CAPITOLO 5

Oltre la scuola. Per una pedagogia trasformativa

Soltanto grazie a un diventare liberamente attivi dentro si può vivere la pedagogia come un’arte, solo in tal modo l’insegnante può diventare un artista della pedagogia.

 Rudolf Steiner, L’arte dell’educare 


Un insegnante deve avere la mente dello scienziato ed il cuore del poeta.
Maria Montessori 


L’educazione è un processo di creazione continua. 
Jerome Bruner

Nell’epoca della neolingua e dello stravolgimento semantico, come abbiamo visto, alla scuola omologante, aziendale e nemica del libero pensiero viene attribuito impropriamente un nome derivato dal latina schola, calco del greco scholé (σχολή) che indica il tempo di non lavoro, proprio dell’uomo libero, dedicato allo svago, allo studio, a se stessi. Si tratta di un paradosso, tipico del clima di propaganda e di finzione ipocrita in cui siamo immersi. Per distinguere il progetto educativo di cui stiamo parlando dalla scuola attuale, degradata a istituto di correzione delle menti libere, potremmo definirlo non-scuola, per sottolineare il fatto che si pone al di fuori dell’ideologia neoliberista e antiumana che ha inquinato l’istruzione pubblica e che trova attuazione in altri contesti esterni alla scuola. Oppure potremmo chiamarla con il termine originario scholé, per rimarcare il significato autentico che vogliamo dare al progetto e rivendicarne l’origine nobile e dimenticata. La scelta del termine greco ha il vantaggio di farci uscire dalla contrapposizione e dal pensiero duale, fondato sulla separazione, che è quello che ci ha portati qui. Non si tratta di dare vita a un modello opposto e speculare rispetto a quello deforme della scuola pandemica, ma di guardare oltre, lasciandolo semplicemente da parte, perché tristemente inservibile. Chiamiamo quindi scholé la scuola autentica, che mira a formare l’essere umano in modo integrale, mettendolo al centro di ogni attività e di ogni sforzo e che si adatti alle esigenze di questa generazione, alla quale si cerca di sottrarre la scintilla divina che mostra di portare in sé più viva rispetto alle generazioni precedenti. 


La scholé è il luogo in cui si può realizzare il progetto di un’educazione trasformativa e creativa, che superi i limiti di un’istruzione finalizzata al lavoro anziché alla persona umana e dell’ideologia che l’ha promossa e sostenuta. In essa, si impara la cooperazione e non la competizione; si impara a essere liberi e responsabili, a volersi bene e a riconoscere i propri bisogni; si imparano l’empatia e la comunicazione non violenta; si impara a riconoscere e a gestire le proprie emozioni; si impara a farsi domande e a comprendere; si sviluppano il pensiero critico e la capacità di dialogare in modo costruttivo; si impara anche attraverso il corpo e il movimento; si impara a conoscere il funzionamento della mente e a risvegliare la Coscienza spirituale; si impara ad amare la conoscenza e ad autodisciplinarsi; si impara ciò che nei libri di scuola non si trova, ma che è necessario per svegliarsi e riprendersi la vita e la libertà; si impara in modo trasversale, gioioso e amorevole. 


La scholé ha finalità proprie, solo parzialmente sovrapponibili a quelle fissate dallo Stato, benché certamente compatibili con una visione sana e costruttiva dell’istruzione, quale ci è stata delineata dalla tradizione pedagogica. Rappresenta la seconda fase di lavoro rispetto al percorso riparativo, che ne costituisce la premessa e il fondamento e nello stesso tempo gli dà direzione e senso. 


Inoltre, ha un approccio trasversale al sapere, rinuncia ai voti, alle punizioni, ai banchi e alle regole tipicamente scolastiche, promuove la vita all’aperto e la libertà di movimento, la creatività, la collaborazione costante fra insegnanti, fra alunni e fra alunni, insegnanti e genitori, l’approfondimento non manualistico delle questioni, la padronanza del corpo, della mente e degli strumenti culturali, come la scrittura, la logica, le tecniche argomentative, la creazione artistica, utilizza un’ampia varietà di metodi, punta all’eccellenza nella conoscenza dei contenuti e delle procedure, insegna ad agire in modo etico e giusto, costruisce percorsi su misura per i ragazzi e tiene costantemente alti la curiosità, l’interesse e la motivazione con un apprendimento vitale e significativo. 


Perciò privilegia, data la situazione, l’ambito dell’istruzione parentale e la dimensione domestica degli ambienti, preferendo rimandare a una fase successiva la strutturazione in una vera e propria scuola, con un modello educativo chiaro e definito. L’informalità consente infatti di venire incontro ai bisogni contingenti indicati nel capitolo precedente, che difficilmente possono essere soddisfatti in questa scuola pubblica svilita e depotenziata, e consentire una messa a punto del progetto in modo più libero e sereno. Poiché la maggior parte delle esperienze di homeschooling e di scuola parentale riguardano la scuola primaria, la proposta educativa si rivolge soprattutto alla scuola media e superiore, per la quale le famiglie sono maggiormente in difficoltà per l’ampiezza delle competenze richieste a coprire tutto l’arco delle materie.

Le finalità educative 


Nella scholé, la distinzione tradizionale fra finalità educative e didattiche sarà più di forma che di sostanza, data la costante integrazione di aspetti cognitivi, emotivi, relazionali, spirituali e corporei che ci porremo come modalità costante di lavoro. Poiché il modello di riferimento è quello umanistico dell’educazione integrale, ogni momento didattico diventa per sua natura educativo. Il sapere non deve essere mai fine a se stesso, ma deve sempre avere un significato esistenziale e trasformativo, nel senso che cambia la vita, la arricchisce, permette di portare in ogni situazione la luce della coscienza e della verità. Come si è già detto, la pedagogia trasformativa è orientata a sviluppare appieno la componente spirituale, l’unica in grado di modificare la realtà per elevarla anziché adattarvisi, come farebbe un animale qualunque. Trans-formare in latino significa “dare una forma che superi, che vada oltre [quella precedente]”: oltre la scuola che ingabbia i corpi e le menti, che ha cessato di adempiere il mandato costituzionale, che annoia, umilia, spegne il desiderio di imparare, che de-forma, anziché formare. Se autenticamente trans-formativa, questa pedagogia saprà trasformare nel tempo anche la scuola e riportarla ai valori educativi autentici. 


Le finalità educative definiscono qualcosa che gli allievi devono diventare perché già sono così e ancora non lo sanno, non qualcosa che devono dimostrare di sapere, tanto meno qualcosa che viene imposto dall’esterno per interessi estranei. Non si tratta di interiorizzare nozioni o visioni del mondo, come l’ideologia globalista dell’Agenda 2030, ma di sviluppare la parte migliore di sé per ricordare chi si è veramente, come ha giustamente insegnato Platone – insomma, ciò che i controllori del mondo hanno cercato di impedire per secoli, tenendo l’umanità nell’ignoranza, nell’impotenza, nella paura e nella sottomissione. 


1. Conoscere il funzionamento della mente animale. La mente animale ci appartiene in quanto abbiamo una componente animale, benché anomala e in parte diversa da quella di tutti gli altri animali. Essa si porta dietro le memorie della specie e funziona in modo irriflesso e istintivo, poiché è inconscia, a differenza della nostra Coscienza superiore, in grado di osservare e di decidere con maggiore libertà. Questa dualità fra animalità e divinità, fra la bestia e l’angelo ha occupato la riflessione dei filosofi fin dalle origini del pensiero umano. Come disse Pico della Mirandola1, l’uomo, “opera di natura indefinita”, può scegliere se essere bestia o angelo perché dentro di lui vi sono “semi di ogni sorta”. Siamo esseri compositi. Il senso di unità dell’io che crediamo di avere è del tutto illusorio. Condividiamo con il mondo degli animali molti schemi di comportamento innati, istintivi o emozionali collegati al cervello rettile e a quello limbico: attacco e fuga, predazione, aggressione, competizione, difesa del territorio, allevamento della prole, rango e gerarchia, gioco ecc.: siamo a tutti gli effetti una specie animale umana con spiccate caratteristiche neoteniche2, che fanno pensare a un processo di addomesticamento3


Conoscere la mente animale significa comprenderne per esperienza le caratteristiche di fondo e gli automatismi e soprattutto renderci conto di come essi condizionino le nostre scelte coscienti e di come a loro volta le nostre scelte non etiche ci facciano scendere al livello della mente animale. Non si tratta di una conoscenza psicologica, ma di una pratica interiore quotidiana. Le memorie animali della nostra specie, infatti, tendono a riattivarsi nelle circostanze e negli scenari collettivi che le richiamano in via analogica, per similitudine. In caso di guerra, per esempio, viene stimolata la memoria mammifera: difesa della prole, della nazione, del gruppo, del territorio, procacciamento del cibo, sopravvivenza ecc. Quando c’è un problema di sopravvivenza, il cervello limbico, a cui si deve la nostra ricca esperienza emozionale, si collega al rettiliano, per il quale è istintiva la lotta per la sopravvivenza. È quello che succede in caso di guerra. La guerra è un’attività umana che taglia il legame fra il cervello limbico e Coscienza, perché vengono meno i punti di riferimento morale. Si annullano empatia e fratellanza e ci degradiamo ai livelli più bassi di umanità. Potremmo considerare la guerra e il genocidio a tutti gli effetti come una forma di cannibalismo, cioè di predazione intraspecifica. Il primatologo Marc Hauser, che ha indagato le origini della crudeltà umana, avanza l’ipotesi che “la capacità di male in origine è evoluta come una conseguenza incidentale della nostra intelligenza unica, ma una volta presente ha procurato benefici significativi a coloro che l’hanno espressa come una manifestazione di potere”. Insomma, siamo l’unica specie crudele perché abbiamo una capacità immaginativa che formula intenzioni e desideri, e insieme una tendenza al diniego della realtà, cioè all’autoinganno. Quando i desideri, specie quello di potere, non sono soddisfatti siamo spinti a deumanizzare gli altri, quindi al disimpegno morale e all’autogiustificazione4. La nostra capacità immaginativa si perverte perché perdiamo il contatto con la realtà. Ma proprio questa sconnessione rispetto alla realtà, questa assenza di osservazione è tipica dell’assenza di coscienza spirituale ed è ciò su cui dobbiamo lavorare. Il contesto è un potente stimolo alla nostra crudeltà, se non siamo presenti a noi stessi. 


Per comprendere come la propaganda per la repressione delle libertà civili attraverso un banale virus abbia potuto avere effetti tanto terribili, non va dimenticato che ha riattivato memorie di guerra, di morte, di peste e ha generato una paura sproporzionata, facendo regredire le persone al livello animale della mente che la nostra specie si porta dietro nella memoria collettiva. I nostri allievi devono perciò imparare a riconoscere quando stanno usando la mente animale per non esserne condizionati e a usare la coscienza per dirigere le proprie azioni5.

2. Sviluppare la Coscienza spirituale. Non si hanno gradi di libertà quando si mettono in atto meccanicamente gli schemi di comportamento ereditati dalla specie (memoria animale) o dalla stirpe (memoria genetica). Quando non siamo noi a scegliere consapevolmente, siamo nella mente animale o stiamo agendo come i nostri antenati e compiamo azioni dannose per noi o per gli altri. Anche se il dogmatismo scientifico e una visione riduzionista e primitiva della conoscenza, per la quale è reale solo ciò che è testimoniato dai nostri cinque limitatissimi sensi, continuano a eludere il tema della coscienza (con poche eccezioni), noi siamo essenzialmente coscienza. Non siamo macchine, non siamo solo corpo, e nessuno ha mai potuto risolvere quello che il filosofo David Chalmers (1995) ha chiamato “il problema difficile” della coscienza: perché l’uso delle nostre facoltà mentali è accompagnato da un’esperienza soggettiva? Come si spiega che qualcosa di immateriale come la coscienza possa sorgere da qualcosa di inconscio come la materia? Proprio perché la visione materialista del mondo impregna la nostra civiltà, la cultura e la scienza e ci imprigiona in una condizione alienante di perdita della nostra essenza autentica, sviluppare la Coscienza diventa la priorità assoluta. Tutto quello che si insegna nella scholé deve concorrere a questo risultato. 


3. Integrare nel quotidiano la scala dei valori della Coscienza, a partire dalla bellezza. Quando siamo sintonizzati con la nostra parte spirituale, non siamo egoici, egoisti, avidi, rabbiosi, disperati o impauriti, non compiamo azioni scorrette, ci rendiamo conto di ciò che stiamo facendo a noi stessi e agli altri con le parole o con l’agire. Osserviamo noi stessi e gli altri da un punto di vista più elevato e distaccato, senza identificarci in modo inconsapevole con la mente animale o genetica. Siamo nel qui e ora e riusciamo così a ricollegarci alla scala dei valori della Coscienza: etica, giustizia, responsabilità, amore, bellezza, creatività, vita, gioia, empatia e tolleranza, con tutte le qualità correlate: gratitudine, compassione, coraggio, perdono ecc. Lavorare su di sé significa impegnarsi a sviluppare queste caratteristiche che ci appartengono profondamente e che tendiamo a dimenticare, obnubilati dall’incoscienza della parte istintuale o dalla rigidità stupida della mente razionale. Nell’educazione, questi valori devono essere presenti ogni giorno nei comportamenti concreti, partendo proprio dalla bellezza, come si è già detto. 


4. Conoscere e sviluppare i propri talenti. La cosa più difficile è conoscere se stessi, diceva il filosofo Talete. La cosa più facile, aggiungeva, è dare consigli agli altri. Quante volte un insegnante, senza conoscere né se stesso né l’allievo, pretende di dargli un consiglio o di preannunciargli un fallimento? Sulla base di che cosa? Un essere in crescita è ricco di potenzialità ignote a lui stesso e a tutti gli altri. Anche se sembra poco dotato, può nascondere un talento ancora inespresso. Un’educazione trasformativa osserva, stimola e crea le condizioni affinché i talenti possano essere scoperti e coltivati. Niente appaga di più di un’attività che si svolge con gioia, con piacere e per vocazione, qualunque essa sia.

5. Acquisire il pensiero critico e l’amore per la conoscenza. Senza pensiero critico, è impossibile uscire dall’addomesticamento e senza amore per la conoscenza non si possono conquistare né il pensiero critico né la verità. A noi non deve importare quanto un alunno ci gratifichi con una buona prestazione, ma che si appassioni a ciò che stiamo trattando al punto da continuare a cercare e a leggere per conto suo. Non dobbiamo accontentarci delle nozioni sparse, ma dobbiamo far comprendere le logiche profonde, i concetti, i modelli, gli schemi ricorrenti, le connessioni. Dobbiamo cioè favorire lo sviluppo del pensiero astratto, che non è affatto comune nella popolazione adulta. Nell’edificio della conoscenza, le nozioni sono i mattoni e i concetti sono i pilastri portanti della struttura. Senza pilastri, l’edificio è un ammasso precario di mattoni e non sta in piedi. Le connessioni sono il cemento che li tiene uniti. Le connessioni si scoprono indagando e facendo domande. Un insegnamento che non abitui a farsi domande e ad avanzare critiche e dubbi è del tutto inutile. 


6. Comprendere le intime connessioni fra tutti gli ambiti del sapere. Il paradigma transdisciplinare ci ricorda che la conoscenza è unitaria, perché è la conoscenza dell’uomo e riguarda l’uomo. Portare nella propria disciplina spunti, contenuti e suggestioni provenienti dai più disparati ambiti dello scibile arricchisce la mente e la rende feconda e audace. “Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza”, ricordava l’Ulisse dantesco al suo equipaggio (Inferno, XXVI, vv. 119-120). Anche esplorare l’oceano della conoscenza richiede coraggio e perizia, ma apre in modo straordinario la mente e stimola la creatività intellettuale. Per questa ragione, occorre uscire dalla separazione completa delle discipline e impostare la didattica in modalità trasversale. 


7. Pensare la complessità. L’unico indirizzo liceale che, prima della Riforma Gelmini del 2008, aveva come finalità sviluppare negli alunni l’attitudine alla complessità era il liceo delle Scienze sociali, ispirato al pensiero di Edgar Morin (1993, 2000). La riforma l’ha ovviamente cancellato. Non sia mai che i giovani italiani abbiano un’idea anche solo vaga della complessità del mondo e possano unire qualche puntino. Il paradigma della complessità ha avuto ampio spazio nel dibattito filosofico e scientifico degli ultimi decenni e ci ricorda l’insufficienza di qualunque spiegazione lineare e unicausale in un mondo caotico, imprevedibile, indecifrabile senza strumenti concettuali adeguati che aiutino a pensare e a rappresentarsi la complessità. Perciò, deve essere posta massima cura a potenziare la capacità dei ragazzi di pensare in modo non lineare, a familiarizzare con i concetti-chiave della complessità (sistema, autopoiesi, autoriferimento, ricorsività, principio ologrammatico, autosomiglianza, teorie del caos ecc.), a leggere in questa prospettiva fenomeni collettivi come la globalizzazione o questioni intricate come il rapporto mente-corpo, a farsi un’idea dell’importanza di questa consapevolezza quando si parla di clima, di intelligenza artificiale, di fisica quantistica, di storia, di geopolitica o di economia. Solo così potranno veramente autodeterminarsi ed evitare la stupida presunzione che viene dall’ignoranza.

8. Sviluppare la creatività, l’amicizia, la cooperazione, l’intuizione, le percezioni sottili. Il sistema dei voti e dei rinforzi rende la scuola tradizionale competitiva anche quando non lo si vorrebbe. Nella scholé, si valorizzano al massimo la cooperazione e l’amicizia, perché sono la strada per liberarsi dalle catene della legge del più forte. E poiché questa generazione dovrà costruire una società più giusta, sarà importante che maturi la capacità di visione del futuro, che è un’attitudine creativa, l’intuizione e le percezioni sottili, che rendono più presenti, attenti, empatici e connessi con gli altri e con l’ambiente. 


9. Conoscere e padroneggiare le potenzialità del corpo e della mente umana. La disconnessione fra mente e corpo è uno dei mali della modernità. Scriveva Fritjof Capra nel saggio Il punto di svolta: “La scissione cartesiana fra mente e corpo e la separazione concettuale degli individui dal loro ambiente ci appaiono sintomi di un’infermità mentale collettiva condivisa dalla maggior parte della cultura occidentale, e come tali sono spesso percepite da altre culture”6. L’esperienza alienante della follia pandemica ha indubbiamente contribuito a ingrandire la frattura esistente. A questi ragazzi, e anche a noi, serve riuscire a diventare padroni responsabili del corpo e della mente. Lo si può fare con discipline che addestrano a questa padronanza da secoli, come le arti di difesa personale, lo yoga, la meditazione, le tecniche di respirazione, la mindfulness7, i training di controllo mentale (per esempio, il metodo Silva o il training autogeno) o con un metodo di crescita personale che lavori sulle meccaniche mentali, come il metodo di Fiorella Rustici. Possono essere di grande aiuto la musica e l’uso mirato delle frequenze sonore. Hanno inoltre un ruolo fondamentale nella crescita sana ed equilibrata un’alimentazione adeguata e la conoscenza del potere preventivo del cibo e dello stile di vita rispetto a molte malattie tipicamente moderne. Come diceva giustamente il filosofo Ludwig Feuerbach (1862), “l’uomo è ciò che mangia”: il cibo contribuisce alla costruzione del corpo e della mente. 


10. Sviluppare l’intelligenza emotiva, l’attitudine al dialogo, alla tolleranza, alla libertà e alla riflessione autonoma. La tirannia sanitaria, la menzogna sistematica elevata a dogma, il linciaggio mediatico delle opinioni dissenzienti, la persecuzione e la discriminazione legalizzata delle menti libere rendono più che mai necessario porsi come scopo ultimo dell’educazione lo sviluppo di quelle doti che consentono di restare umani e di opporre resistenza all’oppressione. Nessuno è più schiavo di chi si sente schiavo nell’animo. Perciò ogni attività educativa deve essere improntata al dialogo, all’empatia, all’ascolto, alla tolleranza delle posizioni divergenti, al senso profondo della propria e altrui libertà, alla riflessione autonoma. L’educazione emotiva e la comunicazione non violenta avranno un posto centrale e specifico nel percorso di apprendimento.

11. Conoscere in modo attivo il mondo della natura, il paesaggio e il patrimonio storico-culturale. Nell’impostazione tradizionale della scuola, e in modo drastico con le chiusure sanitarie, la scoperta e la conoscenza diretta del mondo naturale, del paesaggio e del patrimonio storicoculturale sono ridotte ai minimi termini, quando ci sono. Non si può proteggere ciò che non si conosce e non si è imparato ad amare. Viviamo immersi nella bellezza, di cui siamo temporaneamente custodi e tramite per le generazioni future. Tagliare il legame dei giovani con la natura, con il paesaggio e con la cultura è sicuramente funzionale a un progetto distopico di distruzione culturale e sociale, ma è inaccettabile per la futura società consapevole che dobbiamo contribuire a costruire. Tale conoscenza deve essere attiva: non subita come un travaso di nozioni, ma come un’esperienza viva, coinvolgente e responsabilizzante, cosciente dell’influenza esercitata sull’ambiente naturale e culturale dagli interessi economici, politici, ideologici. 


12. Sviluppare il senso della prospettiva storica e la padronanza della lingua. L’insegnamento della storia è stato progressivamente sacrificato nei programmi della scuola pubblica e associato ipocritamente alla geografia in quell’ibrido informe che viene chiamato geostoria. Non è un caso, come ha illustrato con vivida lucidità George Orwell in 1984. Senza storia non c’è memoria né individuale né collettiva e senza memoria non ci sono identità, libertà e capacità di resistenza a un potere totalitario. Lo stesso vale per la padronanza della lingua: senza le parole non c’è modo di formulare i concetti relativi e senza un riferimento alla verità il linguaggio perde ogni consistenza, annichilendo l’anima. La perdita del linguaggio in senso qualitativo e quantitativo (lessico, grammatica, sintassi, semantica, pragmatica) è funzionale al controllo delle menti, ma impedisce agli schiavi qualunque forma di ribellione sensata e di pensiero coerente. Anche da questo ci ha messi in guardia Orwell, illustrando la neolingua e il bispensiero


Perciò il senso della prospettiva storica deve essere oggetto di attenzione specifica in tutte le discipline, anche in quelle scientifiche, perché contribuisce all’ignoranza collettiva la percezione di idee e teorie come entità atemporali e astoriche, slegate dal contesto di luogo e di tempo nel quale sono state elaborate. Come si fa, per esempio, a comprendere il senso della Costituzione se si ignora che la sua funzione è limitare lo strapotere dello Stato assoluto, vincolandolo al rispetto dei diritti inalienabili dei cittadini? E come si può comprendere senza alcuna conoscenza della lotta per i diritti che nessuna violazione dei principi costituzionali è ammissibile proprio perché così, come una fessura in una diga, viene meno l’argine invalicabile al potere arbitrario di pochi e si apre la strada alla dittatura? Allo stesso modo, devono avere uno spazio centrale l’arricchimento del lessico, il rigore delle argomentazioni, la precisione dei concetti, la capacità di scrivere testi chiari e coerenti, la padronanza della varietà stilistica e della semantica. La ricchezza interiore deve potersi esprimere con le parole e con le azioni. Questa competenza è tanto più necessaria quanto più è assodato che il lessico risente del contesto familiare e sociale dei ragazzi e che l’uso quotidiano del digitale ne ostacola in vari modi l’apprendimento. La padronanza linguistica ha un alto valore emancipante. Come diceva don Lorenzo Milani con la sua rude schiettezza, “solo la lingua rende uguali”8 e “ogni parola che non impari oggi è un calcio in culo domani”9. Chi conosce meno parole di chi lo comanda non ha mezzi per difendersi ed è destinato a soccombere.

Il contesto educativo 

Il contesto educativo adatto per la scholé è quello dell’istruzione parentale, per diversi motivi. In primo luogo, perché è necessaria una libertà di organizzazione che non si concilia con le rigidità della scuola istituzionale. Nella scholé, non ci sono orari fissi per tutto l’anno né una scansione oraria delle materie, nemmeno una rigida assegnazione di una materia a un solo docente. Siamo talmente abituati all’organizzazione tradizionale delle lezioni, scandite dal suono della campanella, da dimenticarci la sua origine. Furono i Gesuiti ad applicare questo schema nei loro Collegi, dove venivano formate sotto lo stretto controllo ideologico della Chiesa le classi dirigenti europee. Sicuramente esso era funzionale a un modello educativo efficiente, classista e orientato a un fine esterno, di tipo politico-sociale: formare un’élite di uomini competenti e ideologicamente garantiti. Per queste ragioni, non è compatibile con un modello educativo che mira a formare teste pensanti e autonome, né conformiste né egocentriche, capaci di riflessione e di collaborazione, nel quale il fine è interno al processo pedagogico ed è la crescita umana e spirituale degli allievi. 


L’orientamento alla crescita individuale non esclude, ovviamente, il risvolto sociale del processo educativo, che da una parte intende fornire strumenti di difesa intellettuale rispetto allo spappolamento dell’intelligenza e della logica prodotto dalla barbarie globalista che sta devastando i giovani e dall’altra mira a promuovere modelli di società nuovi e più evoluti di quello primitivo in cui ci troviamo. Solo che vede questo fine come il risultato e non come il movente del processo. Non sappiamo quanto tempo occorrerà all’umanità per elevarsi al di sopra dei limiti terribili imposti dall’appiattimento sulla parte animale e ritrovare la sua essenza autentica, ma sappiamo che prima o poi succederà, magari a caro prezzo, e dobbiamo mantenere vivo il seme, in attesa di tempi migliori. Inoltre, poiché è la nostra coscienza a creare la realtà, più persone riescono a immaginare una realtà migliore, più le daranno consistenza ed esistenza. 


In secondo luogo, l’istruzione parentale consente un grado di informalità e di individualizzazione della didattica altrimenti difficile da raggiungere in una normale classe scolastica. Nella scholé i ragazzi hanno a disposizione spazi ampi e belli, molto verde intorno, utilizzato quando possibile per le lezioni, magari alcuni animali domestici e possono fare esperienza di cucina, di sistemazione degli ambienti, di pernottamento insieme; possono partecipare alla costruzione fisica dell’ambiente educativo, di cui sono responsabili, possono lavorare in ambienti versatili, senza la costrizione dei banchi, tantomeno a rotelle, avendo a disposizione stuoie, cuscini, tavoli pieghevoli per le varie attività, dalla meditazione all’ascolto, dalla creazione artistica alla traduzione di greco. Non fanno necessariamente tutti la stessa cosa nello stesso momento e possono lavorare anche in regime di pluriclasse e di educazione fra pari.

Inoltre, i contenuti vengono proposti in modalità trasversale fra le discipline, per quanto possibile e comunque in forma modulare, con tempi lunghi e distesi, un po’ come nel sistema steineriano delle epoche10. Questo significa che gli insegnanti si coordinano in un progetto comune, intorno ad alcuni nuclei fondanti, soprattutto alle medie; che gli argomenti paralleli vengono svolti in modalità interdisciplinare, specie alle superiori; che i docenti stabiliscono quali siano per ogni anno di corso i pilastri portanti, ovvero le strutture concettuali e le competenze cognitivo-emotivo-relazionali che devono guidare l’azione educativa; che la storia, come disciplina di sfondo comune a tutti gli indirizzi, deve svolgere il ruolo di materia cardinale per organizzare la didattica in modo sensato. 


Il vantaggio della trasversalità è massimo nei licei, dove è possibile mettere insieme alunni di diversi indirizzi permettendo loro di assaggiare e sperimentare discipline e contenuti altrimenti inaccessibili a scuola: per esempio, sapere qualcosa di psicologia sociale può essere utile a chi frequenta il liceo classico e saper leggere qualcosa di greco può essere interessante per chi frequenta il liceo scientifico. Le materie comuni si possono seguire insieme, tarando gli obiettivi sulle materie di indirizzo: il livello di matematica sarà quello del liceo scientifico, il programma latino sarà quello del classico, l’inglese sarà quello del linguistico eccetera, salvo la scelta del singolo studente di fermarsi al livello richiesto dal suo indirizzo di studi. Il vantaggio è massimo nel biennio, perché rende possibile scegliere il percorso di studi in corso d’anno e a ragion veduta, sperimentando tutto. 


Ne consegue che i docenti devono essere formati appositamente, perché si tratta di impostare il lavoro in un modo assai diverso da quello abituale, che richiede creatività, impegno, collaborazione, continuo approfondimento e aggiornamento, grande professionalità e tanta passione. Inoltre, devono essere in sintonia con il progetto a livello personale, lavorando sodo su di sé per portare se stessi agli allievi. D’altra parte, la loro libertà è massima sui contenuti e sulle tecniche didattiche, una volta stabiliti insieme gli obiettivi. Il lavoro di squadra, così difficile a scuola, può essere in questo contesto altamente motivante e soddisfacente. 


I genitori sono una componente fondamentale per la riuscita del progetto, perché spetta a loro la disponibilità degli ambienti, dell’organizzazione pratica e amministrativa. Non stiamo parlando di una scuola privata, con strutture e personale propri, ma di una comunità educante che coopera, crescendo insieme ai ragazzi nella consapevolezza e nella responsabilità. Come dicevamo nel capitolo precedente, anche per loro è indispensabile una formazione ad hoc, che consenta di comprendere il progetto, di riflettere sul proprio modo di educare e di operare nella stessa direzione dei docenti.

Gli obiettivi educativi e didattici 

Le finalità devono fungere da centro organizzatore della progettazione educativa e didattica. 

Non vanno isolate fra di loro, ma devono essere sempre presenti nel loro insieme sullo sfondo di ogni apprendimento. La definizione degli obiettivi permette di tradurle in conoscenze e competenze che gli alunni acquisiscano attraverso il lavoro didattico. L’identificazione degli obiettivi non può essere astratta e uguale per tutti, ma sempre motivata dalle effettive esigenze dei ragazzi che compongono il gruppo e quindi è affidata alla responsabilità dei docenti, dopo un’attenta analisi dei bisogni formativi. 


Nella scuola media e superiore (secondaria inferiore e superiore, secondo la definizione burocratica), la definizione degli obiettivi potrebbe partire, per quanto possibile, da alcuni nuclei fondanti trasversali fra le discipline, individuati sulla base delle funzioni fondamentali comuni ad apprendimenti di diversi ambiti. Chiariamo con un esempio, adatto per la prima media. Uscendo dalla scuola primaria e dalla fase delle rappresentazioni concrete di Piaget, è opportuno che i bambini apprendano che la mappa non è il territorio, ovvero che la rappresentazione della realtà non è la realtà. Perciò una delle funzioni fondamentali che accomuna tutte le discipline è orientarsi sulla mappa. Tale funzione può fungere da principio organizzatore per tutta la didattica per un periodo di tempo. Una funzione non è un contenuto, ma un’esigenza che i contenuti disciplinari devono soddisfare. Se la mappa non è il territorio, bisogna capire come crearla e come usarla. A loro volta, i contenuti possono trovare unità e senso attraverso l’individuazione di nuclei concettuali fondanti e trasversali, alcuni dei quali presenti nelle Indicazioni nazionali: per esempio, sempre per la prima media, la parola e l’immagine, la bellezza, il numero e la quantità, identità e senso della vita, memoria individuale e collettiva, forma e struttura, individuo e comunità, spazio e tempo, natura e cultura, realtà e rappresentazione ecc. Unendo la funzione orientarsi sulla mappa e contenuti relativi ai nuclei fondanti può venir fuori un lavoro di questo tipo: 


Orientarsi nella lingua: etimologia della parola, analisi logica e grammaticale, il potere magico della parola per definire la realtà ecc.; orientarsi nello spazio: i punti cardinali e i movimenti di rotazione terrestri, le carte geografiche, le mappe, bussole e sestanti, storia della cartografia e della navigazione, le costellazioni ecc.; orientarsi nel tempo: cronologia e periodizzazione storica; evitare gli anacronismi, rivivere un periodo storico attraverso la letteratura e il teatro; collocazione dell’uomo nel mondo naturale e nel contesto storico ecc.; orientarsi in un testo: parole-chiave, riassunto, concetti fondamentali, strumenti essenziali di analisi, lessico ecc.; orientarsi nel mondo dei numeri e delle forme: le nozioni fondamentali della matematica e della geometria, della topologia e della topografia ecc.; coordinazione e movimento; esperienza di orientamento con gli alberi, con il sole e con la bussola ecc.; disegnare una mappa, usare gli strumenti tecnici per realizzarla ecc.; orientarsi su se stessi e sui propri talenti, chiarire che cosa è l’uomo, scoprire la propria trascendenza, le emozioni, l’empatia, la bellezza delle relazioni sane; orientarsi nello studio: come si legge e come si studia; costruire mappe mentali e concettuali; orientarsi nello scibile: lo sguardo particolare di ciascuna disciplina sul mondo ecc. 


I nuclei fondamentali ovviamente cambiano e si approfondiscono nei vari gradi di scuola, ma possono riguardare alunni di anni diversi, in situazione di pluriclasse. 

Per identificare le funzioni fondamentali per le varie classi di scuola secondaria si può riflettere sulle esigenze principali che in ogni passaggio dovrebbero essere soddisfatte. Potrebbe venir fuori un prospetto come il seguente, suscettibile ovviamente di ampliamenti e correzioni.

Le funzioni fondamentali per la scuola media 


  • Prima media: orientarsi e fare domande (la mappa non è il territorio) 

Alla fine della prima media, l’allievo deve aver gettato basi solide per gli apprendimenti successivi e una sana attitudine alla curiosità, al dubbio, alla sperimentazione, all’empatia, alla collaborazione. Fondamentale è imparare un metodo di lavoro personalizzato e usare gli strumenti di base per costruire conoscenza. 


  • Seconda media: approfondire e allargare lo sguardo (c’è un mondo sconfinato da scoprire) 

Alla fine della seconda media, l’allievo deve aver sviluppato un certo rigore nella definizione di parole e concetti, il desiderio di allargare gli orizzonti, di leggere e approfondire, di vivere l’avventura della conoscenza a 360 gradi, comprendendo anche se stesso. Fondamentale è esercitare continuamente le abilità di lettura, scrittura, analisi, rifacimento creativo dei testi, di riflessione storica, geografica, matematica e scientifica, di consapevolezza di sé, del suo corpo e della sua essenza, di espressione artistica. Il piacere di imparare deve essere il risultato. 


  • Terza media: riflettere e creare (ho gli strumenti per comprendere e per creare) 

Alla fine della terza media, l’allievo deve cominciare ad affrontare con metodo dialogico e logico questioni più complesse: testi, fenomeni storici e culturali, problemi di natura più astratta, differenze teoriche e di valori, questioni controverse, sviluppando un’attitudine ad andare oltre l’ovvio, ad avere uno sguardo prospettico e tridimensionale o quadridimensionale, a comprendere in profondità opere d’arte, linguaggi diversi, strumenti diversi di comunicazione e di conoscenza. Fondamentale è sviluppare l’attitudine riflessiva, la conoscenza del funzionamento della mente, lo sviluppo della creatività: avendo compreso i linguaggi della poesia, della narrativa, dell’immagine, del teatro, della musica e dei media, dovrebbe essere in grado di creare a sua volta.

Le funzioni fondamentali per la scuola superiore (licei) 


Data la grande varietà di indirizzi di studio, una scuola parentale difficilmente può coprire tutti i percorsi scolastici, specie negli istituti tecnici e professionali, dove sono presenti laboratori e dispositivi complessi difficilmente riproducibili in un contesto familiare. Tuttavia, gli spunti presentati qui potrebbero essere utili anche in contesti diversi dai licei. Per esempio, per l’ITE (Istituto Tecnico Economico), nel quale manca una dimensione teorico-interpretativa, si può chiarire utilmente il senso complessivo dell’economia e dell’organizzazione sociale così come la conosciamo, partendo da materie come storia e geografia. L’impostazione trasversale permette di superare alcune barriere fra i curricoli e generare feconde contaminazioni. 


  • Prima superiore: costruire padronanza dei linguaggi e dei concetti (ogni ambito di conoscenza ha un suo linguaggio e una struttura concettuale) 

Bisogna insistere molto sul lessico specifico delle discipline, sulle diverse procedure che usano, sulle strutture concettuali che le caratterizzano e sulle diversità dei punti di vista – tutti parziali – che consentono di offrire su ogni fenomeno umano. Fondamentale è costruire la “cassetta degli attrezzi” con cui affrontare gli apprendimenti successivi. Il tema dell’identità è centrale in questa fase. 


  • Seconda superiore: cominciare a leggere e interpretare la realtà attraverso i quadri concettuali appresi (uso il sapere per comprendere) 

Bisogna cogliere i nessi fra ciò che si studia e la propria esperienza nel mondo, comprendere la vitalità del sapere e il suo rapporto con gli uomini che lo hanno prodotto, la sua storicità e parzialità. Fondamentale è cominciare a riflettere sul fondamento epistemologico delle discipline e sul ruolo centrale del pensiero critico nella comprensione della realtà umana. 


  • Terza superiore: sincronia e diacronia (la complessità del mondo richiede uno sguardo in profondità e in prospettiva storica) 

La storia è materia centrale per tutti gli indirizzi, perché senza prospettiva storica tutto si appiattisce su un presente atemporale e puramente dato. Ma sguardo in profondità vuol dire anche visione teorica e filosofica, comprensione spirituale, intuizione creativa. Fondamentale è passare dall’analisi critica, che fa cadere le illusioni sul mondo, al risveglio della creatività spirituale, che progetta e dà energia a un mondo evoluto e migliore. 


  • Quarta superiore: la costruzione della modernità e le chiavi interpretative che ci rendono comprensibile il presente (come siamo arrivati qui?) 

Scoprire gli schemi e le regolarità nel divenire storico ci apre la comprensione dell’attuale assetto sociale, politico e scientifico-culturale. Dobbiamo capire chi eravamo per comprendere chi siamo adesso. Fondamentale è saper accedere ai mondi del passato comprendendone le credenze, il linguaggio, i problemi e le soluzioni; altrettanto fondamentale è comprendere il funzionamento della mente genetica e il modo in cui tendiamo a ripetere errori e soluzioni già adottate dai nostri antenati. 


  • Quinta superiore: comprendere, analizzare, interpretare, modificare il presente (perché il mondo dove vivo è così e non diverso?) 

Il mondo globalizzato non è un frutto del caso. Bisogna comprendere come funziona realmente il mondo in cui viviamo e chi lo controlla, i meccanismi del potere, il ruolo delle ideologie, della manipolazione mentale, dei mass-media e dei sistemi di credenze consolidati. Fondamentale è sviluppare coscienza critica, partendo dalla conoscenza del passato, risvegliare la potenza della coscienza spirituale, immaginare mondi alternativi.

Insegnare come? 


Per arrivare a creare, bisogna padroneggiare e per padroneggiare bisogna fare esperienza. Ogni apprendimento deve passare attraverso l’esperienza, con modalità via via meno concrete e più astratte e raffinate. “Qualsiasi materia può essere insegnata a chiunque a qualsiasi età in una forma che sia onesta”, diceva Jerome Bruner (1960). Perciò si può fare esperienza di un dialogo filosofico in terza media o parlare latino e greco in seconda media o inoltrarsi per un tratto nella fisica quantistica in quinta superiore, attraverso qualche esperimento. L’esperienza associa alla conoscenza emozioni, intuizioni e sensazioni. Non può essere sostituita dal sapere puramente teorico, perché vi è in essa un irriducibile elemento di soggettività, di irripetibilità e di incomunicabilità: è sempre l’esperienza di qualcuno in un certo contesto e può essere condivisa (parzialmente) solo a parole. E poiché coinvolge interamente il soggetto che la vive, rimane più profondamente impressa nella memoria. 


Di qui anche l’importanza della narrazione. Secondo Bruner11, la nostra mente ha un’attitudine o predisposizione a organizzare l’esperienza in forma narrativa. Attraverso la narrazione, si può dare un significato specifico alla realtà e si inserisce la comprensione nel contesto della cultura. Anche la costruzione del sé passa attraverso la ricostruzione degli avvenimenti della propria vita in forma narrativa. Per questo le storie ci coinvolgono e rispondono a un profondo bisogno di senso. 


Il corpo ha un ruolo centrale. Viviamo il paradosso di una società materialista, che esibisce il corpo in tutti i modi, ma nella quale molte persone sono ben poco consapevoli del proprio corpo, non lo sentono, non se ne prendono cura. Quindi il corpo va sentito, conosciuto, amato e utilizzato per imparare e per fare esperienza. Non bisogna mai dimenticare che si apprende meglio ciò che si fa con le mani e che l’uso del digitale impedisce i movimenti fini delle dita. Quindi occorre trovare ogni occasione per far lavorare le mani, per muovere il corpo, per ascoltarlo, per rivivere esperienze del passato o di luoghi lontani, per sperimentare nuovi linguaggi, per usare e decodificare le comunicazioni sottili e non verbali. Come si è detto, uno spazio importante hanno le discipline di difesa personale, come il judo o l’aikido, e le pratiche come lo yoga, il chi-gong o il tai-chi, per sviluppare calma, concentrazione, forza fisica e mentale, autocontrollo. 


Può essere di grande aiuto anche l’attività teatrale, che costituisce uno dei cardini della scholé, insieme alla musica. Attraverso il teatro, si imparano l’empatia e la capacità di gestire le emozioni (Aristotele, com’è noto, parlava di “purificazione delle passioni”), l’autocontrollo, il senso della misura; si impara a parlare e a leggere in modo espressivo, con sicurezza, sostenerla, a modularla, a farsi udire, a lasciar venir fuori quello che altrimenti resterebbe trattenuto. Si impara l’importanza della precisione e della disciplina, perché la propria prestazione influenza anche quella degli altri e quindi si impara anche a sintonizzarsi con gli altri. Si esercitano la memoria e l’attitudine a leggere fra le righe del testo, a fare inferenze logiche, a immaginare, a leggere negli spazi vuoti, a entrare nel testo e nei personaggi, affinando le doti di attenzione e di comprensione.

Essere in contatto con l’ambiente e con se stessi è una qualità che va coltivata. I valori spirituali devono essere vissuti ogni giorno e questo richiede di sviluppare una vera e propria intelligenza spirituale, che anche Howard Gardner ha preso in considerazione come un possibile tipo di intelligenza, pur non inserendola nel suo prospetto. Però si cresce nella coscienza solo se gli insegnanti hanno coscienza. Tolleranza, accettazione, cooperazione, empatia, etica, responsabilità, giustizia, bellezza, amore, gioia dovrebbero costituire il clima educativo in ogni momento della giornata e con qualsiasi attività. Del resto, niente può essere più entusiasmante del vedere crescere dei ragazzi nel contesto che meritano e che li rispetta fino in fondo. 


Dobbiamo preparare questi ragazzi a “volare controvento”12. Perciò è indispensabile che sviluppino la forza interiore ed esteriore, a resistere alle pressioni del gruppo, a essere padroni delle loro emozioni, umili di fronte alla conoscenza, fiduciosi nei propri mezzi, capaci di arrangiarsi nelle difficoltà, svegli e pronti a percepire persone e ambienti, curiosi e impertinenti, abili con le mani e spiritualmente vivi, capaci di intuire e di creare. Per questo, è importante che studino tutti un po’ di filosofia e di scienze umane (sociologia e psicologia soprattutto) e che comprendano il mondo scientifico, nei suoi aspetti teorici, storici, tecnologici ed economico-politici. Devono arrivare a sviluppare quelle idee organizzatrici che permettono di raggiungere la padronanza concettuale di una materia o di una questione. 


Per la stessa ragione, avrà uno spazio quotidiano la meditazione e sarà cura dei docenti rendere gli studenti consapevoli dello stato mentale del gruppo in ogni momento, prendendo le opportune misure per garantire concentrazione, attenzione, presenza attraverso esercizi di mindfulness. Come ha ormai mostrato una vasta ricerca scientifica, la meditazione e la mindfulness producono evidenti vantaggi psicologici che durano nel tempo: migliorano le prestazioni cognitive, rendendole più veloci (F. Zeidan et al., 2010), aumentando la concentrazione (A. P. Jha et al., 2007), l’attenzione (S. Kwak et al., 2020) e l’efficienza nel lavoro in situazioni stressanti (D. M. Levy et al., 2012); modificano le strutture cerebrali (B. K. Hölzela et al., 2011), riducono la reattività emotiva (G. Desbordes et al., 2012) e dispongono alla compassione (P. Condon et al, 2012); riducono dolore (F. Zeidan et al., 2010), stress (E. Botha et al., 2015), ansia (F. Zeidan et al., 2014) e depressione (S. G. Hofmann, et al., 2010), aiutano ed essere più creativi (L. Colzato et al, 2012). Abituare i ragazzi a meditare, a prendersi cura di se stessi nei momenti di stanchezza e di caduta dell’attenzione o di dolore fisico o emotivo, a ricaricarsi, a ritrovare equilibrio e centratura è fondamentale per migliorare il loro senso di autoefficacia e di responsabilità e per migliorare le prestazioni di apprendimento. Inoltre, li predispone a osservare i propri stati interiori e a mettersi in ascolto con ciò che arriva dall’ambiente o dagli altri. 


Gli insegnanti spesso lamentano la mancanza di un metodo di studio efficace nei loro allievi. Però raramente viene insegnato ai ragazzi come studiare. Eppure dovrebbe essere questa la competenza fondamentale per procedere con soddisfazione e senza ansie in mare aperto, uscendo dalle secche di una preparazione superficiale e posticcia. Perciò l’insegnamento delle tecniche di studio e di memorizzazione deve essere presente fin dall’inizio del percorso e diventare una competenza consolidata nel biennio delle superiori, come parte della competenza metacognitiva.

I contenuti 


Come si è detto, la storia è materia centrale e deve coinvolgere tutte le discipline in un lavoro di ricostruzione diacronica del sapere disciplinare. Ha inoltre il pregio di poter fare da ossatura per i percorsi trasversali. Ovviamente, bisogna chiedersi: quale storia? Non certo la favola per bambini raccontata sui manuali scolastici, piena di omissioni e di spiegazioni irragionevoli e discutibili, se non false, dei fatti, ripetute per generazioni come verità assodate, come la tesi bislacca che Cristoforo Colombo immaginasse una Terra piatta o che gli antichi fossero come bambini, ignari di scienza e di tecnologia. La consapevolezza critica storiografica passa attraverso le letture monografiche, la discussione delle fonti, la ricostruzione dei modelli e degli schemi ricorrenti, pur nell’irripetibilità delle vicende, le riflessioni sulle strategie di controllo e di consenso messe in atto dal potere occulto, che detiene il monopolio della narrazione storica e dell’insegnamento accademico. 


L’insegnamento della filosofia fa la differenza fra i licei italiani e quelli di altri Paesi, perché permette, se impartito bene, di allenare al pensiero logico e astratto. È una materia altamente formativa, che merita uno spazio adeguato nella scholé, purché venga insegnata con rigore e anche attraverso dei veri e propri laboratori di argomentazione e discussione teorica, come si faceva del resto nelle Università medioevali con la pratica didattica della disputa (disputatio). 


Matematica, fisica e scienze devono risvegliare l’interesse per le implicazioni teoriche e pratiche dei contenuti e dell’assetto disciplinare e devono stimolare l’attitudine al dubbio, alla ricerca, al metodo, alla discussione e alla verifica delle ipotesi (per esempio, la magia del numero, i frattali, l’utilità delle equazioni nel quotidiano, le domande del fisico, le questioni aperte della biologia eccetera). C’è molto fermento ai confini delle discipline, per l’inadeguatezza del paradigma dominante a spiegare fenomeni ancora inspiegati, come la forma degli esseri viventi e l’effetto biologico e psichico di forme e simboli. In matematica, grande attenzione deve essere posta a una didattica attiva, in grado di aiutare a superare ansie e difficoltà che spesso si accompagnano alla materia. In fisica e scienze, deve essere praticata, nei limiti del possibile, una didattica laboratoriale, che utilizzi anche materiali di uso quotidiano o “sensate esperienze”, come le chiamava Galileo. La comprensione profonda del metodo scientifico passa anche attraverso la conoscenza almeno di base dell’epistemologia, della storia della scienza e della sociologia della scienza e attraverso la lettura diretta di saggi e articoli di argomento scientifico in lingua originale. Un posto rilevante merita anche la riflessione sulla tecnologia, come vedremo più avanti. 


La padronanza della lingua italiana (specie del lessico), delle definizioni e dei concetti deve essere perseguita da tutte le discipline costantemente. Il bagaglio delle parole deve arricchirsi tangibilmente ogni giorno e la competenza linguistica deve essere esercitata in ogni forma, orale e scritta, nella piena consapevolezza degli effetti comunicativi di un testo. La scrittura deve essere curata moltissimo attraverso montaggio e smontaggio continuo dei testi, cambiamento di scopi e di registri, imitazione degli autori, parodie e riscritture creative.

Le lingue classiche, latino e greco, nella scholé hanno un posto fin dalla scuola media, dato il loro enorme rilievo per la competenza linguistica nella lingua madre. La didattica delle lingue classiche, però, in questa fase deve risparmiare ai ragazzi l’aridità del tradizionale metodo grammaticale e preferire l’immersione diretta nella lingua viva e parlata e la curiosità per le analogie lessicali fra lingua italiana e lingue antiche. Solo al liceo e in particolare nel liceo classico deve cominciare uno studio più sistematico della grammatica, accompagnato da una cura molto attenta allo sviluppo delle complesse competenze richieste dalla traduzione. Anche al liceo, tuttavia, occorre insegnare ai ragazzi a comprendere i testi, prima di tradurli, usando il vocabolario solo alla fine e facendo uno sforzo di comprensione a partire dal contesto. 


Le lingue straniere dovrebbero essere insegnate – se si può – da docenti madrelingua, in forma prevalentemente parlata e coinvolgente. Per acquisire una competenza adeguata della lingua straniera come lingua veicolare, diventa importante leggere articoli e saggi di altre materie in lingua straniera, cimentarsi con la complessità della traduzione e scrivere testi nella lingua studiata. 


La letteratura – italiana, inglese, francese, tedesca, spagnola, latina o greca – è una materia affascinante e coinvolgente, se presentata in modo vivace e accompagnata da una lettura espressiva ad alta voce. Meglio privilegiare, per quanto possibile, la lettura integrale delle opere, anche nella forma di audiolibro. Deve essere stimolata nei ragazzi la voglia di leggere, di ampliare lo sguardo, di andare oltre gli stimoli offerti dal docente, di cogliere le intime connessioni fra i testi e i contesti che fanno da sfondo. Il mondo classico greco-romano, almeno nelle sue espressioni più significative, dovrebbe costituire un patrimonio comune di miti e di visioni del mondo. Dovrebbero trovare uno spazio anche alcuni spunti di storia della musica, del teatro e del cinema, partendo sempre dal contesto storico. 


Oltre alla meditazione, il teatro, la musica, le arti sono lo sfondo nel quale tutto trova senso e vividezza. Leggere un passo letterario mettendo in scena le azioni dei personaggi, ascoltare la lettura teatrale di una poesia o di passo filosofico, ascoltare e riprodurre la musica di un periodo storico, creare un oggetto artistico, sviluppare attitudine alla concentrazione, al silenzio della mente, all’attenzione, imparare a cantare, a seguire un’ispirazione, ad ascoltarsi, sono modalità attive e indimenticabili di apprendimento. Una scuola che non utilizzi il potere immenso della mente e della creatività umane per far amare il sapere si perde il meglio dei suoi alunni e li priva di esperienze essenziali. Nell’ambito artistico, sono fondamentali non solo la ricezione dei contenuti, ma anche l’esperienza di riproduzione e di creazione. 


L’aspetto emotivo, relazionale, vitale e spirituale della conoscenza deve sempre essere presente. Il sapere è per l’uomo e non viceversa. Un sapere che non contribuisca a renderci migliore è sterile e dannoso, perché ci allontana dal sentire. Perciò è meglio una piccola verità scoperta da soli che una grande verità ripetuta a pappagallo, perché scritta sul manuale. Le grandi verità hanno presa su di noi solo se le facciamo nostre, altrimenti ci rendono solo presuntuosi e saccenti. Il compito straordinario dei docenti è proprio questo: far discendere la conoscenza dal cielo delle grandi conquiste spirituali alla terra del quotidiano, come energia vitale che anima e dà vigore alla crescita della pianticella che è loro affidata e la rende bella, forte e rigogliosa, sviluppando appieno le sue potenzialità.

La tecnologia 


La tecnologia merita una riflessione a parte, benché sommaria, data l’enormità dell’argomento. Ci è toccato in sorte di vivere la più rapida e pervasiva trasformazione sociale che si ricordi a memoria d’uomo. Prima l’avvento delle macchine, simbolo della rivoluzione industriale del XVIII e del XIX secolo, poi l’esponenziale crescita delle telecomunicazioni, dei mass media e delle tecnologie digitali hanno radicalmente modificato il nostro modo di vivere e la nostra percezione del mondo. Non riusciremmo nemmeno più a pensare a una vita completamente priva di PC, cellulare o smartphone, TV digitale, Internet, MP3, social network, videogiochi, domotica, navigatore satellitare e altri accessori elettronici che ci sembrano ormai indispensabili, così come ci sembra lontanissimo il tempo in cui le aziende, le banche, gli uffici privati e pubblici, la stampa funzionavano in modo del tutto analogico. Si dice comunemente, con una certa superficialità, che la tecnologia è neutra e che la sua valenza positiva o negativa dipende dall’uso che ne viene fatto. In realtà, essa influisce sul nostro modo di essere e di pensare per il solo fatto di esistere. Come disse il sociologo canadese Marshall McLuhan con un’espressione famosa, “il medium è il messaggio”: il mezzo che utilizziamo influenza il contenuto veicolato, perché ne modifica la percezione. Non è la stessa cosa leggere un libro cartaceo o uno digitale, fare una ricerca bibliografica in biblioteca o su Internet, assistere a una scena di guerra o vederla su uno schermo. E non è la stessa cosa conoscere dal di dentro la tecnologia o esserne semplici fruitori. La verità è che noi usiamo con divertimento la tecnologia, ma ne ignoriamo i meccanismi profondi, le trappole e le conseguenze sulla nostra percezione della realtà e perfino sulla nostra coscienza. Siamo utenti ingenui e inconsapevoli, esposti a un mondo le cui regole non scritte ci sono per lo più ignote e quasi mai a nostro reale vantaggio. 


Nell’ambito di un percorso scolastico, si può affrontare l’argomento principalmente da due punti di vista: come strumento di lavoro didattico e come oggetto di analisi e di studio. Degli effetti in prevalenza dannosi del digitale sui processi di apprendimento13, specie negli anni dello sviluppo del cervello (fino almeno ai 14-15 anni) ho parlato in altra sede14, sulla scorta dei libri davvero fondamentali del neuropsichiatra tedesco Manfred Spitzer (2012; 2015; 2018a; 2018b), che ogni genitore e ogni insegnante dovrebbe leggere. Sebbene, almeno nei gradi superiori dell’istruzione, la tecnologia digitale sia un potentissimo strumento di reperimento rapido di informazioni e permetta una facilità di accesso al mondo della cultura e dell’informazione quale mai si è visto nella storia, sappiamo che un uso non controllato e inconsapevole da parte dei bambini è correlato a disattenzione, difficoltà di concentrazione e di memorizzazione, perdita delle capacità di scrittura, di lettura e di motricità fine delle mani, difficoltà nel calcolo, dipendenza, ansia, stress, miopia, insonnia o sonno ritardato, obesità, perdita di contatto con la natura e con la realtà, isolamento, diminuzione di empatia, tempo sottratto al gioco all’aperto, all’amicizia, alla lettura, alla famiglia ecc., senza contare l’effetto di privazione educativa per i minori in situazioni familiari difficili.

Questo significa che nella scholé il digitale ha il posto che gli spetta: ai margini, a supporto della didattica quando serve (nessuno lo vuole demonizzare), e soprattutto usato consapevolmente e criticamente, rendendosi conto dei limiti, dei rischi e delle conseguenze del suo uso. Del resto, se i maghi dell’informatica della Silicon Valley mandano i loro figli nelle scuole steineriane, dove il digitale non si usa, ci sarà pure un motivo15. Per i nativi digitali, lo schermo ha un effetto narcotico del tutto simile a quello avuto dalle droghe dopo il ‘68, con le quali fu neutralizzata una generazione di giovani troppo impegnati a contestare il sistema. Non per nulla dagli stessi ragazzi ormai dipendenti dallo smartphone è stato coniato il termine “Smombie” (zombie da smartphone) per designare l’aspetto apatico e abulico tipico dei loro coetanei persi nel nulla digitale16. Per chi si rincitrullisce con lo smartphone o peggio con il mondo virtuale del Metaverso la realtà cessa di esistere e viene meno la forza di impegnarsi a cambiarla. Si perde il controllo della propria vita. In una prospettiva spirituale, la tecnologia prende il posto della coscienza e tende a sostituirla. Come disse Marshall McLuhan (1962), “ogni tecnologia ha il potere di ottundere la consapevolezza umana”


E questo ci porta alla seconda modalità: la tecnologia come oggetto di studio. La tecnologia non è soltanto una trovata che ci semplifica la vita, sebbene ogni nuova invenzione venga salutata come un progresso per l’umanità, ma è anche un potentissimo strumento di controllo del corpo e della mente degli esseri umani. Un famoso libro di Shoshana Zuboff (2019), docente ad Harvard, definisce il sistema attuale, dominato dall’intelligenza artificiale, “capitalismo della sorveglianza”, ovvero quella forma di accumulazione capitalistica nella quale – sostiene l’autrice – alcune grandi multinazionali del digitale, come Facebook, Google, Apple, Amazon o Microsoft, usano all’insaputa degli utenti una mole immensa di dati che li riguardano, raccolti mediante algoritmi, per rivenderli a soggetti che li usano per predire i loro comportamenti futuri. Gli utenti sono cioè la merce inconsapevole di un mercato di cui non sanno nulla. Il Metaverso, per esempio, ovvero la tecnologia che promette l’integrazione completa fra mondo fisico e un mondo virtuale condiviso dove ogni soggetto viene rappresentato attraverso un proprio avatar, “è il palcoscenico di una società automatica dell’ipercontrollo, che Bernard Stiegler descriverebbe come ‘fondata sullo sfruttamento industriale, sistemico e sistematico delle ritenzioni terziarie digitali dove tutti gli aspetti del comportamento contribuiscono a generare tracce, e tutte le tracce diventano oggetti di calcolo…’, e in cui ‘tutti i dati del mondo possono essere raccolti e archiviati in un unico luogo e si possono scrivere algoritmi sufficientemente completi per analizzarli’”17. I social network come Twitter, Facebook, Instagram, TikTok, o le piattaforme come YouTube sono in grado di filtrare, orientare, censurare l’informazione scomoda (per i progetti delle élite) o di produrre dipendenza nei soggetti vulnerabili come i preadolescenti o di spingere la gente verso posizioni radicali. Lo si è visto platealmente durante la cosiddetta “pandemia”. Se ne può avere un’idea guardando il documentario The social dilemma18. Come disse Julian Assange in un’intervista, “Facebook è la più spaventosa macchina di spionaggio mai inventata dall’uomo”19

Ma la tecnologia non è una fatalità a cui ci si debba rassegnare. Benché il grandioso e diabolico disegno delle oligarchie sovranazionali, cioè delle pochissime famiglie (otto nel 2017, secondo le stime Oxfam) che detengono la metà delle ricchezze del pianeta20, sia quello di un’umanità ridimensionata nel numero (e quindi più controllabile21 e rimpiazzabile dai robot), di un dispotismo globale chiamato Nuovo Ordine Mondiale e di un uomo ibridato con le macchine, ciò non significa che sarà questo l’esito. L’ideale transumano è quello di potenziare le capacità umane con mezzi artificiali; in realtà, l’innesto delle macchine nell’uomo finirà con il rendere l’uomo una batteria per la macchina, perché rinunciare alla coscienza vuol dire degradarsi e perdere la creatività spontanea e il senso dei valori che ci rendono umani. Un uomo dalla capacità aumentate artificialmente può essere più potente, ma certamente meno libero.

Ciò che è fondamentale comprendere, però, è che questa tecnologia già esiste e su di essa si sta investendo da decenni, nel silenzio generale sulle enormi questioni etiche che apre. Il controllo della mente umana è oggetto di ricerca da parte dei militari e dei grandi gruppi privati da molto tempo ed è già possibile da anni controllare il comportamento con un microchip o con dei nanobot, e sappiamo che questi, come le cellule, hanno già la capacità di autoassemblarsi dentro il corpo di un individuo, che esistono già robot miniaturizzati a forma di insetto o addirittura invisibili, per via delle dimensioni microscopiche, in grado di interagire con le cellule del corpo, compresi i neuroni, di curare, ma anche di sorvegliare o di uccidere un uomo, che si è già in grado di produrre un DNA sintetico o un embrione sintetico22, che si è già inventato l’utero artificiale di cui ci parla Aldous Huxley in Brave New World, che si è in grado di costruire arti artificiali comandati direttamente dal cervello ed esoscheletri a uso militare, che esistono dispositivi per modificare il clima (geoingegneria clandestina), interfacce neurali per cancellare o creare i ricordi e molto altro che ignoriamo del tutto23. Con la pandemia sono entrati in uso strumenti di controllo poliziesco sui quali si investe da anni, come i droni, gli scanner per il riconoscimento facciale, i lasciapassare con il QR code e il sistema del credito sociale in uso in Cina. Non sono gli unici disponibili, ma fanno parte di un processo di modificazione percettiva con il quale ci stanno abituando a vederci autorizzare ogni movimento e ogni decisione, perfino quelle che riguardano il nostro corpo. Ne fanno parte anche la rappresentazione completamente fittizia e artificiale della realtà che viene presentata ogni giorno dai media, di proprietà sempre degli stessi padroni, per guidare e orientare le opinioni e le emozioni delle masse. Il livello di falsificazione raggiunto dall’informazione televisiva è così stratosferico che ormai le notizie più rilevanti per l’agenda del potere al fine di influenzare la gente sono il risultato di vere e proprie sceneggiature, con tanto di attori e di scenografia (psy-ops, operazioni militari di guerra psicologica)24. Il problema è che la nostra mente non fa distinzioni fra realtà e rappresentazione e che tendiamo a prendere per vero ciò che ci mostra la TV. In fondo, l’abbiamo visto. Come può non essere vero? Come scrive Giuseppe Sartori (1997, 20045), “il mondo per immagini che ci viene proposto dal video-vedere disattiva la nostra capacità di astrazione e, con essa, la nostra capacità di capire i problemi e di affrontarli razionalmente”25.

Il 5G, a parte i rischi per la salute, è uno strumento a uso civile e militare che permette – fra i vari utilizzi – un controllo capillare degli spostamenti. Quando poi la privatizzazione sempre più incalzante delle istituzioni pubbliche sarà completa, l’abolizione del denaro contante renderà – secondo il piano di dominio e asservimento mondiale ormai dichiarato – tutti schiavi microchippati, inermi e miserabili nelle mani dei detentori del denaro virtuale a debito, cancellabili con un click appena si permettono di disobbedire26


Ai ragazzi occorre dare qualche strumento per comprendere le potenzialità e soprattutto i pericoli che si annidano nella tecnologia per il fatto di non essere sottoposta ad alcun controllo pubblico di trasparenza e le conseguenze che essa ha nel mondo reale e sulla vita delle persone. Come nel Truman Show, devono poter squarciare il fondale di scena per accorgersi della finzione e del ruolo del potere senza etica nel determinare l’esito del suo utilizzo. Soprattutto, bisogna dar loro la possibilità di rendersi conto che la loro parte spirituale, se sveglia, è più forte di qualunque tecnologia, perché collegata alla Sorgente originaria, viva e imprevedibile. Se l’umanità riuscirà a sopravvivere a se stessa e al dominio della tecnologia, sarà grazie a chi avrà conservato da qualche parte la scintilla divina della Coscienza.

Il potere dei simboli 


L’uomo è essenzialmente un essere simbolico. La capacità di creare indefinitamente dei simboli, di usarli per comunicare o per modificare la realtà, di comprenderli, è una prerogativa tipicamente umana. Un simbolo è qualcosa (un oggetto, un gesto, un animale, un segno, una persona) che, pur avendo un significato proprio, sta anche per qualcos’altro: per esempio, la colomba è un animale, ma anche il simbolo della pace. Nel suo significato etimologico, simbolo rimanda a un oggetto spezzato in due da ricomporre come segno di riconoscimento: quindi a una realtà altra che si può dischiudere attraverso il simbolo e che può essere riconosciuta tramite esso. Poiché lo stare per qualcos’altro è anche una caratteristica dei segni (per esempio, la parola “cane” sta per il cane in carne e ossa), si definisce come simbolico anche il linguaggio, che è un sistema di segni. Simboli e segni non sono la stessa cosa. Per Carl Gustav Jung, che ha dedicato una parte cospicua della sua riflessione a questo tema, un segno “ha un significato fisso, essendo un’abbreviazione (convenzionale) che sta per una cosa conosciuta oppure è un rimando a quella cosa medesima”, invece, il simbolo indica un contenuto polisemico, non definibile e non convenzionale, che “possiede numerose varianti analoghe, e più ne ha a disposizione tanto più completa e appropriata è l’immagine che abbozza del suo soggetto”27. Mentre il segno è convenzionale, il simbolo è polisemico, allusivo e aperto a infinite interpretazioni, non traducibile completamente in parole e quindi irriducibile al segno. 


I simboli sono onnipresenti nella nostra vita quotidiana, nell’arte, nella letteratura, nell’astrologia, nella magia, nell’alchimia, nelle scienze, nei sogni e fanno parte del patrimonio condiviso di ogni cultura umana. Non per niente se ne sono occupati molti antropologi e sociologi. Émile Durkheim, per esempio, vedeva nei simboli degli strumenti con i quali si possono pensare e mantenere coesi i sistemi sociali. Proprio perché presenta un vasto apparato di simboli, di riti e di credenze, la religione assolve alla funzione di mantenere unita la società a un livello profondo, generando significati condivisi, ed è essa stessa l’espressione della coscienza collettiva. Nei popoli per i quali la magia riveste un importante ruolo sociale, come gli Azande descritti da Edward Evans-Pritchard, i simboli fanno parte di un articolato sistema di comprensione del mondo, diverso da quello logicorazionale, ma non meno strutturato.

Nella visione magica, il simbolo permette di accedere a una realtà altra e di esercitare un’influenza sul mondo fisico o sul mondo degli spiriti. Ma nonostante quello che si pensa abitualmente, l’interesse per la magia in età moderna si sviluppò parallelamente a quello per la scienza. Molti grandi scienziati furono anche cultori di magia e di alchimia, primo fra tutti Isaac Newton28. Giordano Bruno vide nella rappresentazione grafica dei simboli (i “sigilli”) una via d’accesso intuitiva e immediata alla comprensione dell’Universo infinito. 


Anche nelle culture occidentali, nonostante il mito della razionalità scientifica che le caratterizza, i simboli sono onnipresenti a assolvono a funzioni più complesse e indeterminate rispetto ai semplici segni. Alcuni simboli ci sono molto familiari: la croce, il ramoscello d’ulivo, la piramide, la stella a cinque punte o a sei punte (Sigillo di Salomone), la mezzaluna islamica, la svastica; altri possono passare inosservati, senza una specifica attenzione che attivi l’intuizione dei loro significati, contestualizzandoli nel tempo e nello spazio. Se ci guardiamo attorno, li ritroviamo nelle architetture degli edifici, nei dipinti, nelle sculture, nelle planimetrie delle città, nei poemi, nei testi religiosi, nei loghi aziendali, nei gioielli, negli abiti, nei riti di qualunque religione o confraternita e in qualunque ambito della vita. Lungi dall’essere espressione di una visione arcaica del mondo, i simboli rappresentano una modalità non discorsiva di accostamento alla verità e ci trasmettono qualcosa di chi li ha usati, nel bene o nel male. In un certo senso, ci permettono di esprimere l’ineffabile e di accedere ad altre dimensioni. 


Imparare ad osservare i simboli, a lasciarli parlare, a comprendere quale messaggio è stato loro affidato più o meno intenzionalmente da chi li ha prodotti e quali risonanze suscitino in noi, positive o negative, armoniose o sgradevoli, curative o dannose sarebbe molto formativo per i nostri allievi. Ricordiamoci il potere immenso dei simboli nella storia: per esempio, la croce cristiana o la svastica nazista. Proprio perché parlano all’inconscio, superando le barriere del pensiero discorsivo, diventa fondamentale essere consapevoli del loro effetto, del quale la maggior parte delle persone è del tutto ignara. 


Perciò sarebbe utile portare i ragazzi a visitare musei, chiese, edifici storici, ecc. per educarli a guardare oltre la superficie e a cogliere il senso profondo di ciò che stanno osservando; inoltre, a rendersi conto di una complessità dell’esperienza umana che non si può ridurre o semplificare senza annullarla.

Il dialogo e la comunicazione non violenta 


Parlare di arte del dialogo in un mondo che lo ignora ovunque sembra quasi surreale. La fine delle democrazie occidentali sotto il giogo feroce di un potere dispotico che usa ogni mezzo per schiacciare chi non si sottomette sembra precludere ogni speranza di ricostruire uno spazio di libero confronto delle idee e di costruzione comune della verità. Quando regna la menzogna, è considerato pazzo chi difende la verità. Socrate ci ha insegnato che la verità è il frutto della ricerca associata, quindi del dialogo. Diá-logos (in greco διάλογος) è la parola che attraversa lo spazio fra i parlanti. È in quello spazio che riposa la verità: non è patrimonio o prerogativa di nessuno, ma può essere il risultato della combinazione dei punti di vista. Per dialogare, occorre saper comunicare e saper ascoltare in rispettoso silenzio. Non c’è dialogo quando ci sono violenza, sopraffazione, delegittimazione dell’interlocutore, che è ciò che si vede ogni giorno in TV. Se un ragazzo cresce in un clima permanente di avvelenamento del pozzo, finirà con il considerarlo normale. È questa normalizzazione dell’inaccettabile che deve preoccuparci. Non può perciò mancare da un progetto educativo integrale l’educazione al dialogo e alla comunicazione non violenta. 


L’arte del dialogo ha le sue regole. Conosciamo già la prima: la felicità dell’errore. Quando siamo colti in errore, spesso ci risentiamo e ci inalberiamo, feriti nel nostro narcisismo. Eppure, Socrate insegna che occorre rallegrarsi quando qualcuno ci mette di fronte al nostro errore, perché così la nostra conoscenza progredisce. Accettare di aver sbagliato è il segno più evidente dell’onestà intellettuale di cui tutti abbiamo bisogno.

La seconda regola è diretta conseguenza della prima: la verità è l’oggetto della discussione e il fine di essa, non la sua premessa. Nessuno può vantare dogmaticamente il possesso preliminare della verità. Il dogmatismo uccide il dialogo in culla. Il punto di partenza di una discussione è una tesi, sempre parziale e unilaterale. Occorre qui distinguere fra dialogo persuasivo, in cui A sostiene p per convincere B, mentre B non sostiene nulla, e dialogo euristico, in cui A sostiene p e B sostiene non-p. In questo secondo caso, il fine della discussione non è avere ragione, ma sapere chi ha ragione e qual è la ragione migliore29. In caso contrario, è una disputa, che non porta da nessuna parte. Il dialogo persuasivo è utilizzato per esempio dal politico per farsi eleggere o dall’avvocato per difendere il suo cliente, il dialogo euristico è quello che invece ci interessa più direttamente. 


La terza regola è il rispetto dell’interlocutore: poiché l’avvelenamento si scatena proprio quando delegittimiamo l’interlocutore, questa è una vera e propria strategia disintossicante. Non si criticano mai la persona o le sue qualifiche, ma sempre e solo il contenuto delle sue affermazioni. A volte si sente affermare che su un certo argomento (scientifico, economico, politico) devono parlare solo gli esperti, e quindi si nega valore a quanto dice l’interlocutore, giudicato incompetente, ma si tratta di una fallacia argomentativa (fallacia ad verecundiam o ad auctoritatem): è evidente infatti sia che a volte un’autorità può sbagliare sia che la verità può venire anche da una persona inesperta. Avere certezze preliminari rappresenta un ostacolo al raggiungimento della verità. Mai sottovalutare l’interlocutore e valutare unicamente la validità e la correttezza degli argomenti. Tutti possono parlare di tutto, se lo fanno rispettando le regole dell’argomentazione e sono disposti al confronto e al riconoscimento dell’errore. 


La quarta regola completa quella precedente: il dialogo deve accertare se la divergenza riguarda la descrizione dei fatti o degli eventi in questione o l’interpretazione di essi. In ogni caso, il dialogo deve fare riferimento ai fatti, senza accordo sui quali non c’è progresso nella discussione. Occorre costruire un terreno comune. Spesso occorre ricostruire i fatti mettendo insieme e confrontando diverse descrizioni di essi, per arrivare a una ricostruzione condivisa. Questo però richiede che entrambi gli interlocutori prendano in considerazione i dati di fatto presentati dall’altro. Rifiutarsi di farlo a prescindere chiude subito il dialogo. Rifiutarsi di accogliere la ricostruzione dell’altro, quando è la più credibile, pure. 


La quinta regola è la pertinenza: il dialogo procede se l’obiezione di B è pertinente all’affermazione di A. Riuscire a non divagare e a non introdurre nel discorso argomenti estranei consente di avanzare, altrimenti crea confusione.

La sesta regola è il rispetto delle regole logiche e argomentative. Qui l’esempio che viene dai media è disastrosamente negativo. Ma anche nel dibattito scientifico ricorrono spesso delle fallacie logiche o argomentative. Una delle più ricorrenti è la fallacia ad ignorantiam. A sostiene p dicendo che non ci sono le prove di non-p. Per esempio: non ci sono prove che il diserbante x o il farmaco y provochino il cancro o altra patologia, di conseguenza si possono usare tranquillamente. Si tratta di un errore: l’assenza di una prova non equivale affatto alla prova di un’assenza. Non trovare il cadavere di una persona scomparsa non implica affatto che non sia morta. Non avere le prove della colpevolezza di qualcuno non vuole dire affatto che quella persona sia innocente. Questo errore logico grave (dogmatismo ad ignorantiam) deriva da un particolare modo di intendere la verità, che si chiama epistemicismo (una proposizione è vera se e solo se è giustificata), combinato con il realismo (una proposizione che non è vera è falsa): il piano logico e quello fattuale vengono arbitrariamente considerati intercambiabili, per cui non vero = falso e non falso = vero30. In realtà, dall’assenza di prove possiamo correttamente ricavare al più una dichiarazione di ignoranza31


La conoscenza delle fallacie argomentative, che sono numerose e talvolta sottili, rende il dialogo molto più produttivo, perché consente di ridurre gli errori di ragionamento, soprattutto in ambito politico, e di affrontare intrepidamente la ricerca della verità. Consente inoltre di non farsi abbindolare da falsi argomenti e di saper controbattere alle fallacie altrui. 


La settima e ultima regola che propongo è la curiosità: non c’è modo di arrivare da nessuna parte in una discussione senza la curiosità di conoscere e il piacere di ascoltare. Il dialogo, in fondo, è ciò che ci contraddistingue come esseri umani e sociali. Fare domande, chiedere chiarimenti, interessarsi genuinamente della prospettiva del nostro interlocutore rende il dialogo un’attività piacevole e umanamente arricchente e realizza una delle qualità più felici della democrazia, che è la partecipazione.

Ma anche quando siamo armati di buona volontà, è possibile che non riusciamo a comunicare in modo da essere ascoltati o da accogliere l’altro. Di solito nessuno ci insegna una buona comunicazione, rispettosa e non violenta. La ragione, secondo Marshall Rosenberg, è sociale e politica: “La comunicazione che aliena dalla vita deriva dalle società gerarchiche, il cui funzionamento dipende dalla presenza di un gran numero di cittadini docili e sottomessi, e ne permette la continuazione. Quando siamo in contatto con i nostri sentimenti e i nostri bisogni, noi umani non costituiamo più buoni schiavi e buoni subalterni”32


Se non impariamo a usare consapevolmente la parola, contribuiamo ad aumentare la violenza complessiva nei rapporti sociali. Il livello della violenza verbale alla quale sono stati sottoposti i ragazzi è più che allarmante e enormemente lesiva dell’integrità delle vittime, con l’aggravante che è stata tollerata, quando non promossa, dalle più alte cariche dello Stato, da medici della Sanità pubblica, da giornalisti e influencer famosi, perfino da illustri giuristi e dalle massime autorità religiose. Un vero e proprio plotone d’esecuzione. Quando la violenza sfrenata, la denigrazione, l’offesa vengono dall’alto, si genera un effetto di emulazione a tutti i livelli della scala sociale. Così le persone perdono la nozione del male che stanno facendo agli altri e a se stesse. Hannah Arendt la chiamò “la banalità del male”. Durante la sadica campagna di pressione per il siero miracoloso, a nessuno è permesso disobbedire al diktat delle case farmaceutiche, nemmeno a fronte di dati carenti su efficacia e sicurezza, di un completo scarico di responsabilità sul cittadino e di contratti coperti dal segreto militare. Chi rivendica la libertà inviolabile di decidere per se stesso diventa un disertore, un criminale, un essere subumano indegno di rispetto, che merita di morire e di essere privato di ogni diritto. La coralità della violenza e della diffamazione è agghiacciante. Ricordiamo alcuni esempi fra i tanti: 


  • “Io sono molto democratico come sai... Campi di sterminio per chi non si vaccina”33 (Giuseppe Gigantino, cardiologo);
  • “La soluzione è una e una sola: CAMPO DI CONCENTRAMENTO! Se fosse per me costruirei anche 2 camere a gas, ma visto che poi mi danno della nazista, evitiamo. Li mettiamo tutti insieme in esilio e quando sono morti di covid, li andiamo a recuperare e diamo degna sepoltura! Amen”34 (Marianna Rubino, medico); 
  • “Abbiamo visto che è possibile escludere gli evasori vaccinali grazie a una semplice app nel cellulare. Dunque, facciamolo”35 (Stefano Feltri, giornalista); 
  • “I no-vax fuori dai luoghi pubblici”36 (Eugenio Giani, Presidente Regione Toscana);

  • “Come facciamo a costringerli? Cominciamo a dichiararli fuori legge”37 (Gad Lerner, giornalista); 
  • “Potrebbe essere utile che quelli che scelgono di non vaccinarsi andassero in giro con un cartello al collo”38 (Angelo Giovannini, sindaco di Bomporto); 
  • “Stiamo aspettando che i no-vax si estinguano da soli”39 (Paolo Guzzanti, giornalista); 
  • “Propongo una colletta per pagare ai no-vax gli abbonamenti Netflix per quando dal 5 agosto saranno agli arresti domiciliari chiusi in casa come dei sorci”40 (Roberto Burioni, allergologo e immunologo); 
  • “I malati di cancro, i malati di cuore, non possono trovarsi, per l’egoismo dei non vaccinati, nella situazione di non poter avere diritto di essere curati come ne hanno bisogno”41 (Alessia Morani, deputato); 
  • “I no-vax mi fanno schifo anche se continuo a curarli”42 (Umberto Gnudi, primario del Pronto Soccorso del San Salvatore);
  • “Madonna come vorrei un virus che ti mangia gli organi in dieci minuti riducendoti a una poltiglia verdastra che sta in un bicchiere per vedere quanti inflessibili no-vax restano al mondo”43 (Selvaggia Lucarelli, giornalista);
  • “Non sono disposto a prendermi il coronavirus per colpa di uno stronzo che non si vaccina […] Io mi auguro che il rider di Bologna porti a casa le consegne a domicilio al no-vax, gli sputi sopra, e poi gli dica ecco tenga mangi a casa”44 (David Parenzo, giornalista); 
  • “L’appello a non vaccinarsi è un appello a morire, sostanzialmente: non ti vaccini, ti ammali e muori. Oppure, fai morire: non ti vaccini, contagi, lui o lei muore”45 (Mario Draghi, Presidente del Consiglio); 
  • “Fra poco ce li troveremo in reparto e qualche sassolino dalla scarpa me lo voglio togliere… sai bucare una decina di volte la solita vena facendo finta di non prenderla?”46 (Francesca Bertellotti, infermiera); 
  • “Provo un pesante odio verso i no-vax”47 (J-Ax, cantante); 
  • “Non siete vaccinati? Toglietevi dal cazzo!”48 (Stefano Bonaccini, Presidente Regione Emilia Romagna); 
  • “Un giorno i vaccinati faranno pulizia etnica dei non vaccinati, come nel Rwanda dei Tutsi”49 (Alfredo Faieta, giornalista); 
  • “Il green pass ha l’obiettivo di schiacciare gli opportunisti ai minimi livelli”50 (Renato Brunetta, ministro); 
  • “E se tu hai bisogno di terapia intensiva o monoclonali dopo aver rifiutato il vaccino è giusto lasciarti morire per strada”51 (Umberto Tognolli, medico);
  • “Il ministro Luciana Lamorgese richiami in servizio Bava Beccaris che sa come trattare questa gente. Questi terroristi. Uno che ha paura di farsi un vaccino perché deve bloccare le stazioni? Se lo faccia e stia buono. La ministra richiami in servizio il feroce monarchico Bava che con il piombo gli affamati sfamò”52 (Giuliano Cazzola, politico e giornalista); 
  • “Immediatamente obbligo vaccinale per gli over 50, mandando i carabinieri a casa di chi non lo vuole fare”53 (Luca Telese, giornalista); 
  • “Gli renderemo la vita difficile, sono pericolosi”54 (Piepaolo Sileri, viceministro); 
  • “Prima o poi lo Stato dovrà decidere di prendere per il collo un po’ di persone e farle vaccinare”55 (Lucia Annunziata, giornalista); 
  • “È possibile porre a loro carico una parte delle spese mediche, perché colpevoli di non essersi vaccinati”56 (Sabino Cassese, costituzionalista);
  • “I no vax italiani non sono i perseguitati, sono i persecutori. Sono i nostri talebani, che vogliono negare il diritto di tutti a una vita normale. La libertà è quella di vaccinarsi e tornare a vivere”57 (Giovanni Toti, presidente regione Liguria); 
  • “I no-vax? C’è lo zampino di Satana!”58 (Don Gazzelli, parroco di Cessalto); 
  • “Se ne avessi la possibilità e l’autorità, mi prodigherei per creare per i novax un campo di concentramento dove avrebbero l’occasione di vivere indisturbati (…) Se poi si comportano bene e non fanno i capricci, creerei per loro anche dei forni per tenerli al calduccio”59 (Fausto di Marco, dirigente medico degli Ospedali riuniti Villa Sofia); 
  • “È sbagliato considerare l’attacco no-vax come un attacco perseguibile a querela: oggi è un attacco contro lo Stato e come tale dovrebbe essere perseguito”60 (Matteo Bassetti, infettivologo); 
  • “Anche nel collegio cardinalizio ci sono alcuni negazionisti e uno di questi, poveretto, è ricoverato con il virus. Ironia della vita”61 (Papa Jorge Mario Bergoglio).


Come possono un bambino e un adolescente che respirano un’aria così puzzolente e avvelenata per mesi e anni a non farsi l’idea che sia normale? Come si cresce sani in un contesto così marcio? Perfino a scuola il clima inquisitorio e il disprezzo palpabile per chi non ha ceduto il proprio corpo alla sperimentazione di massa preclude la possibilità di prendere le distanze, di fare confronti con l’unico periodo dell’ultimo secolo in cui si era creato un clima analogo, cioè il nazismo62, di difendere i valori sacrosanti della dignità umana che non possono mai, in nessun caso, essere sacrificati a un presunto “bene superiore”. In tutti i regimi totalitari, nei quali i diritti individuali non contano nulla, la giustificazione della violenza e della privazione dei diritti è sempre quella; resta da chiedersi: il bene di chi? 


Secondo Marshall Rosenberg, per superare la violenza del linguaggio ci occorrono l’onestà per comunicare e l’empatia per ricevere. Per entrambe valgono quattro passaggi: osservare senza valutare azioni e situazioni concrete che influenzano il nostro benessere; esprimere i nostri sentimenti, ovvero come ci sentiamo in relazione a ciò che osserviamo; esprimere i bisogni, i valori, i desideri che causano i nostri sentimenti; fare una richiesta, ossia comunicare le azioni concrete che desideriamo al fine di arricchire la nostra vita63. Farsi carico delle proprie emozioni e dei propri bisogni è responsabilità verso se stessi e segno di una personalità matura e capace di autodeterminarsi. Osservare se stessi e gli altri con distacco è una dote eccezionale. “Osservare senza valutare è la forma più elevata di intelligenza umana”, diceva Jiddu Krishnamurti. Vomitare insulti, proiettare i nostri mostri interiori sugli altri, seminare odio è invece un comportamento indegno e privo di etica, che affonda le sue radici negli strati inferiori della nostra mente animale. Non è certo questo che vogliamo per il nostro percorso educativo. Il vaccino di cui i ragazzi hanno bisogno è quello contro l’odio, l’intolleranza, la discriminazione.

I metodi 


La didattica è un’arte e ha le sue pratiche virtuose. Se il maestro autentico è tale per talento naturale e non può essere prodotto attraverso un corso di studi, si può comunque migliorare la qualità dell’insegnamento attraverso una formazione specifica sul metodo e sulle tecniche. Il metodo si avvale di tecniche, ma non si identifica con le tecniche e al riguardo G. Mialaret (1979) ci offre una precisa distinzione: “il metodo educativo è un insieme più o meno ben strutturato, più o meno coerente, di intenzioni e di realizzazioni orientate verso uno scopo esplicitamente o implicitamente enunciato. La tecnica è, invece, un insieme più o meno coerente di mezzi, di materiali, di procedure, che può avere una finalità in sé e che può essere al servizio di metodi pedagogici diversi”. Il metodo ha cioè valenza strategica, perché riguarda la prospettiva a lungo termine, ovvero le norme e i valori che guidano l’azione formativa. Indica etimologicamente la strada da percorrere per ottenere che gli allievi, ciascuno con le sue peculiarità personali, apprendano un argomento o una disciplina ed è influenzato anche dalle caratteristiche della materia (il metodo per imparare la matematica è diverso da quello per imparare l’inglese o la biologia). Le tecniche sono invece strumenti tattici, contingenti, che si possono utilizzare per argomenti e materie diverse nell’immediato e che possono facilmente cambiare quando serve. Esempi di tecniche sono la lezione, la classe rovesciata, la dimostrazione, l’esercitazione, la ricerca-azione, lo studio di un caso, il brainstorming


Normalmente, si distingue in linea generale fra metodi frontali e attivi: nei primi è l’insegnante che lavora, esponendo la lezione a mo’ di libro parlante mentre gli allievi ascoltano; nei secondi, sono gli allievi che lavorano attivamente, sotto la supervisione dell’insegnante. Entrando più nello specifico, si può definire una vera e propria tassonomia dei metodi, come fa Fiorino Tessaro (2014), che distingue fra metodi espositivi, attivi, laboratoriali, interrogativi, simulativi, analitici, relazionali64. Tutti i metodi non espositivi sono considerati attivi; resta perciò la distinzione di fondo, ma se ne specificano meglio le singole caratteristiche. Non c’è un metodo migliore in assoluto; dipende dalla materia, dal contesto, dalle caratteristiche degli alunni, dall’età. Un bravo insegnante dovrebbe alternare consapevolmente metodi diversi a seconda delle esigenze e non affidarsi passivamente alla routine o ai modelli esperiti da studente. 


Senza addentrarci troppo nel linguaggio tecnico pedagogico, possiamo osservare con Tessaro che nel metodo espositivo o frontale, che tutti conosciamo, l’obiettivo è quello di somministrare il massimo di informazioni al maggior numero di allievi nel minor tempo possibile. Per questo è il più usato nella scuola tradizionale. Ovviamente, ci sono alcune varianti: l’insegnante può parlare senza interloquire con gli allievi, può fare domande che stimolino una discussione, può alternare nella lezione momenti di spiegazione e momenti di discussione, di esercizio, di lavoro in gruppo. Benché sempre più osteggiato dalle direttive ministeriali, che si insinuano nella sfera della libertà di insegnamento promuovendo metodi alternativi di discutibile efficacia, il metodo frontale, specie se partecipativo, presenta una serie innegabile di vantaggi: fornisce un modello linguistico corretto a ragazzi dal lessico povero e dalla sintassi incerta; consente di far arrivare in modo chiaro e ordinato molte informazioni; può essere altamente stimolante, se l’insegnante parla con vivacità e sa stimolare la curiosità; è altamente efficiente in caso di argomenti complessi, come la storia, la filosofia, l’economia, le scienze umane; richiede impegno cognitivo, quindi stimola l’attenzione e la riflessione. Il suo limite è che usa solo il codice linguistico e quindi, a meno di una forte capacità motivante dell’insegnante, non facilita molto la memorizzazione per chi ha uno stile di apprendimento più iconico o attivo e sollecita un apprendimento mnemonico e ripetitivo. Se poi il docente è monotono e noioso, il metodo espositivo diventa un supplizio per gli studenti e li rende passivi.

I metodi attivi presentano il vantaggio di coinvolgere l’allievo tutto intero (corpo, mente, emozioni, relazioni) e non solo “dal collo in su”, secondo la felice espressione di Carl Rogers. Gli apprendimenti che coinvolgono le emozioni e il fare sono più duraturi e significativi. Nei metodi attivi, l’insegnante ha il ruolo di facilitatore del processo e necessita quindi di competenze emotivo-relazionali: empatia, ascolto, gestione dei conflitti, capacità di motivare. L’allievo è al centro e vive un’esperienza che lo coinvolge in prima persona, in un contesto concreto e in collaborazione con altri. Si parla di conoscenza situata, perché collegata a un contesto reale, distribuita, perché frutto di un lavoro condiviso, costruita, perché prodotta dalla comunità di pratica (J. Lave, E. Wenger, 1991) e non ricevuta bell’e pronta dall’insegnante, e significativa, perché frutto della capacità di attivazione o agency (J. Bruner, 1997), che lo studente sviluppa quando è soggetto attivo del processo di apprendimento. Lo svantaggio è la mancanza di sistematicità dell’insegnamento, associata alla minore efficienza: si impara meno a parità di tempo, anche se si impara meglio. Questo costituisce un potenziale danno per gli allievi svantaggiati, che hanno più bisogno della presenza del docente. Nella scuola secondaria, un uso ampio dei metodi attivi è ostacolato dalla scansione oraria delle lezioni, che non sempre consente di disporre di tempi adeguati. 


Nella scholé, la riflessione sul metodo è centrale nella progettazione didattica. Nessun metodo è escluso: alla lezione frontale, necessaria quando serve sistematicità, si affianca il laboratorio, inteso come spazio fisico o mentale nel quale si sviluppa un certa attività che richiede un’applicazione intelligente e non scontata di quanto si è appreso (in fisica, in geometria o in greco, per esempio); si possono usare i metodi interrogativi dell’investigazione e della ricerca-azione, che permettono di fare esperienza di un contesto di ricerca e comprenderne quindi anche le difficoltà, o quelli simulativi, che permettono di collocarsi in una situazione da un certo punto di vista, relativizzando il proprio, per esempio con il role playing; si possono affinare le capacità analitiche con lo studio di un caso, che immerge gli allievi nella complessità delle situazioni reali, o potenziare, con i metodi relazionali e le relative tecniche, come il brainstorming e il cooperative learning, la collaborazione nel gruppo e l’elaborazione collettiva di idee nuove, utilizzando l’immaginazione e valorizzando la relazione. Si possono utilizzare l’esperienza all’aperto, il lavoro manuale, la creazione di manufatti, l’apprendistato cognitivo65 (Collins, Brown, Newman, 1989), il service learning66. Come sintetizza Fiorino Tessaro, “con i metodi e le tecniche di simulazione il soggetto impara immerso nelle situazioni; con quelli analitici e interrogativi impara dalle situazioni; con quelli laboratoriali impara operando sulle situazioni, e con quelli relazionali impara a modificare le situazioni”67.

La scelta delle tecniche è libera, ma la scelta del metodo va attentamente valutata e condivisa nella scholé, perché è il metodo che dà senso al lavoro e lo sostanzia in un processo efficace di apertura delle menti. Di questo metodo fa parte il calore della relazione. Si deve fare tutto il possibile per far sentire i ragazzi amati, accettati, capaci e degni di rispetto e si deve cercare di comprendere l’assetto motivazionale di ognuno per stimolarlo al meglio. Perciò, dobbiamo tendere alla personalizzazione dell’insegnamento, ovvero alla piena valorizzazione del potenziale cognitivo di ogni singolo allievo e della sua personalità. 


Il metodo è poi trasversale e olistico. Poiché lo scopo è far uscire noi stessi e i ragazzi dall’addomesticamento e sviluppare la Coscienza, dobbiamo evitare le trappole della pedagogia nera, coinvolgere gli allievi interamente adattare il metodo alle loro esigenze di apprendimento (individualizzazione) e “contaminare” felicemente, ma anche sapientemente, saperi diversi.


È un metodo orientato all’autonomia e all’iniziativa degli allievi. Perciò non si fonda sull’obbedienza e sulla passività. Non dobbiamo assolutamente rinforzare la paura dell’insuccesso, perché blocca la curiosità e la voglia di provare. Dobbiamo piuttosto far cogliere ai ragazzi, come si è detto, la felicità dell’errore e il contributo che esso porta all’apprendimento, accompagnata dal piacere di costruire conoscenza insieme agli altri. 


Si basa sul rigore intellettuale e sull’onestà con se stessi. Un insegnante consapevole evita la trappola del self-serving bias e attribuisce sempre a se stesso la causa del fallimento, mai agli allievi. Anche qui, non nella prospettiva di autoflagellarsi, ma per correggere il tiro e trovare nuove strategie di insegnamento. Insegnare è sicuramente una sfida quotidiana alla propria creatività. 


Inoltre, utilizza la valutazione, ma non il voto e il registro. La valutazione degli apprendimenti, che non prevede i voti, ma solo un feedback sull’esito del lavoro, deve essere innanzitutto valutazione di processo, poi valutazione delle prestazioni e soprattutto dell’effettivo raggiungimento degli obiettivi educativi (non solo didattici) prefissati, mai valutazione della persona: come ho insegnato? Quanto ha imparato con questa modalità? Che cosa si deve correggere nel metodo o nella tecnica? Quali difficoltà ha incontrato? Come lo si può aiutare a superarle? Ha fatto progressi? Come è cambiato nel tempo? Il monitoraggio continuo degli apprendimenti da parte del docente consente anche all’allievo di avere il polso della situazione e di rendersi conto dei punti di forza e di debolezza. Si rende perciò indispensabile chiarire a se stessi e agli allievi gli obiettivi da conseguire e i traguardi da raggiungere e fornire frequenti feedback sui risultati o, meglio ancora, supportare modalità efficaci di autovalutazione. 


Dobbiamo evitare premi e punizioni. La scuola-campo di rieducazione li ha già condizionati anche troppo. Come si è già detto, il nostro compito è decondizionarli, insegnare loro la libertà autentica e favorire il più possibile la loro autonomia. Quindi il metodo è diretto a favorire la motivazione intrinseca, lo spirito di ricerca e l’interesse. È nostra responsabilità prestare continuamente attenzione alle emozioni e alla gestione delle relazioni con noi e fra di loro. Ci serve perciò una formazione apposita. Non tutti nascono facilitatori, ma si può imparare. I nostri allievi devono essere felici di andare a scuola (alla “non-scuola”) ed entusiasti di imparare e noi di insegnare. La loro gioia sarà la misura della nostra efficacia. L’orientamento alla persona è un’altra caratteristica del metodo. Devono imparare tanto e bene. Niente è più triste di un sapere altrui, mal digerito e risputato fuori senza intelligenza, come farebbe un animaletto ammaestrato. Studiare non vuol dire ripetere. Vuol dire comprendere, farsi e fare domande, cercare risposte, rielaborare e riesporre in tanti modi diversi. Per questo, il metodo deve sostenerci nel più arduo dei compiti: formare il pensiero critico in un contesto che lo osteggia, lo denigra, lo perseguita e cerca in tutti i modi di distruggerlo.

Formare al pensiero critico 


Il liceo classico gentiliano, frutto di quella che Mussolini definì come “la più fascista delle riforme”, che era fondato sui classici latini e greci e sulla filosofia, ha costituito per decenni il luogo per eccellenza di formazione del pensiero critico e dell’antifascismo. Aveva infatti, nonostante la pesante ideologia del regime, il merito di insegnare a pensare e fu la fucina di formazione della nutrita generazione di intellettuali e politici del dopoguerra. Il mito della romanità, tralasciando i suoi risvolti grotteschi, contribuì a circondare di rispetto e di sacralità le antiche glorie del passato, senza dubbio uniche al mondo.


Ma la brutalizzazione delle coscienze e delle libertà democratiche, operata sui nostri ragazzi in questi ultimi anni e che continuerà nei prossimi, mira a cancellare del tutto questa preziosa eredità di arte e di cultura, lasciandosi dietro il deserto dell’ignoranza e le rovine della scuola pubblica di eccellenza delineata dalla Costituzione. Il fine della distruzione della scuola pubblica è la cancellazione di ogni strumento intellettuale che consenta di opporsi a un potere totalitario e disumano e di qualunque continuità con una tradizione culturale che possa alimentare un senso di identità collettiva e l’orgoglio di sentirsi gli eredi di una grande passato. Uno schiavo ignorante e imbelle è il migliore alleato dei suoi padroni, che aspirano alla distruzione dell’umano, per realizzare il progetto folle di un mondo da incubo.

Ma che cosa significa pensiero critico? Se non sappiamo che cosa sviluppare, è difficile riuscirci. Quali sono le componenti che lo definiscono? Possiamo provare a identificarle. 


  • Capacità di comprendere in profondità i testi di ogni genere, compresi i messaggi dei media; 
  • Capacità di analisi dei contenuti e della struttura logica dei testi; 
  • Conoscenza della logica e della teoria dell’argomentazione; 
  • Capacità di riflessione sulle cause dei fenomeni; 
  • Capacità di cercare, selezionare e vagliare le fonti informative;
  • Capacità di istituire connessioni fra eventi diversi, di riconoscere schemi ricorrenti, di individuare fallacie e di andare in profondità; 
  • Capacità di pensiero complesso e multifattoriale; 
  • Capacità di dubitare, di formulare ipotesi e di metterle alla prova, di confrontarsi con posizioni diverse per individuare aspetti non colti prima; 
  • Spiccate competenze lessicali; 
  • Competenza nel ragionamento deduttivo e nei processi inferenziali; 
  • Conoscenza della storia e dei contesti dell’informazione; 
  • Attenzione rigorosa alla cronologia, alle circostanze di tempo, luogo, modalità; 
  • Attitudine a cercare le smentite, anziché le conferme di un’ipotesi; 
  • Conoscenza delle distorsioni cognitive (bias ed euristiche); 
  • Conoscenza della statistica e delle sue trappole; 
  • Padronanza delle proprie emozioni, empatia, apertura mentale e umiltà;
  • Curiosità.

Poiché è difficile che un insegnante abbia sviluppato tutte queste componenti, data la loro rarità nella scuola che conosciamo, sarà necessario un percorso di autoformazione, diretto a consolidare le competenze mancanti. Non si insegna ciò che non si sa. La domanda sul come riuscire a svilupparle nei ragazzi non ha una risposta univoca. Ci sono mille situazioni, tecniche, attività che possono ottenere questo risultato. Eccone alcune, di cui abbiamo già parlato almeno in parte: il dialogo socratico; lo studio delle fallacie; il rigore storico, concettuale, lessicale in tutte discipline; il rigore metodologico; la metacognizione; la discussione delle tesi; l’analisi e la costruzione di testi argomentativi; la riflessione epistemologica sui fondamenti della disciplina; il conflitto cognitivo; l’empatia; la valorizzazione di dubbi e interrogativi; l’imparare a discutere con altri; la trasversalità; la proposta di argomenti di confine, che sfidano le verità ufficiali o rappresentano campi controversi, come la controstoria, l’origine dell’uomo, il rapporto mente/cervello, le tecniche di manipolazione e di propaganda, la pubblicità, la globalizzazione, la morte e le NDE (esperienze di pre-morte), i fenomeni psi (fenomeni psichici non ordinari), le medicine orientali, la lettura di saggi critici. 


Come abbiamo già detto, niente ostacola il pensiero critico più delle affermazioni dogmatiche da imparare a memoria. In ogni momento della lezione, in ogni attività didattica va potenziata l’attitudine a fare e a farsi domande. Dobbiamo presentare gli argomenti mettendo in luce gli aspetti controversi e le teorie discordanti, dobbiamo evitare l’idolatria del manuale, aiutando i ragazzi a individuare i limiti e i difetti dello strumento, dobbiamo usare quanto più possibile le fonti originali integrali (letterarie, filosofiche, storiche, artistiche, scientifiche) e supportare gli alunni nella lettura e nella comprensione di testi complessi. L’analisi critica delle fonti resta la pietra angolare del pensiero libero. 


Dobbiamo usare testi critici e ricerche scientifiche e accademiche, anche in inglese. Dobbiamo stimolare i ragazzi a osare una loro riflessione o analisi personale, che vada al di là di un banale giudizio di gradimento. Ci servono perciò le tecniche appropriate, orientate alla scoperta, alla risoluzione dei problemi, alla discussione collettiva. Dobbiamo sottoporre alla loro attenzione domande, problemi, questioni aperte, anziché consegnare verità precostituite e predigerite. Dobbiamo sviluppare il senso estetico e l’attenzione agli aspetti formali dei testi, perché anche il senso del bello richiede consapevolezza critica. 


Dobbiamo far applicare a situazioni nuove gli strumenti acquisiti, ovvero rendere le conoscenze così solide da generare le competenze necessarie a sbrigarsela da soli. Non dobbiamo avere paura di dare troppe conoscenze, ma dobbiamo avere cura che siano chiare e organizzate. Ricordiamo che più conoscenza significa più intelligenza, maggior numero di connessioni, migliore capacità di pensiero complesso. Dobbiamo tirarli continuamente fuori dalla zona di comfort e sfidarli al limite delle loro possibilità. Come ci ha indicato Vygotskij, la zona di sviluppo prossimale è quell’area di conoscenza potenziale che si può attivare solo con l’intervento dell’adulto. Se non c’è sfida, ci si annoia. Tenere alta la tensione ad apprendere rende l’apprendimento un’avventura straordinaria e indimenticabile.

È un modello realizzabile? 


La domanda è lecita. Potrebbe sembrare un progetto utopico, se non irrealizzabile: una non-scuola, dove si vive un’esperienza ricchissima e felice di apprendimento intenso e gioioso, guidati da docenti autorevoli e appassionati, in un ambiente bello, accogliente, nel verde. Sembra un sogno. Eppure, è stato in parte già realizzato. Nel corso di alcuni mesi, è stata svolta una sperimentazione educativa che prevedeva un seminario residenziale periodico di quattro giorni, rivolto agli studenti del triennio dei licei (dai 16 ai 19 anni), in un contesto naturale molto bello. Gli studenti frequentavano regolarmente la scuola pubblica. Vi hanno partecipato alcuni docenti altamente creativi, che hanno lavorato con i ragazzi in modalità trasversale e tematica su argomenti importanti, come i mass-media, la conformità sociale, l’economia, la globalizzazione, la scienza, la coscienza, la bellezza, la storia, la fisica quantistica ecc. All’interno dei seminari, i ragazzi hanno meditato, hanno partecipato a laboratori di teatro, di letteratura, di fisica, di filosofia in lingua inglese, di consapevolezza emotiva, di comunicazione non violenta; hanno fatto amicizia, si sono presi spontaneamente la responsabilità della pulizia dei locali e hanno sviluppato una splendida relazione con i docenti, basata sulla fiducia e sul desiderio di imparare. 


Il risultato è stato straordinario. La loro felicità era alle stelle, al punto che i genitori ne erano commossi. Li abbiamo visti ascoltare rapiti un passo di Platone, seguire con attenzione complessi discorsi sull’epistemologia o interrogarsi sul simbolismo nell’arte o sulla definizione di bellezza. Il loro sorriso era la ricompensa più gradita per l’impegno profuso. Abbiamo ottenuto ciò che volevamo: stimolare il loro l’entusiasmo per la conoscenza e la voglia di leggere e di approfondire, di andare oltre l’ovvio e il convenzionale. Alla fine del percorso, abbiamo pianto insieme. Il miracolo dell’incontro fra anime era avvenuto e ce ne eravamo accorti tutti. 


Il percorso educativo può essere condotto in due modalità diverse: una a tempo pieno e una a tempo parziale, mantenendo la frequenza nella scuola di provenienza. Noi abbiamo sperimentato il tempo parziale, che ovviamente lascia la massima libertà ai docenti, ma presenta alcuni inconvenienti: la sovrapposizione con la fitta rete di impegni scolastici ed extrascolastici degli allievi e il dualismo pedagogico fra due modelli sostanzialmente incompatibili. Riemergere dalla sofferenza delle restrizioni scolastiche per poi tuffarvisi di nuovo dopo un seminario non aiuta a tenere alto l’umore e a massimizzare il risultato. Ma almeno offre qualche isoletta sulla quale riprendere un po’ di energia e di vigore. 


Il percorso a tempo pieno è indubbiamente la via maestra. Come abbiamo detto, richiede una visione educativa chiara e una formazione ad hoc degli insegnanti. Non è possibile realizzare nulla con qualche speranza di successo senza aver prima creato un gruppo di insegnanti affiatato, solidale, disposto a lavorare in gruppo e a mettersi in discussione ogni giorno. Anche questo seminario per docenti è stato realizzato e ha ottenuto il risultato sperato, visti i commenti altamente positivi dei partecipanti. Ho potuto constatare che c’è ancora voglia di mettersi in gioco, di rimettere in discussione gli stili di insegnamento cristallizzati dall’abitudine, di fare l’esperienza del tutto nuova della condivisione di un progetto educativo con i colleghi. C’è tanta voglia di educazione e di pedagogia, quella autentica e vitale. Che peccato che tutta questa ricchezza non riesca più a nutrire nel suo luogo naturale le pianticelle sempre più sole e inaridite dei tanti ragazzi che hanno ancora il desiderio di crescere e di imparare.

Conclusione 


Gli eventi ai quali stiamo assistendo, benché previsti e annunciati per decenni attraverso scritti, romanzi e dichiarazioni molto chiari e circostanziati dai circoli globalisti e dai fautori del Nuovo Ordine Mondiale, hanno indubbiamente un carattere eccezionale e unico nella storia, almeno di quella che conosciamo. In realtà è diventato solo palese e visibile a un gran numero di persone quali siano i reali equilibri del potere su questo pianeta e quanto siano sempre più ristretti i confini della nostra libertà. Materialismo, meccanicismo, competizione, avidità, egoismo, sfruttamento non sono solo idee, sono le gabbie invisibili nelle quali è stata intrappolata la nostra coscienza per impedirle di guardare più in alto e di riscattarsi. Finché le alimentiamo dando loro accordo, le manteniamo in piedi. 


La guerra psicologica che è stata condotta con metodi militari per inculcare nelle masse credenze dannose e false rappresentazioni della realtà avrebbe dovuto, nelle intenzioni di chi l’ha promossa e attuata, confonderci e disorientarci, gettandoci in pasto alla paura, alla rabbia e alla disperazione. L’odio seminato a piene mani avrebbe dovuto dividerci, creando l’illusione della dualità e della contrapposizione: pro-vax e no-vax, complottisti e credenti, responsabili e irresponsabili, pro NATO e pro Putin. Per il ristretto gruppo di oligarchi che possiede gran parte delle ricchezze del pianeta, tutto sembra possibile. Quando il denaro, il sesso e il potere sono i moventi dell’agire, come si può non convincere le persone a piegarsi alla volontà del più forte? Chi può resistere alla loro seduzione? Come affermava compiaciuto il miliardario Warren Buffett nel 2006, “È in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo”68


Eppure, anche se l’operazione sembra riuscita e milioni di persone hanno perso per sempre lucidità ed equilibrio, oltre alla salute o alla vita, in molti casi, sono convinta che la furia distruttiva e disgregatrice che sembra invincibile stia incontrando l’unico ostacolo che possa fermarla: il risveglio delle coscienze da essa stessa provocato. Abbiamo in molti la sensazione di essere gli epigoni di un mondo che sta morendo e che non sarà mai più come l’abbiamo conosciuto, e probabilmente questo è un bene. Ci serve uno scrollone per scuoterci dall’inerzia e dall’ottusità del quotidiano. Può essere illuminante al proposito quanto scritto nello Zohar, libro fondamentale della tradizione cabbalistica: 


Il momento più buio della notte è appena prima dello spuntare dell’alba. Allo stesso modo, gli autori del Libro dello Zohar scrissero, circa duemila anni fa, che il periodo più buio dell’umanità sarebbe giunto appena prima del risveglio spirituale. Per secoli tutti i Cabbalisti a partire dall’Ari, l’autore de L’Albero della Vita, che visse nel XVI secolo, hanno scritto che il periodo di cui parlava lo Zohar era la fine del XX secolo. Essi hanno chiamato questo periodo ‘l’ultima generazione’. Non intendevano dire che saremmo periti tutti a causa di un evento apocalittico e spettacolare. Nella Cabbala, l’ultima generazione rappresenta uno stato spirituale. L’ultima generazione è l’ultimo stato, il più elevato che possa essere raggiunto. I Cabbalisti dissero anche che l’epoca nella quale viviamo, l’inizio del XXI secolo, avrebbe visto la generazione dell’ascesa spirituale.
I Cabbalisti aggiunsero, inoltre, che affinché questo cambiamento potesse verificarsi, non avremmo potuto continuare a evolvere come abbiamo fatto finora. Dissero che, oggi, sarebbe occorsa una scelta cosciente e libera per garantire la nostra evoluzione69


Il percorso educativo delineato da questo libro vuole andare in questa direzione. Non sappiamo come andrà a finire, ma sappiamo che molto dipenderà da noi e dalla nostra capacità di rimetterci in sintonia con la scala dei valori della Coscienza, attingendo appieno alla nostra libertà e alla nostra creatività. Non c’è da combattere, solo da trasformare, superando ogni dualità e ogni contrapposizione. La coscienza sveglia è già di per sé la chiave. Come la programmazione predittiva dei film e dei romanzi distopici ci spinge a dare forma involontariamente a una realtà da incubo, per il solo fatto che la pensiamo, così il pensare insieme per dare forma a una realtà più spirituale, etica e giusta contribuirà a conferirle realtà. Costruendo la nostra Arca di Noè per traghettare i nostri figli su lidi inesplorati, cercando di migliorare noi stessi e lavorando con impegno alla costruzione di un mondo alternativo faremo così ciò che è il nostro compito in questa vita: vivere nell’amore, nella giustizia, nella verità e nella gioia.

Oltre la scuola e l’homeschooling
Oltre la scuola e l’homeschooling
Patrizia Scanu
Riparare i danni della pandemia ed educare per il mondo che verrà. Una proposta di intervento educativo da realizzare nel contesto dell’istruzione parentale per gli allievi della scuola secondaria inferiore e superiore, ispirata al modello umanistico dell’educazione integrale (che coinvolge corpo, mente, anima e spirito), con il proposito di formare anime libere e capaci di sentire e di pensare.