CAPITOLO II

Il periodo perinatale: l’età dell’oro per la salute

“L’uomo comincia dalla nascita. Anzi, comincia molto tempo prima: comincia dal concepimento. E il periodo prenatale, come il periodo postnatale, sono i periodi più importanti per la vita dell’uomo”

M. Montessori

Tutto ciò che avviene nell’infanzia rimane stampato nell’animo umano”8 , diceva la Montessori e oggi noi sappiamo che in assoluto il periodo più importante della nostra esistenza è quello che va dal pre-concepimento ai primi mesi di vita: ormai tutti gli studiosi e i ricercatori di varie discipline sono concordi su tale assunto. È qui che si giocano le sorti di ogni individuo.


Ecco perché questo è il capitolo più lungo di tutto il libro… Ma lo è anche perché tratta del tema a cui ho dedicato la maggior parte della mia esistenza e vita professionale: quello che mi appassiona di più, perché mi riguarda in prima persona. Come ormai ben sanno i miei affezionati lettori, il periodo perinatale è il luogo del mio trauma, che ho cercato poi di trasformare in dono per altri.


Personalmente, mi piace chiamare questo lasso di tempo “l’età dell’oro”: perché ciò che si costruisce qui durerà per il resto della nostra vita e, se si è ben seminato in questo periodo così cruciale, se ne raccoglieranno prima o poi i frutti.


Allo stesso modo, i problemi che insorgono durante questa fase saranno quelli più profondi e difficili da superare, perché si tratta di un periodo preverbale, in cui le memorie non possono venire espresse attraverso il linguaggio, se non quello fisico, del corpo.


L’aveva già compreso Maria Montessori quando scriveva che più piccolo è il bambino al momento del trauma, maggiore è il pericolo per la sua vita futura e quando lo shock avviene durante il periodo prenatale, è ancora più dannoso.


Oggi la sua intuizione è stata confermata da studi e ricerche, come quelle di A. Janov, il quale afferma a questo proposito “Più l’impronta è profonda e antica e più forza ha”9 . In questo senso gli eventi prenatali sono ancora più determinanti per il corso della nostra esistenza rispetto a quelli delle epoche successive. Un vissuto di solitudine e abbandono in un bambino di otto anni, per esempio, non avrà lo stesso impatto a livello cerebrale di uno analogo sperimentato da un feto o da un neonato, creature del tutto impotenti e vulnerabili. Si è visto che i traumi prodotti durante la gestazione o i primi giorni di vita si ripercuotono su una parte del cervello, il tronco cerebrale, legato all’istinto di sopravvivenza e sono quindi i più difficili da individuare e da sanare.


L’assenza di contatto fisico in un bebè, per esempio, scatena una secrezione di cortisolo, l’ormone dello stress: se questa è eccessiva, danneggia determinate strutture del sistema limbico che hanno a che fare con i sentimenti.


Ecco perché un neonato che non è stato toccato può, crescendo, non sentirsi amato…


“La ricerca ha dimostrato che gli avvenimenti dell’inizio della vita scolpiscono letteralmente il nostro cervello”10 , ci ricorda A. Janov.


Lo stesso afferma il neonatologo Wirth: “L’esperienza in utero del feto costruisce l’architettura cerebrale che determinerà il suo comportamento dopo la nascita” e il ginecologo M. Odent lo conferma quando scrive che “La nostra salute è costruita in gran parte durante la vita intrauterina”.


In base alla mia esperienza personale e professionale, ritengo che il periodo perinatale, perlomeno per alcuni individui, rappresenti una sorta di riassunto, di concentrato di tutte le tematiche irrisolte anche della storia transgenerazionale o remota dell’individuo, come se fosse una sorta di fotogramma, lavorando sul quale si può cambiare l’intero film.


Oggi noi sappiamo che il modo in cui siamo stati concepiti, come abbiamo vissuto nella pancia della mamma, come siamo nati, come siamo stati accolti al momento del parto e siamo stati accuditi subito dopo, condizionano il nostro modo di stare al mondo. Quindi, in virtù di tutto questo, possiamo tranquillamente affermare che un buon periodo perinatale è la migliore delle polizze assicurative sulla vita!


Studi ed esperienze effettuate con la tecnica cranio-sacrale biodinamica hanno mostrato gli effetti sul bambino, e poi sull’adulto che questi diventerà, di tutte le fasi del periodo perinatale. Vediamo ora di esaminarle una per una.

Concepimento: là dove tutto ha inizio

Il momento del concepimento è il big bang della nostra storia di individui: una vera e propria esplosione di luce, che oggi è stata immortalata dai ricercatori della Northwestern University dell’Illinois.


Il concepimento è il punto zero da cui ha origine la vita. È la nostra vera data di nascita in realtà (come ben sapevano gli antichi cinesi che calcolavano l’età di un individuo dal giorno del concepimento e non da quello del parto).

È il crogiuolo alchemico in cui si scrive il nostro destino, che è inevitabilmente collegato a quello dell’albero genealogico di cui siamo il frutto e la discendenza.


Come scrive Jodorowsky “I problemi delle generazioni precedenti influiscono sulla gestazione del bambino fin dal momento in cui lo spermatozoo penetra nell’ovulo. In quel momento chiave sono presenti non solo la psiche della madre, ma anche quella del padre, dei nonni e dei bisnonni mescolate insieme e condizionate dai problemi della società11 Un bel cocktail, non vi pare?!


Così per esempio – egli continua – “Uno spermatozoo aggressivo e un ovulo vittima non possono dare all’individuo che sta per nascere la stessa energia vitale che gli darebbe un ovulo che si è generosamente aperto per unirsi ad uno spermatozoo pieno di amore12 . Come dire che non è la stessa cosa essere stati concepiti in un momento di sfogo sessuale o addirittura di rabbia o in un amplesso d’amore, in un momento di lutto e di depressione o in uno di gioia e di entusiasmo… Perché cambiano le condizioni di partenza.


Ecco dunque – come ci ricorda l’omeopata Peter Chappell – che “lo stato dei genitori al concepimento è importantissimo, è il momento più importante perché dà il “tono” al bambino in arrivo”13 .


E invece a questo nessuno pensa mai. Com’è avvenuto il concepimento?

In che atmosfera? È stato un incidente di percorso o il frutto di un desiderio profondo della coppia?


Pensiamo per esempio a quanti bambini vengono concepiti per tenere insieme i genitori, per sostituire un fratellino che non c’è più o semplicemente per distrazione, per sbaglio, in un momento di fugace eccitazione…


Oppure pensiamo alle fecondazioni assistite, oggi sempre più frequenti, in cui il concepimento avviene in una provetta in laboratorio, anziché attraverso un atto d’amore e di contatto umano: ci sono foto che mostrano come la cellula si ritragga di fronte all’inserimento dell’ago…


Ebbene tutti questi diversi vissuti lasceranno nel nascituro un segno, un imprinting profondo, che andrà, in età adulta, guardato e affrontato.


Perché l’anima del bambino possa incarnarsi deve avere voglia di prendere una forma, deve avere voglia di vivere e anche l’energia per farlo. Se ne deduce che migliore è l’ambiente e l’energia vitale dei genitori al momento del concepimento, migliore sarà quella del bambino (ecco perché, per esempio, un’integrazione di sostanze vitali – come vitamine, minerali, aminoacidi e antiossidanti – in gravidanza è di fondamentale importanza).


Ce lo confermano anche le ultime acquisizioni scientifiche: gli studi rivelano, come scrive il biologo molecolare B. Lipton, padre della Nuova Biologia, che, nei mesi precedenti il concepimento, i genitori agiscono nei confronti dei figli come dei veri e propri ingegneri genetici. “Negli stadi finali della maturazione dell’ovulo e dello sperma, – egli dice – un processo denominato imprinting genomico regola l’attività di specifici gruppi di geni che modelleranno il carattere del bambino che dev’essere ancora concepito. Le ricerche indicano che ciò che accade nella vita dei genitori durante il processo di imprinting genomico ha una profonda influenza sulla mente e sul corpo del bambino”.


Ecco perché essi dovrebbero prepararsi nel migliore dei modi, non solo alla nascita del loro bambino ma anche al suo concepimento, affinché avvenga in modo consapevole.


Come scrive Aïvanhov, “Bisogna rivedere tutto dall’inizio, e l’inizio è il concepimento”14 .

Gestazione e vita prenatale:

“Il futuro si gioca prima della nascita”: posso affermare, per esperienza personale, che queste parole della psicologa francese Claude Imbert, esperta di tematiche perinatali, sono assolutamente veritiere. Perché sarà il tipo di esperienze prenatali che abbiamo vissuto che influenzerà il modo in cui percepiremo i successivi eventi della vita.


Sebbene l’importanza del periodo prenatale sia stata ormai confermata da una quantità inverosimile di studi scientifici, non è tuttavia ancora entrata a far parte del patrimonio di conoscenza comune: ancora molti genitori si stupiscono quando spiego loro gli effetti dannosi che possono avere sul bambino gli eventi incorsi durante la gestazione. A volte, quando chiedo cosa è successo in gravidanza, fanno fatica a menzionare situazioni anche drammatiche che sono accadute, perché se, da un lato, possono averle rimosse per difesa, dall’altro non ne percepiscono l’importanza per il nascituro. Semplicemente non conoscono gli effetti che i traumi vissuti dalla madre durante la gestazione possono avere sull’embrione o sul feto che porta nel suo grembo.


Non sanno che, come scrive Jodorowsky, “L’impatto dei traumi prenatali è importantissimo e condiziona l’intera stirpe”15 . Perché ancora non è diffusa a livello di grande pubblico la conoscenza dell’esistenza di una Coscienza a livello cellulare e la consapevolezza che “Le esperienze prenatali possono essere ricordate e hanno un impatto che dura per tutta la vita” come ci ricorda W. Emerson.


Fino a pochi decenni fa si riteneva addirittura che i neonati non sentissero dolore: prova ne è che venivano perfino operati senza anestesia! Ora invece sappiamo, grazie ad una serie di ricerche in vari ambiti disciplinari, che anche le cellule ricordano e serbano memoria. “Nelle cellule sta scritto tutto, la sofferenza e l’estasi”16 .


Impressionanti sono per esempio gli esperimenti effettuati negli anni ’60 da Cleve Baxter, un ricercatore specialista in interrogatori per la Cia, sulle piante, in particolare esemplari di Dracena, che al poligrafo mostrano chiare reazioni di sofferenza nel momento in cui vengono esposte alla visione del taglio di una lattuga. Ancora più impressionante è il filmato che riprende la scena in cui la pianta testimone di uno smembramento di una sua vicina riconosce (attivando una reazione di stress registrata dal poligrafo) tra varie persone l’individuo artefice del “delitto”.


Se una pianta può provare dolore e registrare la memoria di esperienze traumatiche, provate a immaginare cosa può sentire un embrione o un feto!

“Chi non ne ha fatto l’esperienza, non può sapere di quante paure soffra l’embrione, quali dolori provi, specie se ci sono tentativi di aborto. Al confronto con le esperienze che precedono la nascita, le vicende dell’infanzia sono episodi di tutta tranquillità”17 , scrive lo psicoterapeuta Dethlefsen.

E io lo posso confermare.


Pensiamo per esempio a un bambino che ha vissuto la perdita di un gemello in utero: è come essere stati testimoni di una morte in diretta, con tutto il dolore, la paura, la rabbia e il senso di impotenza e di colpa di vivere che questa perdita comporta. Un dramma misconosciuto, quello del gemello superstite, che lascerà un segno e conseguenze inevitabili anche nella vita adulta.


Ciò avviene in parte anche nel caso delle fecondazioni assistite, in cui vengono impiantati più embrioni, allo stadio di blastocisti, nell’utero materno, ma alcuni di questi si perdono in quanto non attecchiscono: i bambini nati nella provetta sentono quelli che non ci sono, che se ne sono andati. Perché – per usare il linguaggio delle costellazioni – “fanno parte del sistema”.

Un cuor solo, un’anima sola

Oggi noi sappiamo dagli studi di ricercatori come William Emerson, pioniere della psicologia perinatale, che l’embrione e il feto percepiscono tutte le emozioni materne: paura, rabbia, tristezza, ma anche gioia e serenità. Esse giungono loro attraverso i neuropeptidi che circolano nel sangue del cordone ombelicale, quel filo che unisce energeticamente il bambino alla madre attraverso la placenta, la grande mediatrice.


Il sangue per l’essere umano è l’equivalente del terreno di coltura per le cellule che crescono in vitro, cioè in una piastra di Petri18 : la chimica del sangue materno influenza dunque la crescita del nuovo organismo che, potremmo dire, si nutre letteralmente delle emozioni della madre. Ben diverso quindi se si tratterà di una chimica della gioia piuttosto che di una chimica della paura! Per esempio lo stress di una donna abbandonata dal marito in gravidanza potrà, se vissuta male, causare un’alterazione dell’equilibro ormonale e chimico del feto tale da provocare anche un aborto o un parto prematuro. Così, allo stesso modo, se la madre è gravemente depressa durante la gestazione, lo è anche il bambino. Il feto sente l’angoscia della mamma anche se non ne è cosciente e la vive sotto forma di vago malessere e di tensione. Può inoltre provare anche uno stato di preoccupazione per la sofferenza della madre (come ho potuto sperimentare personalmente durante una regressione alla vita prenatale), con conseguente senso di impotenza: è troppo piccolo per poterla aiutare!


Il liquido amniotico inoltre, proprio come l’acqua, possiede una memoria (è il principio su cui si basano l’omeopatia e la floriterapia), è un supporto informazionale che veicola messaggi, una sorta di brodo primordiale in cui il bambino nel ventre si bagna, nuota ed è totalmente immerso e da cui assorbe particolari informazioni anche transgenerazionali.


Nel ventre materno al bambino arrivano dunque, oltre alle emozioni materne, “rifornimenti spirituali”, come li chiama Lake, ma anche prescrizioni e divieti: per esempio l’ordine di imitare il modello trasmesso da chi l’ha preceduto o quello di riempire un vuoto incolmabile lasciato da qualcun altro…


Un essere umano non nasce come una pagina bianca, ma viene influenzato e condizionato fin da quando è nel grembo di sua madre, fin dal momento del concepimento, dalle tematiche del clan familiare a cui appartiene e dall’ambiente in cui si trova a vivere.


Pensate dunque quanto può essere importante una corretta “igiene” prenatale, intesa nel suo senso originario etimologico di “salute”, ovverosia di stile di vita sano, non solo privo di tossine ambientali e nutrizionali ma soprattutto equilibrato e armonioso da un punto di vista emotivo.


Se è fondamentale fare movimento e mangiare cibi il più possibile naturali e bilanciati durante la gravidanza, è altrettanto importante curare la propria vita interiore, dedicando tempo a se stesse e al bimbo che si porta nel grembo, circondandosi di bellezza e di armonia (come ci insegnano tutti i popoli tradizionali del mondo), ricavando spazi di calma e raccoglimento, momenti di rilassamento e centratura per coltivare la Presenza e comunicare con la nuova vita che sta fiorendo dentro di sé.


Non insisterò mai abbastanza nel raccomandare ai futuri genitori di parlare al loro piccolo nel ventre, fin da quando è poco più grande di un mignolo: anche se non coglie il senso delle singole parole pronunciate, lui percepisce però il messaggio che gli si vuole trasmettere, sente l’affetto, la rassicurante vicinanza di mamma e papà attraverso la loro voce e il loro tocco.


Ecco perché è così importante spiegargli tutto quello che succede, specialmente nel corso di procedure mediche o durante il parto: la sua paura e il suo spavento possono derivare proprio dal non sapere cosa gli sta accadendo e dal sentirsi solo e perso in questi frangenti.


Anche in momenti di tensione e conflitti familiari è bene spiegare al piccolo nel ventre che lui non c’entra, che non è colpa sua quello che sta avvenendo tra mamma e papà, perché il bambino si sente sempre responsabile di tutto ciò che accade e della eventuale sofferenza dei genitori, di cui spesso e volentieri si fa carico unicamente per amore.


Oppure, in caso di una gravidanza all’inizio non voluta, è bene raccontargli che se mamma era spaventata all’idea di avere un bambino o papà preoccupato di non poterlo mantenere, poi tutto questo è passato, proprio come una nube nel cielo, e ora i suoi genitori sono felici che lui ci sia e lo amano dal profondo del cuore.

Vedrete che lui saprà capire.


Ecco gli eventi più comuni che lasciano un segno sul nascituro:

  • Precedenti aborti non elaborati, specie se molto vicini alla data del nuovo concepimento
  • Precedenti lutti non elaborati di bambini morti in tenera età
  • Lutti incorsi in gravidanza (perdita della madre, del padre, del coniuge o di persona molto amata)
  • Separazione durante la gravidanza o allontanamento del padre
  • Litigi importanti o atti violenti o abusi durante la gravidanza
  • Ritmi eccessivi di lavoro della madre (per es. 12 ore al giorno davanti a un computer) o stress e frustrazioni sul lavoro
  • Minacce subite durante la gravidanza
  • Senso di colpa per la gravidanza (che si tenta di nascondere agli altri)
  • Gravidanza non voluta
  • Tentativi di aborto o desiderio di aborto
  • Interventi chirurgici o dentali importanti durante la gestazione
  • Malattie debilitanti o depressione e attacchi di panico della madre in gravidanza
  • Perdita di un gemello in utero

Ricordo per esempio una bambina che aveva problemi di crescita fin dal periodo prenatale: la mamma mi raccontò di aver nascosto la gravidanza ai suoi parenti e cercato di camuffare la pancia con vestiti larghi così da passare inosservata. La connessione con le difficoltà di accrescimento della figlia era evidente: la piccola aveva inconsciamente “ubbidito” ai desideri della mamma e continuava a rimanere estremamente minuta anche una volta nata per non dare nell’occhio…


Le risonanze emotive con il periodo prenatale sono tante e si manifestano in vari modi durante l’infanzia e anche la vita adulta.


Così, per esempio, il bambino di una mamma che ha lavorato per tutta la gravidanza senza concedersi tregua alcuna e pensando solo alla sua professione, non si sentirà visto e riconosciuto e cercherà in tutti i modi, una volta nato, di attirare l’attenzione materna con mille richieste: “Mamma, guardami!” sarà il suo grido a volte muto, a volte urlato con forza.

Mentre chi in utero ha vissuto il pericolo di un tentato aborto (o anche solo del pensiero di una scelta del genere) sentirà poi di non avere il diritto di esistere, con tutto il carico di colpa che ne consegue…


Il grembo materno purtroppo non è sempre un luogo così paradisiaco come siamo abituati a credere, non sempre è “la reggia del bambino”19


L’utero è la sua prima casa e come tutte le abitazioni ha una sua particolare architettura ed atmosfera: a volte è calda ed accogliente, altre volte si rivela fredda e inospitale.


Così, ci può essere un ventre “divorante” come una giungla amazzonica, quando per esempio il bambino viene vissuto dalla madre non come essere a sé ma come riempitivo di un vuoto incolmabile, con aspettative irrealistiche.

E ci può essere un grembo “sepolcrale” quando l’utero è appena stato teatro di un aborto o la madre è in lutto per un bambino perso in precedenza: il bambino che arriva dopo si sente catapultato in un’atmosfera di morte, come se una nuvola nera lo circondasse e lo facesse soffocare.

Lo stesso avviene nel caso della perdita di un gemello in utero.


Ci può essere un utero freddo e arido, nel caso per esempio di una gravidanza non voluta, in cui la madre si distacca emozionalmente dal bambino o è talmente razionale e rigida da non trasmettere al suo piccolo quel calore umano di cui ha così tanto bisogno. Oppure un grembo tossico quando la madre fuma o assume droghe o è portatrice di una tematica in cui la sessualità è associata alla “sporcizia”.


In caso poi di un intervento chirurgico della madre in gravidanza per qualche patologia (che se non veramente indispensabile andrebbe rimandato), il nascituro vive l’esperienza dell’invasione violenta di quello che è per lui uno spazio sacro, in cui è connesso intimamente alla madre, e che non andrebbe mai violato. L’invasione dell’utero, secondo M. Appleton, è in assoluto il trauma più angosciante che un essere umano possa vivere (pensiamo anche al sottovalutato impatto dell’amniocentesi).


L’anestesia a cui la madre è sottoposta, in caso di intervento, viene vissuta dall’embrio-feto come un “veleno”, che provoca l’addormentamento della mamma – da lui percepito come una morte – e che gli procura una sensazione di stordimento con perdita di ogni punto di riferimento.

Non vi spaventate però! In ogni trauma c’è un dono nascosto.

Come dice lo stesso Appleton, “se l’utero fosse un ambiente ideale noi non saremmo in grado di reagire alla negatività”.


Le difficoltà sono sempre una sfida che la vita ci pone per farci tirare fuori le nostre risorse e ricordarci la nostra forza e le nostre innate capacità: se tutto andasse sempre liscio non avremmo questa preziosa opportunità!


Fin da quando sono feti in utero, i bambini sanno mettere in atto tutta una serie di difese: per esempio stringono il cordone ombelicale con le loro piccole manine così da limitarne il flusso e il concomitante assorbimento di tossine; oppure contraggono il diaframma (strategia che porterà poi da adulti a problemi di “respiro corto”). A volte, nei casi più seri, quando il dolore è insopportabile, arrivano perfino a dissociarsi, entrando in uno stato di congelamento emotivo. È importante che gli adulti che li accudiscono riconoscano precocemente questa condizione, così da aiutarli a uscirne fuori il prima possibile.


Ma non temete: nessuna traccia è irremovibile, nessun danno permanente.

I bambini sono dotati di un’estrema plasticità e resilienza, e sanno far fronte, fin da piccolissimi, a traumi importanti, specie se ricevono il sostegno dei loro genitori (attraverso per esempio la formula magica del “Sono qui con te”…). Perché qualunque dolore può essere superato quando non ci si sente soli nell’affrontarlo.


Ecco dunque ciò che è importante sviluppare durante il tempo dell’attesa: una connessione energetica con il proprio figlio che si porta nel ventre, perché il bambino è prima di tutto un essere di relazione e di questa, più di ogni altra cosa, ha bisogno per crescere bene.


Ma per potersi connettere in modo ottimale con un altro da noi bisogna sapersi connettere innanzitutto con se stessi. Ecco perché il lavoro interiore è così essenziale: prepararsi al parto non significa allenarsi per una performance, significa prepararsi ad accogliere il mistero dentro di sé, ad accogliere la Vita in tutta la sua sacralità. È un’occasione preziosa da non perdere.


La gravidanza è un percorso iniziatico, a cui bisogna accostarsi in punta di piedi e con piena consapevolezza e coscienza. È un periodo della vita su cui bisognerebbe investire tutte le proprie risorse e a cui bisognerebbe dedicare tutta la propria attenzione e cura, sia come individui sia come società, perché permetterebbe, se ben vissuto, di prevenire tante problematiche future e dare vita a individui forti e sani, in grado di realizzare le loro potenzialità, esprimere i loro talenti e chissà, forse, così facendo, cambiare il mondo…

Il parto-nascita come processo iniziatico

Poi c’è l’esperienza del parto: arriva il momento in cui il bambino deve “ingoiare la pillola fangosa”, come dicono gli antichi taoisti, e la donna affrontare la sua prova iniziatica…


La nascita, proprio come la morte, è un passaggio di soglia. Tutte le antiche tradizioni di saggezza ci ricordano che si tratta in realtà dello stesso identico passaggio, solo in direzione inversa: l’uno è un andare, l’altro un ritornare.

In fondo, nient’altro che un cambio di domicilio…


Come tale, la nascita è un atto sacro. Purtroppo però, nella nostra società occidentale la medicalizzazione portata all’estremo ha “sconsacrato” questo momento così importante nella vita di ogni essere umano, di ogni donna e di ogni bambino, riducendolo a un evento sanitario, tecnico, relegato a un luogo freddo e asettico come l’ospedale.


Talora, nonostante una buona preparazione preparto, qualcosa va storto all’ultimo momento e il piccolo nasce con un’induzione o un taglio cesareo.


In genere tutte le difficoltà e i problemi che insorgono al momento della nascita sono legate a blocchi energetici materni, a tematiche irrisolte che portano i vecchi nodi al pettine, ad antiche memorie, anche transgenerazionali, a credenze errate, che andrebbero affrontate ed elaborate prima dell’inizio della gravidanza, in modo che l’acqua possa scorrere senza intralci e si possa procedere senza portarsi dietro inutili zavorre.


Così, per esempio, non è un caso se una donna, il cui tema esistenziale è l’abbandono, vive il momento del parto in uno stato di solitudine, in cui si ritrova senza il sostegno del partner o dell’ostetrica… Allo stesso modo un’altra, che porta dentro di sé memorie di abuso, potrebbe ritrovarsi a vivere esperienze traumatiche di manovre violente e interferenze inutili e dannose durante il travaglio e la fase espulsiva. A volte ci sono parti che fanno pensare a veri e propri campi di battaglia e fanno emergere ricordi di guerre…


Nel ventre, in quel luogo segreto, vera fucina e crogiuolo alchemico, (in cui si trova, secondo i taoisti, il Dan Tien inferiore, uno dei centri energetici più preziosi dell’essere umano), giacciono sepolte, nella profondità dell’inconscio, le più recondite emozioni materne. Quindi, quando per esempio il Dan Tien inferiore della mamma è per così dire “intasato” da memorie di abbandono, umiliazione e invasione – che appartengono alla sua storia personale o generazionale – la sua energia inquinata arriva anche all’embrione e al feto che la assorbe come una spugna e la conserva nelle sue cellule per poi riattivarla in circostanze che agiranno come un grilletto scatenante.


Inoltre, se l’energia del centro inferiore non scorre in modo fluido e non riesce a connettersi con quella degli altri due centri energetici, il Dan Tien intermedio (cioè quello del cuore) e quello superiore (cioè quello del cranio, sede dello Spirito), la mamma fa fatica a mantenere un buon livello di energia e ad aprire totalmente il cuore per amare in modo incondizionato il figlio che porta in sé.


Per esempio, una donna che ha vissuto problematiche di rifiuto e/o abuso nella sua infanzia potrebbe, in alcuni casi, essere una mamma che fa fatica a toccare il suo bambino e a dargli tutto quel contatto fisico di cui ha bisogno perché lei il tocco o non l’ha ricevuto o ha rappresentato una fonte di dolore.


Ma – ricordiamocelo sempre – le esperienze spiacevoli che noi viviamo sono sempre funzionali a ciò che siamo venuti a fare e ad imparare!


Così, per esempio, mi è capitato un papà che ha scelto di dedicarsi al commercio di prodotti ecologici per la casa (in particolare vernici non tossiche) perché durante la sua vita prenatale aveva respirato un’atmosfera piuttosto pesante per via di problematiche materne irrisolte: un modo eccellente per trasformare il trauma in beneficio per altri!


Lo stesso potrei dire di me: se non avessi vissuto un travagliatissimo periodo perinatale non sarei stata in grado ora di scrivere queste pagine e di aiutare nel corso della mia vita tante mamme e bambini che sono passati attraverso prove simili alla mia…

Dimmi come sei nato e ti dirò chi sei

La modalità con cui viene vissuta la nascita condizionerà poi l’atteggiamento futuro nei confronti della vita: “Dimmi come sei nato e ti dirò chi sei”! Questo slogan contiene più verità di quanto si possa immaginare…

Facciamo qualche esempio per comprendere meglio.


Chi ha dovuto lottare a lungo per uscire dal canale del parto diventerà un adulto che non si ferma davanti a nulla e affronta le sfide con coraggio perché sa di poterne uscire vincitore, ma sarà anche un “attivista”, che si sfinisce perché non sa concedersi un po’ di meritato riposo…


Chi, al contrario, è stato estratto fuori dall’utero perché non riusciva a trovare la via di uscita, porterà dentro di sé un senso di impotenza e di scoraggiamento di fronte alle difficoltà, che sentirà di non poter superare da solo.


Il bambino nato con taglio cesareo avrà quasi sempre difficoltà di addormentamento: il passaggio nel sonno gli ricorderà quello dell’anestesia al momento della sua venuta al mondo, che gli ha fatto vivere uno stato di scollegamento dall’energia materna con conseguente paura di perdere la mamma… La favola della Bella addormentata nel bosco per lui potrà avere una valenza terapeutica.


Chi ha sofferto per un’ipossia al momento della nascita, si sentirà facilmente soffocare nei luoghi chiusi (che gli ricordano il canale del parto), come l’ascensore, i tunnel o l’aeroplano, e potrà avere problemi di claustrofobia.

La sua espressione metaforica, in caso per esempio di relazioni opprimenti, sarà “Non mi lascia respirare!”


Un bambino nato con un parto indotto (ma spesso anche un parto prematuro) porta in genere con sé una grande rabbia: la collera di essere stato pressato e spinto fuori con forza quando magari non era ancora pronto. Spesso e volentieri questo bimbo soffrirà di reflusso esofageo, che simbolicamente esprime un senso di rifiuto.


Sarà un bambino che andrà preso con le pinze, trattato con delicatezza, dandogli sempre l’impressione di poter scegliere, perlomeno tra due alternative. Guai a fargli fretta la mattina al risveglio per andare a scuola!

Ogni pressione esterna gli riattiverà la memoria della modalità della sua nascita…


Chi nasce podalico non ha in genere una gran voglia di venire al mondo: si tratta di bambini che fanno fatica a lasciare la dimensione spirituale da cui provengono e a staccarsi dalla mamma. Da grandi tenderanno a “complicarsi la vita incastrandosi in situazioni dalle quali non sembrano in grado di uscire da soli”20 .


Chi invece arriva col cordone attorcigliato intorno al collo forse ha avuto un ripensamento all’ultimo minuto… Quando crescerà avrà di solito problemi con i vestiti stretti e i colli alti e a ogni costrizione si sentirà facilmente soffocare.

Un bambino molto grosso può avere paura, nascendo, di far male alla madre rischiando di “romperla”… Mi è capitato un caso di un adulto in cui è emerso questo vissuto che si è poi riflesso nella relazione con la compagna: non riusciva a lasciarla perché temeva si potesse “rompere”, proprio come la mamma al momento della sua nascita.


Un parto oltre il termine previsto può stare a indicare o che il bambino non ha voglia di nascere o che la madre non si sente pronta a ricevere e ad occuparsi della nuova creatura.


Il parto prematuro, in cui il feto si ritrova improvvisamente catapultato nel mondo quando non è ancora pronto per affrontarlo, ha molti effetti dannosi, ma si parla di rado del trauma psichico legato a questo tipo di nascita.


Il vissuto di un bambino nato pretermine per una problematica materna (e non sempre è questa la motivazione) sarà quello di chi si sente rifiutato e cacciato di casa, come un ospite poco gradito. “Vattene, non ti voglio!” sarà la sua percezione inconscia.


Il successivo ricovero in terapia intensiva o in neonatologia non farà altro che esacerbare il trauma di separazione dalla mamma e aumentare la paura e il senso di solitudine della piccola creatura, impotente e indifesa.


In genere le persone nate premature hanno problemi con i confini e i limiti, perché è mancato loro il contenimento dell’utero negli ultimi mesi di gestazione: fanno fatica a sentire dove finisce il proprio corpo e il proprio spazio personale. Questo poi si può riflettere da adulti in problematiche a livello di relazioni: fin dove può arrivare l’altro? Sono in grado di mettere paletti e farmi rispettare?


Il trauma però le ha rese forti e resilienti: sanno affrontare prove difficili e sottoporsi a sforzi estremi perché l’hanno già fatto appena nati e ne sono usciti vincitori. Sono dei sopravvissuti e quindi, proprio come il piccolo Kirikù, dei veri eroi.


La modalità del processo di nascita rimane registrata nelle nostre cellule e potrà essere riattivata ogni volta che ci troveremo a vivere situazioni che ce la ricordano (per esempio viaggi, divorzi, lutti, incidenti, interventi chirurgici o semplicemente scadenze di lavoro che ci mettono “sotto pressione”).


L’insorgenza di sensazioni improvvise di malessere, per esempio, può essere riconducibile al brusco passaggio da una situazione di benessere come quella intrauterina a una condizione di pericolo di vita al momento del parto o del post-parto, in cui per il bambino tutto è cambiato nel giro di pochi minuti, da un momento all’altro.


Si è visto che l’angoscia che si accompagna ai traumi di nascita ha un forte impatto su tutti i processi di cambiamento e di separazione che ci si ritrova poi a vivere nel corso della propria esistenza: se abbiamo avuto un parto difficile faremo fatica in tutte le fasi di transizione, quelle che ci invitano a oltrepassare una soglia.


Come ci ricorda Jodorowsky “Tutte queste nascite deformate provocano un’ulteriore angoscia: quella di non saper lasciare un mondo per un altro.

La persona nata prematuramente o in ritardo, con il parto cesareo o il forcipe, con il cordone ombelicale arrotolato intorno al collo, nei momenti chiave della sua vita, quando dovrà rinascere a una situazione nuova, sperimenterà l’angoscia del neonato partorito male, che non ha potuto passare da una realtà all’altra senza soffrire. Magari tale persona, per evitare di riprodurre le circostanze della propria nascita, nel corso della vita si organizzerà in modo da non rivivere mai più nessun cambiamento, per allontanare il rischio di rivivere l’angoscia intollerabile associata all’idea di nascita21 .

Parole, vi assicuro, profondamente veritiere.


Non escludo che sia per questo motivo che in Occidente – dove la nascita è oltremodo medicalizzata – la morte è diventata un tabù e la più grande paura che attanaglia l’essere umano. Non così infatti viene vissuta nelle culture tradizionali di tutto il mondo, dove essa è considerata un evento naturale proprio come quello della nascita.


Mi unisco ancora una volta a Jodorowsky nell’affermare che “Tutte le deformazioni della gestazione e della nascita vanno contro lo slancio vitale del bambino. Alcune teorie psicanalitiche e alcune correnti buddhiste sostengono che l’infelicità primaria sia quella di essere nati. Invece noi sosteniamo che l’infelicità primaria sia non aver provato l’immensa gioia di nascere, per colpa delle ripetizioni nevrotiche dell’albero genealogico22 e – aggiungo io – per le interferenze inutili e dannose tipiche dell’ambiente ipermedicalizzato della nostra società occidentale.


Ecco perché una preparazione adeguata e un’attenzione particolare alle condizioni in cui avviene il processo del parto è uno degli investimenti migliori che si possano fare per il futuro delle prossime generazioni.


Ed ecco perché, per esempio, anche Maria Montessori sosteneva il parto in casa: “Io sono contraria all’idea che un bambino nasca in ospedale”23 , affermò in una conferenza a Londra nel 1946. Parole sicuramente rivoluzionarie per quei tempi! E ancora aggiungeva: “La madre viene portata via dalla propria casa per far nascere suo figlio, eppure gli ospedali sono fatti per i malati, per cui questo bambino che sta per nascere viene trattato come se fosse una malattia. Il parto è un fenomeno naturale”24 .


E andrebbe vissuto quindi, allorché non ci sono condizioni di patologia che possono mettere a rischio la vita della mamma e del bambino, in un ambiente il più possibile caldo e accogliente, come quello familiare. Perché ogni interferenza inutile è dannosa e può bloccarne il processo e l’esito, come ben sanno tante mamme che, al pari di me, hanno vissuto entrambe le esperienze, di un parto in ospedale e di uno a casa: la differenza è abissale! E nel primo caso si perde spesso tutta la sacralità della nascita.

Accoglienza al neonato, ovvero il primo benvenuto al mondo

Insieme alla vita prenatale, l’accoglienza al neonato è sicuramente il tema che più mi sta a cuore (e anche quello a cui ho dedicato la mia tesi di laurea).


Perché è il luogo del mio trauma. E siccome ogni ferita contiene un dono, ecco che esso è diventato il mio cavallo di battaglia: ho sempre cercato attraverso i miei libri, i seminari, le conferenze, di far comprendere ai genitori, agli educatori e agli operatori sanitari quanto sia importante questa fase della vita umana che è il nostro primo incontro col mondo.


«Per lunghi secoli – scrive il neonatologo francese J.P. Relier – la civiltà occidentale non ha mai preso in considerazione il neonato. Senza dubbio questi ultimi anni hanno visto manifestarsi, alla fine, le premesse di una comprensione per ciò che rappresenta la vita, ma la scienza, portando all’estremo un materialismo dominante, preferisce ancora perfezionare le macchine piuttosto che aiutare la vita nel suo divino progetto di perfezione».25


Pensate, per esempio, a quanto succedeva una volta nelle sale parto: appena fuoriuscito dal ventre materno il neonato veniva preso per i piedi, capovolto a testa in giù e sculacciato! Provate solo per un attimo a mettervi nei suoi panni e vi renderete conto di quanta sofferenza era racchiusa in questo gesto la cui violenza è passata per tanto tempo inosservata. Immaginate cosa potesse provare una creatura, rimasta per nove mesi raggomitolata su di sé in un luogo morbido e caldo, nel subire un forte ed improvviso stiramento alla schiena…


E cosa può aver introiettato quel piccolo essere al suo ingresso nel mondo se non un senso di colpa, visto che la prima reazione dell’adulto alla sua nascita è stata una sonora sculacciata? Il primo atto di libertà di un essere umano – per gli individui prima e fino alla mia generazione – veniva associato a un gesto di violenza fisica. “Se nasco e vivo, vengo punito”: ecco la probabile credenza che portava con sé questo tipo di accoglienza.


Le foto nel famoso libro di Leboyer26 mostrano inequivocabilmente la collera e il dolore del neonato, che, così trattato, strizza gli occhi e con i pugni stretti si tocca le tempie, in un illusorio tentativo di autoprotezione.


Oggi per fortuna questa pratica inutile e dannosa è stata abbandonata, ma altre ancora persistono: la puntura sul tallone, il collirio antibiotico negli occhi, la pesata su una fredda bilancia di ferro in posizione supina, l’uso spropositato di sondini rettali.


Sembrano gesti banali ma andrebbero rivisti con gli occhi del neonato e analizzati uno per uno per poterli effettuare nel modo per lui più accettabile e meno doloroso: la puntura sul tallone (che secondo la medicina tradizionale cinese è tra l’altro proprio il punto del radicamento!) andrebbe effettuata per esempio col piccolo in braccio alla madre o attaccato al seno; la somministrazione del collirio negli occhi – se proprio necessaria – andrebbe almeno posticipata di un po’, in quanto offusca la vista e impedisce il primo contatto visivo con la mamma, così importante per il bambino; la bilancia di metallo potrebbe essere sostituita con una di stoffa appesa, come quelle che usano le ostetriche nei parti in casa o nelle Case maternità. Infine bisognerebbe spiegare ai genitori che l’uso del sondino rettale non dev’essere una pratica di routine ma solo una soluzione in caso di effettiva necessità perché si tratta di una manovra invasiva, che va a toccare la sfera più intima e potrebbe essere vissuta addirittura come un’esperienza di abuso sessuale.


Diceva Maria Montessori “Se il neonato possiede una propria vita psichica, venire al mondo dev’essere un’esperienza impressionante e molto difficile.

Il piccolo deve fare uno sforzo enorme. Non dobbiamo considerarlo un bambino, bensì un uomo che ha appena attraversato il momento più difficile della sua vita” e pertanto “dobbiamo essere molto premurosi e saggi”, “dobbiamo accoglierlo con amore e rispetto” e non con freddezza e noncuranza, “come se si trattasse di un pezzo di carne dal macellaio27 .


Parole forti e provocatorie, queste della Montessori, ma terribilmente vere.

Un nuovo spirito è entrato nel mondo e dobbiamo aiutarlo ad adattarsi al suo nuovo ambiente”28 : questo è il compito dell’adulto che si prende cura di lui.


Ancora scriveva la Montessori: “Quando nasce un bambino tutti si preoccupano della madre: si dice che la madre ha sofferto. Ma il bambino non ha pure sofferto?”29 Eppure egli viene maneggiato in modo frettoloso, senza speciali riguardi, da mani “senz’anima” ed “esposto all’urto brutale delle cose solide”30 .


L’accoglienza che riceve il neonato subito dopo il parto gli dà un’idea di com’è il nuovo ambiente in cui si è trovato, da un momento all’altro, catapultato dentro: dopo la separazione della nascita questo piccolo naufrago ha bisogno di ritrovare “terra”, cioè il corpo della mamma che lo sostiene e lo contiene.

La parola che in ebraico designa la “maternità” è “imahut”, che significa “Isola dell’essenza”: una definizione bellissima, a mio avviso, che ci dà l’idea di cosa rappresenti la mamma per un neonato.


Pensiamo ora a un bambino separato dalla madre a causa di patologie importanti o per prematurità: è come una pianticella strappata alle sue radici. Se il piccolo non sente la connessione con la mamma va letteralmente in panico, perché si sente scollegato dal Cielo (da cui è sceso) e dalla Terra (a cui è giunto) e quindi dall’esistenza stessa. Se un neonato non viene toccato, accarezzato con dolcezza, non si sente amato: non basta dirgli che gli si vuole bene, perché per lui l’affetto passa attraverso il contatto fisico.


Basta il calore di una mano poggiata sulla sua schiena a farlo sentire sostenuto: personalmente me ne sono resa conto da adulta, durante un trattamento di Jin Shin Do e ho compreso – perché l’ho provato – cosa vuol dire l’holding di cui ha tanto parlato Winnicott. Sentirsi con-tenuti e sos-tenuti, subito dopo la nascita, è fondamentale per sviluppare un senso di fiducia nella Vita, e percepire che essa, proprio come una madre amorevole, ci ama e ci sorregge.


“Le prime 16-17 ore di vita determinano l’esistenza” – afferma lo svedese N. Bergman, specialista in neuroscienze perinatali. Ecco perché, egli continua, “la diade madre-bambino non dovrebbe essere separata alla nascita o da allora in poi. La connessione emotiva costante e ininterrotta (tra mamma e bambino) è la pietra angolare dello sviluppo, che porta a una resilienza capace di durare per tutta la vita.

La separazione tra madre e bambino dopo il parto e durante il primo periodo critico crea uno stress “tossico” che provoca cambiamenti ormonali, metabolici e mentali negativi sulla salute e la durata della vita di un individuo. Invece, permettere a madre e figlio di rimanere in contatto pelle a pelle durante quei primi minuti dopo la nascita, fa sì che i circuiti neurali dell’intelligenza emotiva si colleghino tra loro; in particolare l’amigdala (il cervello emotivo) entra in connessione con il lobo prefrontale (cervello sociale). Se mamma e figlio vengono separati subito dopo la nascita, il cervello del neonato percepisce che questo mondo è un luogo difficile, e invece del circuito dell’ossitocina, si attiverà quello del cortisolo, ormone dello stress e dell’aggressività31 .


Poco si pensa in genere a ciò che prova, per esempio, un neonato chiuso dentro ad un’incubatrice: di questa si vede solo la funzione terapeutica ma poco si valuta l’impatto emozionale che la stessa ha sul bambino.


La culla termica è una scatola di vetro e di metallo che protegge il piccolo nato pretermine e lo mantiene alla giusta temperatura ma è anche una piccola prigione per lui, che si ritrova privato di ogni stimolazione sensoriale e ogni contatto. Solo, senza che nessuno gli parli o lo tocchi dolcemente, si sente smarrito, perso in un mondo senza confini e senza luce (se non quella artificiale e fredda dei neon), in cui non ha la percezione del proprio corpo perché per lui la sensazione è “io sono se tu sei” ma il tu per lui non c’è…


In queste condizioni, il neonato prematuro vive quello che Lacan definisce “l’abbandono assoluto”: uno stato di solitudine esistenziale, di crollo psichico in cui si sente lasciato cadere, senza sostegno alcuno, e frammentato, come se il corpo andasse in mille pezzi. Perché per lui non “esiste possibilità di vita umana senza la presenza dell’Altro”32 .


Oltre a ciò, un piccolo pretermine – o un bambino nato con qualche patologia – è in genere sottoposto a manovre dolorose, come prelievi, punture, intubazioni, e il suo corpicino così minuto e fragile, la sua pelle così delicata, quasi trasparente, ne risentono più che mai: la sensazione di invasione, di minaccia, di tortura è molto forte e rimarrà sepolta nel suo inconscio, pronta a riattivarsi magari quando da grande sarà esposto a procedure simili (come per esempio le manovre del dentista…).


È facile comprendere come chi “ha trascorso settimane in ospedale, circondato da macchine rumorose e altri neonati che piangono, non si sentirà al sicuro in questo mondo”33 . La reazione automatica sarà quella di contrarre l’intero organismo e bloccare così le emozioni e il pianto, provocando una tensione, in particolare dei muscoli della gola. Come scrive T. Harms, “la contrazione della muscolatura e del tessuto connettivo è, da un lato, la manifestazione fisica della mancanza di relazione, dall’altro una strategia di sopravvivenza per compensare il senso di insicurezza e pericolo34 .


A volte, dopo una lunga separazione traumatica, il neonato si chiude, isolandosi dal resto del mondo, evitando il tocco e la vicinanza fisica perfino della mamma o del papà, che naturalmente si sentiranno rifiutati e ne saranno molto addolorati, non comprendendone la motivazione.


Crescendo, questi sarà un bambino o un adulto cauto nelle relazioni, che spesso rifiuterà il contatto con gli sconosciuti, perché dai primi esseri umani che ha incontrato quando è atterrato in questo mondo si è sentito tradito e mal-trattato. Potrà essere una persona che, per un inconscio meccanismo di difesa, si escluderà e si nasconderà dagli altri (al cui affetto anela ardentemente), temendo di essere nuovamente abbandonato.


Oppure sarà un bambino affamato di contatto, che lo cercherà per tutta la sua vita e sarà disposto a sacrificare parti di sé pur di ottenerne anche solo qualche misera briciola… Potrebbero essere sue le parole di una famosa canzone di un cartone della Disney, Il libro della giungla, il cui protagonista, Mowgli, non per nulla è un bambino orfano, sopravvissuto nella foresta indiana: “Ti bastan poche briciole, lo stretto indispensabile, e i tuoi malanni puoi dimenticar… In fondo basta il minimo, quel tanto che occorre per campar…” canta l’orso Baloo, esplicitando il vissuto di ogni individuo che ha sperimentato l’abbandono, come un neonato prematuro o ospedalizzato per qualche patologia.


In ogni caso, quando sarà grande, questo piccolo eroe, venuto al mondo “ostinato come un metallo e sfinito come un naufrago35 , sarà chiamato ad elaborare la sua storia, a ricucire la ferita e a trasformare il trauma in risorsa e in dono. Pena il rimanere con un buco profondo e un senso di vuoto che nulla di esterno potrà mai colmare.


Ma poiché è meglio prevenire che curare, ecco che offrire le migliori condizioni di accoglienza ad un neonato si rivela assolutamente fondamentale.


Basterebbe poco (nei casi in cui va tutto bene e non ci sono patologie in atto): per esempio lasciare la piccola creatura sul corpo della mamma, così che possa, con i suoi tempi, autonomamente arrivare al seno. Questa pratica, chiamata “breast-crawling”, consentirebbe al neonato di ritrovare subito il contatto materno, quello che immaginava, dopo il parto, di aver perduto…


Quando la si mette in atto si nota un fenomeno molto interessante: nel primo quarto d’ora di vita il piccolo non cerca il seno (e quindi il cibo) ma lo sguardo della mamma, che per lui dunque rappresenta il primo nutrimento!


Sarebbe importante poi non tagliare subito il cordone ombelicale, per offrire al bambino un atterraggio più dolce, per dargli il tempo di instaurare con calma la respirazione, godendo ancora di un po’ di ossigeno materno.


L’ideale sarebbe addirittura di non tagliare affatto il cordone ma di aspettare che si secchi da solo, lasciando il neonato attaccato alla sua placenta: è il cosiddetto “Lotus birth”, la pratica di nascita in assoluto più rispettosa del bambino.


I piccoli nati in questo modo sono speciali: hanno una capacità di concentrazione straordinaria e una grande sicurezza e serenità, perché hanno vissuto la prima grande separazione al tempo giusto, quello previsto dalla natura e non dal protocollo stabilito da un individuo in camice bianco.


Anche nei casi di nascite difficili si potrebbero comunque offrire degli aiuti, con un po’ di attenzione e qualche piccolo accorgimento: per esempio ai neonati prematuri si potrebbe far sentire la voce registrata della mamma o una musica che li rassereni, si potrebbe mettere dentro all’incubatrice una piccola amaca (come hanno fatto in alcuni ospedali del Brasile) o avvolgerli in una morbida copertina per farli sentire contenuti. E, ogni volta che è possibile, bisognerebbe praticare la marsupioterapia: lasciarli cioè, avvolti da una fascia, a contatto pelle-pelle con la mamma (o il papà). Questa strategia semplicissima permette infatti ai piccoli pollicini di sentirsi rassicurati e protetti e quindi aumenta le loro difese immunitarie e li aiuta a crescere meglio e più velocemente.


E quando torneranno finalmente a casa, mettere un salsicciotto morbido nella loro culla, che dia loro il senso del contatto e del confine, può essere un’idea vincente. Quando poi saranno un po’ più grandicelli, un cuscinone-pouf, in cui sprofondare come in un morbido abbraccio, sarà un regalo utile e sicuramente graditissimo!


A un neonato basta veramente molto poco per essere felice: offrirgli quanto ci chiede è il primo passo per cambiare il mondo.

Dal grembo dello Spirito al linguaggio del corpo

Ciò di cui mi sono resa conto, dopo tanti anni di lavoro interiore, è che il vero trauma di un neonato è la separazione dalla Fonte: la mamma per lui non è altro che il riflesso terreno di quell’amore divino che ha sperimentato in un’altra dimensione, quella da cui proviene. È quell’amore che lui cerca quando guarda in su, verso la luce, è per la perdita di quell’amore che lui piange inconsolabile. Perché il neonato è – come ci ricorda J.M. Delassus – “qualcuno che viene al mondo con nella testa, in tutte le fibre del suo corpo, l’idea e l’esperienza della vita assoluta”36 . “Egli nasce da questa anteriorità definitiva che è all’origine dello spirito”37 .


E se da adulto farà fatica ad affidarsi alla Sorgente38 , sarà perché, quand’era troppo piccino per serbarne memoria cosciente, aveva perso la fiducia nella Vita, non essendo stato accolto come si sarebbe aspettato e avrebbe voluto.

Quando il nostro atterraggio su questo pianeta è stato un po’ difficoltoso, rimane in noi la sensazione – peraltro errata – di aver perso il contatto con la Fonte: è come se pensassimo che è stato tagliato quel cordone invisibile che ci lega all’Anima, al nostro Sé superiore. Ma non è così. Perché quel legame dura finché abbiamo vita, fino al nostro ultimo respiro. Ridiventarne coscienti e consapevoli richiede spesso una lunga ricerca e un faticoso lavoro interiore, ma quando questo accade ecco che ci può dare finalmente quel senso di pace e sicurezza che abbiamo cercato per anni invano.


Ecco perché Maria Montessori auspicava la necessità di “specialisti nel trattamento del neonato39 , cioè operatori formati ad accogliere la nuova vita e a svilupparne le potenzialità. Ma per far ciò, lei diceva, occorre una “preparazione spirituale”, perché queste persone dovranno prendersi cura della misteriosa psiche del bambino, nella consapevolezza che quella piccola creatura che hanno davanti è molto più di un piccolo corpo che necessita di essere nutrito, lavato e vestito: quell’esserino che appare così fragile è in realtà “uno spirito che si è racchiuso nella carne per venire a vivere nel mondo”40 .


E l’adulto deve imparare a interpretarne il linguaggio, che è prettamente corporeo: gli anglosassoni lo definiscono “Baby-body language”.

“Solo se i genitori sono in grado di decifrare il suo linguaggio corporeo, riescono a gettare un “ponte” verso il suo mondo interiore”, ci ricorda lo psicologo T. Harms.


Il neonato parla una lingua tutta sua, che non è fatta di parole ma di gesti e suoni, eppure, se siamo capaci di osservarlo, può raccontarci la sua storia, quella della sua vita prenatale o dei suoi traumi di nascita.


Secondo Ray Castellino, i neonati si muovono e si comportano nel modo in cui sono venuti alla luce e a volte emettono addirittura suoni simili a quelli delle loro madri durante il travaglio.


Per esempio, i bambini possono toccare aree specifiche della loro testa per indicare dove è avvenuta la compressione contro la pelvi materna durante il parto; possono scuotere la testa lateralmente per indicare il movimento a zig zag che hanno compiuto durante la fase due del travaglio; oppure possono toccarsi l’area intorno all’ombelico (o rifiutare il nostro tocco in questa zona) per dirci qualcosa che riguarda il periodo prenatale o ancora battersi la fronte con la manina per raccontarci del difficile momento dell’impianto nell’utero o l’area del cuore per parlarci del momento della scoperta, quello in cui la mamma per la prima volta ha saputo di essere incinta.


Ciò che è importante è osservare, ascoltare e onorare la storia di ogni neonato, perché è questo che egli ci chiede. Il suo è stato il viaggio di un eroe e come tale merita di essere raccontato, ri-narrato, come richiedono tutte le grandi gesta.


Ecco perché ho sempre cercato di parlare ai neonati che mi venivano portati in consultazione, sussurrando loro parole di conforto ma anche di apprezzamento e riconoscimento: “È stato difficile, lo so, io ti capisco, e ora sei addolorato e arrabbiato, ma è tutto finito, puoi star tranquillo, ora sei qui con la tua mamma e va tutto bene”…


E, al contempo, cercavo di spiegare ai genitori come interpretare i diversi tipi di pianto del loro piccolino. Perché c’è un “pianto di bisogno” e un “pianto di memoria”: se il primo è facilmente consolabile attaccando il bambino al seno o cambiandogli il pannolino sporco, il secondo può mettere a dura prova i nervi di qualsiasi madre o padre, anche dei migliori…


Si tratta del pianto straziante e disperato tipico delle cosiddette “coliche gassose”, che altro non sono se non piccoli attacchi di panico, memorie di momenti in cui il bambino si è sentito sopraffatto o durante la vita prenatale o durante il parto. Ecco perché le coliche non sembrano calmarsi con nessuna delle tante strategie messe in atto da una mamma e un papà peraltro estremamente amorevoli…


Purtroppo il neonato è troppo piccolo per raccontarci la sua sofferenza e “non può esprimere i suoi ricordi con delle parole, ma soltanto con delle lacrime”41 : ecco perché queste andrebbero sempre accolte con tenerezza ed empatia, senza volerle stoppare a tutti i costi (magari con un succhiotto che tappa la bocca), ma cercando di comprenderne il senso e accogliendole con amore.


E anche riflettendo e cercando di “sentire” cosa riattivano in noi: perché non c’è nulla di più adatto delle urla di un neonato per richiamare alla memoria il nostro stesso dolore di quell’epoca precoce della vita.


Ma non solo il pianto in un neonato deve suscitare la nostra attenzione. Anche il sonno, se eccessivamente prolungato, può essere sintomo di un mal-essere e diventare una fuga da una realtà troppo difficile da sostenere.


“… di qui la grande cura che si dovrebbe avere dell’ambiente che circonda il neonato per facilitargliene l’assorbimento, affinché il bambino non sviluppi attitudini di regressione e si senta attratto invece che respinto dal mondo in cui è entrato42 , scriveva Maria Montessori, che aveva fatto dell’osservazione del bambino la sua missione di vita. Un ambiente che dovrebbe quindi aiutare il neonato ad adattarsi a quel grande cambiamento – il passaggio dall’acquatico grembo materno alla vita su questo pianeta – che “è di per sé spaventoso, come passare dalla terra alla luna”43 .


Ecco che allora le pratiche di maternage, di cui parleremo nel prossimo capitolo, possono aiutare a compiere nel migliore dei modi questa non facile transizione.

La salute dei bambini
La salute dei bambini
Elena Balsamo
Come aiutarli a crescere felici Le questioni fondamentali riguardanti la salute dei bambini, affrontate in un’ottica olistica per offrire ai genitori le competenze necessarie a svolgere il grande compito che li attende. Elena Balsamo riassume in questo libro i temi più importanti riguardanti la salute dei bambini in un’ottica olistica e offre ai genitori il suo bagaglio di esperienza di tanti anni di pratica pediatrica con i più piccoli. Soprattutto, però, cerca di trasmettere il messaggio che più le sta a cuore: nel periodo perinatale è racchiuso il segreto della salute!Questo suo lavoro, intitolato La salute dei bambini, si pone quindi anche un fine educativo, per rendere i genitori sempre più consapevoli del grande compito che li attende per il quale occorre una rigorosa preparazione. Ecco perché prima di educare i bambini bisognerebbe educare gli adulti che se ne fanno custodi.Una lettura semplice e agevole che può, attraverso la sensibilizzazione dei grandi, aiutare i piccoli a crescere felici.