Le finalità educative
Nella scholé, la distinzione tradizionale fra finalità educative e didattiche sarà più di forma che di sostanza, data la costante integrazione di aspetti cognitivi, emotivi, relazionali, spirituali e corporei che ci porremo come modalità costante di lavoro. Poiché il modello di riferimento è quello umanistico dell’educazione integrale, ogni momento didattico diventa per sua natura educativo. Il sapere non deve essere mai fine a se stesso, ma deve sempre avere un significato esistenziale e trasformativo, nel senso che cambia la vita, la arricchisce, permette di portare in ogni situazione la luce della coscienza e della verità. Come si è già detto, la pedagogia trasformativa è orientata a sviluppare appieno la componente spirituale, l’unica in grado di modificare la realtà per elevarla anziché adattarvisi, come farebbe un animale qualunque. Trans-formare in latino significa “dare una forma che superi, che vada oltre [quella precedente]”: oltre la scuola che ingabbia i corpi e le menti, che ha cessato di adempiere il mandato costituzionale, che annoia, umilia, spegne il desiderio di imparare, che de-forma, anziché formare. Se autenticamente trans-formativa, questa pedagogia saprà trasformare nel tempo anche la scuola e riportarla ai valori educativi autentici.
Le finalità educative definiscono qualcosa che gli allievi devono diventare perché già sono così e ancora non lo sanno, non qualcosa che devono dimostrare di sapere, tanto meno qualcosa che viene imposto dall’esterno per interessi estranei. Non si tratta di interiorizzare nozioni o visioni del mondo, come l’ideologia globalista dell’Agenda 2030, ma di sviluppare la parte migliore di sé per ricordare chi si è veramente, come ha giustamente insegnato Platone – insomma, ciò che i controllori del mondo hanno cercato di impedire per secoli, tenendo l’umanità nell’ignoranza, nell’impotenza, nella paura e nella sottomissione.
1. Conoscere il funzionamento della mente animale. La mente animale ci appartiene in quanto abbiamo una componente animale, benché anomala e in parte diversa da quella di tutti gli altri animali. Essa si porta dietro le memorie della specie e funziona in modo irriflesso e istintivo, poiché è inconscia, a differenza della nostra Coscienza superiore, in grado di osservare e di decidere con maggiore libertà. Questa dualità fra animalità e divinità, fra la bestia e l’angelo ha occupato la riflessione dei filosofi fin dalle origini del pensiero umano. Come disse Pico della Mirandola1, l’uomo, “opera di natura indefinita”, può scegliere se essere bestia o angelo perché dentro di lui vi sono “semi di ogni sorta”. Siamo esseri compositi. Il senso di unità dell’io che crediamo di avere è del tutto illusorio. Condividiamo con il mondo degli animali molti schemi di comportamento innati, istintivi o emozionali collegati al cervello rettile e a quello limbico: attacco e fuga, predazione, aggressione, competizione, difesa del territorio, allevamento della prole, rango e gerarchia, gioco ecc.: siamo a tutti gli effetti una specie animale umana con spiccate caratteristiche neoteniche2, che fanno pensare a un processo di addomesticamento3.
Conoscere la mente animale significa comprenderne per esperienza le caratteristiche di fondo e gli automatismi e soprattutto renderci conto di come essi condizionino le nostre scelte coscienti e di come a loro volta le nostre scelte non etiche ci facciano scendere al livello della mente animale. Non si tratta di una conoscenza psicologica, ma di una pratica interiore quotidiana. Le memorie animali della nostra specie, infatti, tendono a riattivarsi nelle circostanze e negli scenari collettivi che le richiamano in via analogica, per similitudine. In caso di guerra, per esempio, viene stimolata la memoria mammifera: difesa della prole, della nazione, del gruppo, del territorio, procacciamento del cibo, sopravvivenza ecc. Quando c’è un problema di sopravvivenza, il cervello limbico, a cui si deve la nostra ricca esperienza emozionale, si collega al rettiliano, per il quale è istintiva la lotta per la sopravvivenza. È quello che succede in caso di guerra. La guerra è un’attività umana che taglia il legame fra il cervello limbico e Coscienza, perché vengono meno i punti di riferimento morale. Si annullano empatia e fratellanza e ci degradiamo ai livelli più bassi di umanità. Potremmo considerare la guerra e il genocidio a tutti gli effetti come una forma di cannibalismo, cioè di predazione intraspecifica. Il primatologo Marc Hauser, che ha indagato le origini della crudeltà umana, avanza l’ipotesi che “la capacità di male in origine è evoluta come una conseguenza incidentale della nostra intelligenza unica, ma una volta presente ha procurato benefici significativi a coloro che l’hanno espressa come una manifestazione di potere”. Insomma, siamo l’unica specie crudele perché abbiamo una capacità immaginativa che formula intenzioni e desideri, e insieme una tendenza al diniego della realtà, cioè all’autoinganno. Quando i desideri, specie quello di potere, non sono soddisfatti siamo spinti a deumanizzare gli altri, quindi al disimpegno morale e all’autogiustificazione4. La nostra capacità immaginativa si perverte perché perdiamo il contatto con la realtà. Ma proprio questa sconnessione rispetto alla realtà, questa assenza di osservazione è tipica dell’assenza di coscienza spirituale ed è ciò su cui dobbiamo lavorare. Il contesto è un potente stimolo alla nostra crudeltà, se non siamo presenti a noi stessi.
Per comprendere come la propaganda per la repressione delle libertà civili attraverso un banale virus abbia potuto avere effetti tanto terribili, non va dimenticato che ha riattivato memorie di guerra, di morte, di peste e ha generato una paura sproporzionata, facendo regredire le persone al livello animale della mente che la nostra specie si porta dietro nella memoria collettiva. I nostri allievi devono perciò imparare a riconoscere quando stanno usando la mente animale per non esserne condizionati e a usare la coscienza per dirigere le proprie azioni5.