozioni, anziché alla riflessione: risvegliare il lato più emotivo delle persone è una tecnica classica per bloccare l’analisi razionale di una situazione, così come il pensiero critico. D’altra parte, l’uso di un registro emotivo fa appello al comportamento istintivo, basato soprattutto su desideri o paure. “In più, l’utilizzo del registro emozionale permette di aprire le porte all’inconscio e di impiantare idee, desideri, paure, pulsioni o comportamenti”, scrive Timsit. Per esempio, ingigantire la paura tramite i media per ottenere obbedienza, come suggerito dallo SPI-B; seminare odio e ostilità verso un gruppo sociale (per esempio, i non vaccinati) senza motivo, per generare consenso acritico alle misure dannose.
- Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella stupidità: un’altra strategia di manipolazione mediatica è rendere il pubblico incapace di capire le tecnologie e i metodi usati per controllarlo. Si tratta di una strategia sia di lungo termine, perché prevede di fornire alla massa un’istruzione scarsa e prevalentemente tecnica, per poterla controllare e mantenere sottomessa, sia di breve termine, perché una massa mal scolarizzata non ha capacità di difesa rispetto alle falsità propalate dai media, specie dalla TV. Per esempio, mandare in televisione alcuni medici testimonial delle case farmaceutiche o dei leader politici per diffondere con arroganza e senza contraddittorio nozioni mediche false e contrarie alle più basilari conoscenze scientifiche (“chi non si vaccina muore”; “il vaccino è l’unica arma contro il virus”; “chi è guarito va vaccinato comunque” ecc.).
- Abituare il pubblico alla mediocrità: la manipolazione mediatica promuove la convinzione che essere volgari, ignoranti, non studiare e non sapere troppo è socialmente apprezzabile e alla moda, come si può osservare dall’infimo valore informativo della stragrande maggioranza dei programmi televisivi. Quindi, una soubrette velenosa come un aspide può zittire un premio Nobel per la medicina nel suo ambito di ricerca o un giornalista può insolentire un medico indipendente ed esperto, ma critico verso la versione ortodossa (di solito, quella economicamente più vantaggiosa per gli azionisti dei farmaci). Le regole del dialogo vengono sistematicamente violate e il dissidente competente regolarmente brutalizzato da una squadra di bulli ignoranti, come se fosse sensato e normale.
- Rimpiazzare la ribellione con il senso di colpa: convincere l’individuo che è l’unico responsabile dei suoi fallimenti, causati soprattutto dalla sua scarsa intelligenza, dalle sue mediocri capacità o dai pochi sforzi fatti. Invece di ribellarsi al sistema, la persona si biasima e si svaluta in partenza, il che genera uno stato depressivo il cui primo effetto è l’inibizione dell’azione. E senza azione, niente rivoluzione! Per esempio, nei cittadini devastati da misure folli, per le quali avrebbero tutte le ragioni di rivoltarsi ai governanti, instillare il senso di colpa per il fatto di poter essere contagiosi o non vaccinati o far credere agli adolescenti che potrebbero “uccidere i nonni” per fiaccarli e spingerli a farsi inoculare una sostanza per loro inutile e dannosa.
- Conoscere gli individui meglio di loro stessi: l’ultima strategia di manipolazione mediatica si basa sullo sviluppo di un sistema che consente di sapere tutto sulla mente e di controllare le persone, grazie a scienze quali la biologia, le neuroscienze o la psicologia applicata. Ciò consente un controllo quasi totale sulle masse. La gente conosce se stessa assai meno di come la conosca il potere e pochi hanno fatto studi seri di scienze umane e di filosofia. L’ignoranza è da sempre un ottimo strumento di dominio, come la paura. Lo abbiamo visto chiaramente sentendo le testimonianze degli esperti delloSPI-B. Grazie a questa ignoranza, come abbiamo detto, interi popoli sono stati ingannati e abusati.
L’uso manipolativo del linguaggio, con l’effetto di framing, cioè di inquadramento delle questioni in un’ottica distorta e di limitazione del pensiero a concetti semplificati e polarizzati, e una visione assurda della scienza, che la rende più simile a una fede superstiziosa e intollerante che a un sapere metodico, provvisorio, critico e sempre aperto al dubbio e alla confutazione, insieme a una censura soffocante, da Santa Inquisizione, hanno contribuito a produrre la più massiccia operazione di guerra psicologica mai vista a memoria d’uomo. La grottesca deformazione del sapere medico-scientifico, ridotto a un coacervo di affermazioni dogmatiche, contraddittorie e mai sostenute da argomenti attendibili, secondo la modalità tipica della pubblicità e del marketing o addirittura delle sette più fanatiche, ha reso i due anni della psicopandemia televisiva uno squallido e violento pandemonio di piazzisti, corrotti e odiatori seriali.
Comprendere le ragioni del fallimento e guardare oltre
Urge più che mai una riflessione educativa su questo disastro, le cui vittime principali sono stati bambini e ragazzi. Sulla base di informazioni menzognere, di una falsa scienza e di una propaganda senza etica si sono condannati milioni di minori a subire traumi violenti e dolorosi31. La scuola che irreggimenta, che nega i diritti fondamentali, che è cieca e sorda alla sofferenza degli allievi, che discrimina e segrega, che accetta di essere strumento di indottrinamento ideologico e di disumanizzazione, anziché seme vitale di conoscenza, di rispetto e di tolleranza, è una scuola fallita, una scuola morta.
Siamo di fronte ai danni di una guerra silenziosa, nella quale molti adulti si trovano nella duplice condizione di vittime e di complici e milioni di bambini e di adolescenti hanno perso per lunghi periodi, quando non per sempre, la gioia, la voglia di vivere e di progettare, due anni fondamentali della loro vita, il contatto visivo e umano, a causa della mascherina e del distanziamento forzato; hanno dovuto rinunciare all’empatia, allo sport, alla natura, alla vita scolastica, all’esperienza sociale. Non pochi hanno subìto danni fisici, anche in seguito all’inoculazione dei sieri. Inoltre, sono stati immersi in emozioni tossiche come la paura prolungata e immotivata, il senso di colpa, l’ostilità verso categorie di coetanei, l’ansia, la tristezza, il senso di vuoto e di solitudine, e sono stati spinti alla delazione, al sacrificio (inutile) di sé, al conformismo, alla sottomissione acritica, come tante scimmiette ammaestrate.
Il danno maggiore è avvenuto sul piano spirituale. Se si toglie a un essere in crescita la prospettiva del futuro e la percezione della propria creatività, libertà e trascendenza, gli si toglie l’anima e gli si spegne la luce interiore. Un attacco così devastante e spietato all’umano è un fatto eccezionale e da non sottovalutare, che richiede la mobilitazione di tutte le risorse disponibili per un tentativo di cura. Di fronte alle macerie della scuola un tempo inclusiva, dobbiamo pensare a qualcosa d’altro, a una pedagogia riparativa e a un modo di educare adatto ai tempi che stiamo vivendo.
Oltre la scuola e l’homeschooling
Patrizia Scanu
Riparare i danni della pandemia ed educare per il mondo che verrà.
Una proposta di intervento educativo da realizzare nel contesto dell’istruzione parentale per gli allievi della scuola secondaria inferiore e superiore, ispirata al modello umanistico dell’educazione integrale (che coinvolge corpo, mente, anima e spirito), con il proposito di formare anime libere e capaci di sentire e di pensare.