Accoglienza al neonato, ovvero il primo benvenuto al mondo
Insieme alla vita prenatale, l’accoglienza al neonato è sicuramente il tema che più mi sta a cuore (e anche quello a cui ho dedicato la mia tesi di laurea).
Perché è il luogo del mio trauma. E siccome ogni ferita contiene un dono, ecco che esso è diventato il mio cavallo di battaglia: ho sempre cercato attraverso i miei libri, i seminari, le conferenze, di far comprendere ai genitori, agli educatori e agli operatori sanitari quanto sia importante questa fase della vita umana che è il nostro primo incontro col mondo.
«Per lunghi secoli – scrive il neonatologo francese J.P. Relier – la civiltà occidentale non ha mai preso in considerazione il neonato. Senza dubbio questi ultimi anni hanno visto manifestarsi, alla fine, le premesse di una comprensione per ciò che rappresenta la vita, ma la scienza, portando all’estremo un materialismo dominante, preferisce ancora perfezionare le macchine piuttosto che aiutare la vita nel suo divino progetto di perfezione».25
Pensate, per esempio, a quanto succedeva una volta nelle sale parto: appena fuoriuscito dal ventre materno il neonato veniva preso per i piedi, capovolto a testa in giù e sculacciato! Provate solo per un attimo a mettervi nei suoi panni e vi renderete conto di quanta sofferenza era racchiusa in questo gesto la cui violenza è passata per tanto tempo inosservata. Immaginate cosa potesse provare una creatura, rimasta per nove mesi raggomitolata su di sé in un luogo morbido e caldo, nel subire un forte ed improvviso stiramento alla schiena…
E cosa può aver introiettato quel piccolo essere al suo ingresso nel mondo se non un senso di colpa, visto che la prima reazione dell’adulto alla sua nascita è stata una sonora sculacciata? Il primo atto di libertà di un essere umano – per gli individui prima e fino alla mia generazione – veniva associato a un gesto di violenza fisica. “Se nasco e vivo, vengo punito”: ecco la probabile credenza che portava con sé questo tipo di accoglienza.
Le foto nel famoso libro di Leboyer26
mostrano inequivocabilmente la collera e il dolore del neonato, che, così trattato, strizza gli occhi e con i pugni stretti si tocca le tempie, in un illusorio tentativo di autoprotezione.
Oggi per fortuna questa pratica inutile e dannosa è stata abbandonata, ma altre ancora persistono: la puntura sul tallone, il collirio antibiotico negli occhi, la pesata su una fredda bilancia di ferro in posizione supina, l’uso spropositato di sondini rettali.
Sembrano gesti banali ma andrebbero rivisti con gli occhi del neonato e analizzati uno per uno per poterli effettuare nel modo per lui più accettabile e meno doloroso: la puntura sul tallone (che secondo la medicina tradizionale cinese è tra l’altro proprio il punto del radicamento!) andrebbe effettuata per esempio col piccolo in braccio alla madre o attaccato al seno; la somministrazione del collirio negli occhi – se proprio necessaria – andrebbe almeno posticipata di un po’, in quanto offusca la vista e impedisce il primo contatto visivo con la mamma, così importante per il bambino; la bilancia di metallo potrebbe essere sostituita con una di stoffa appesa, come quelle che usano le ostetriche nei parti in casa o nelle Case maternità. Infine bisognerebbe spiegare ai genitori che l’uso del sondino rettale non dev’essere una pratica di routine ma solo una soluzione in caso di effettiva necessità perché si tratta di una manovra invasiva, che va a toccare la sfera più intima e potrebbe essere vissuta addirittura come un’esperienza di abuso sessuale.
Diceva Maria Montessori “Se il neonato possiede una propria vita psichica, venire al mondo dev’essere un’esperienza impressionante e molto difficile.
Il piccolo deve fare uno sforzo enorme. Non dobbiamo considerarlo un bambino, bensì un uomo che ha appena attraversato il momento più difficile della sua vita” e pertanto “dobbiamo essere molto premurosi e saggi”, “dobbiamo accoglierlo con amore e rispetto” e non con freddezza e noncuranza, “come se si trattasse di un pezzo di carne dal macellaio”27
.
Parole forti e provocatorie, queste della Montessori, ma terribilmente vere.
“Un nuovo spirito è entrato nel mondo e dobbiamo aiutarlo ad adattarsi al suo nuovo ambiente”28
: questo è il compito dell’adulto che si prende cura di lui.
Ancora scriveva la Montessori: “Quando nasce un bambino tutti si preoccupano della madre: si dice che la madre ha sofferto. Ma il bambino non ha pure sofferto?”29
Eppure egli viene maneggiato in modo frettoloso, senza speciali riguardi, da mani “senz’anima” ed “esposto all’urto brutale delle cose solide”30
.
L’accoglienza che riceve il neonato subito dopo il parto gli dà un’idea di com’è il nuovo ambiente in cui si è trovato, da un momento all’altro, catapultato dentro: dopo la separazione della nascita questo piccolo naufrago ha bisogno di ritrovare “terra”, cioè il corpo della mamma che lo sostiene e lo contiene.
La parola che in ebraico designa la “maternità” è “imahut”, che significa “Isola dell’essenza”: una definizione bellissima, a mio avviso, che ci dà l’idea di cosa rappresenti la mamma per un neonato.
Pensiamo ora a un bambino separato dalla madre a causa di patologie importanti o per prematurità: è come una pianticella strappata alle sue radici. Se il piccolo non sente la connessione con la mamma va letteralmente in panico, perché si sente scollegato dal Cielo (da cui è sceso) e dalla Terra (a cui è giunto) e quindi dall’esistenza stessa. Se un neonato non viene toccato, accarezzato con dolcezza, non si sente amato: non basta dirgli che gli si vuole bene, perché per lui l’affetto passa attraverso il contatto fisico.
Basta il calore di una mano poggiata sulla sua schiena a farlo sentire sostenuto: personalmente me ne sono resa conto da adulta, durante un trattamento di Jin Shin Do e ho compreso – perché l’ho provato – cosa vuol dire l’holding di cui ha tanto parlato Winnicott. Sentirsi con-tenuti e sos-tenuti, subito dopo la nascita, è fondamentale per sviluppare un senso di fiducia nella Vita, e percepire che essa, proprio come una madre amorevole, ci ama e ci sorregge.
“Le prime 16-17 ore di vita determinano l’esistenza” – afferma lo svedese N. Bergman, specialista in neuroscienze perinatali. Ecco perché, egli continua, “la diade madre-bambino non dovrebbe essere separata alla nascita o da allora in poi. La connessione emotiva costante e ininterrotta (tra mamma e bambino) è la pietra angolare dello sviluppo, che porta a una resilienza capace di durare per tutta la vita.
La separazione tra madre e bambino dopo il parto e durante il primo periodo critico crea uno stress “tossico” che provoca cambiamenti ormonali, metabolici e mentali negativi sulla salute e la durata della vita di un individuo. Invece, permettere a madre e figlio di rimanere in contatto pelle a pelle durante quei primi minuti dopo la nascita, fa sì che i circuiti neurali dell’intelligenza emotiva si colleghino tra loro; in particolare l’amigdala (il cervello emotivo) entra in connessione con il lobo prefrontale (cervello sociale). Se mamma e figlio vengono separati subito dopo la nascita, il cervello del neonato percepisce che questo mondo è un luogo difficile, e invece del circuito dell’ossitocina, si attiverà quello del cortisolo, ormone dello stress e dell’aggressività”31
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Poco si pensa in genere a ciò che prova, per esempio, un neonato chiuso dentro ad un’incubatrice: di questa si vede solo la funzione terapeutica ma poco si valuta l’impatto emozionale che la stessa ha sul bambino.
La culla termica è una scatola di vetro e di metallo che protegge il piccolo nato pretermine e lo mantiene alla giusta temperatura ma è anche una piccola prigione per lui, che si ritrova privato di ogni stimolazione sensoriale e ogni contatto. Solo, senza che nessuno gli parli o lo tocchi dolcemente, si sente smarrito, perso in un mondo senza confini e senza luce (se non quella artificiale e fredda dei neon), in cui non ha la percezione del proprio corpo perché per lui la sensazione è “io sono se tu sei” ma il tu per lui non c’è…
In queste condizioni, il neonato prematuro vive quello che Lacan definisce “l’abbandono assoluto”: uno stato di solitudine esistenziale, di crollo psichico in cui si sente lasciato cadere, senza sostegno alcuno, e frammentato, come se il corpo andasse in mille pezzi. Perché per lui non “esiste possibilità di vita umana senza la presenza dell’Altro”32
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Oltre a ciò, un piccolo pretermine – o un bambino nato con qualche patologia – è in genere sottoposto a manovre dolorose, come prelievi, punture, intubazioni, e il suo corpicino così minuto e fragile, la sua pelle così delicata, quasi trasparente, ne risentono più che mai: la sensazione di invasione, di minaccia, di tortura è molto forte e rimarrà sepolta nel suo inconscio, pronta a riattivarsi magari quando da grande sarà esposto a procedure simili (come per esempio le manovre del dentista…).
È facile comprendere come chi “ha trascorso settimane in ospedale, circondato da macchine rumorose e altri neonati che piangono, non si sentirà al sicuro in questo mondo”33
. La reazione automatica sarà quella di contrarre l’intero organismo e bloccare così le emozioni e il pianto, provocando una tensione, in particolare dei muscoli della gola. Come scrive T. Harms, “la contrazione della muscolatura e del tessuto connettivo è, da un lato, la manifestazione fisica della mancanza di relazione, dall’altro una strategia di sopravvivenza per compensare il senso di insicurezza e pericolo”34
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A volte, dopo una lunga separazione traumatica, il neonato si chiude, isolandosi dal resto del mondo, evitando il tocco e la vicinanza fisica perfino della mamma o del papà, che naturalmente si sentiranno rifiutati e ne saranno molto addolorati, non comprendendone la motivazione.
Crescendo, questi sarà un bambino o un adulto cauto nelle relazioni, che spesso rifiuterà il contatto con gli sconosciuti, perché dai primi esseri umani che ha incontrato quando è atterrato in questo mondo si è sentito tradito e mal-trattato. Potrà essere una persona che, per un inconscio meccanismo di difesa, si escluderà e si nasconderà dagli altri (al cui affetto anela ardentemente), temendo di essere nuovamente abbandonato.
Oppure sarà un bambino affamato di contatto, che lo cercherà per tutta la sua vita e sarà disposto a sacrificare parti di sé pur di ottenerne anche solo qualche misera briciola… Potrebbero essere sue le parole di una famosa canzone di un cartone della Disney, Il libro della giungla, il cui protagonista, Mowgli, non per nulla è un bambino orfano, sopravvissuto nella foresta indiana: “Ti bastan poche briciole, lo stretto indispensabile, e i tuoi malanni puoi dimenticar… In fondo basta il minimo, quel tanto che occorre per campar…” canta l’orso Baloo, esplicitando il vissuto di ogni individuo che ha sperimentato l’abbandono, come un neonato prematuro o ospedalizzato per qualche patologia.
In ogni caso, quando sarà grande, questo piccolo eroe, venuto al mondo “ostinato come un metallo e sfinito come un naufrago”35
, sarà chiamato ad elaborare la sua storia, a ricucire la ferita e a trasformare il trauma in risorsa e in dono. Pena il rimanere con un buco profondo e un senso di vuoto che nulla di esterno potrà mai colmare.
Ma poiché è meglio prevenire che curare, ecco che offrire le migliori condizioni di accoglienza ad un neonato si rivela assolutamente fondamentale.
Basterebbe poco (nei casi in cui va tutto bene e non ci sono patologie in atto): per esempio lasciare la piccola creatura sul corpo della mamma, così che possa, con i suoi tempi, autonomamente arrivare al seno. Questa pratica, chiamata “breast-crawling”, consentirebbe al neonato di ritrovare subito il contatto materno, quello che immaginava, dopo il parto, di aver perduto…
Quando la si mette in atto si nota un fenomeno molto interessante: nel primo quarto d’ora di vita il piccolo non cerca il seno (e quindi il cibo) ma lo sguardo della mamma, che per lui dunque rappresenta il primo nutrimento!
Sarebbe importante poi non tagliare subito il cordone ombelicale, per offrire al bambino un atterraggio più dolce, per dargli il tempo di instaurare con calma la respirazione, godendo ancora di un po’ di ossigeno materno.
L’ideale sarebbe addirittura di non tagliare affatto il cordone ma di aspettare che si secchi da solo, lasciando il neonato attaccato alla sua placenta: è il cosiddetto “Lotus birth”, la pratica di nascita in assoluto più rispettosa del bambino.
I piccoli nati in questo modo sono speciali: hanno una capacità di concentrazione straordinaria e una grande sicurezza e serenità, perché hanno vissuto la prima grande separazione al tempo giusto, quello previsto dalla natura e non dal protocollo stabilito da un individuo in camice bianco.
Anche nei casi di nascite difficili si potrebbero comunque offrire degli aiuti, con un po’ di attenzione e qualche piccolo accorgimento: per esempio ai neonati prematuri si potrebbe far sentire la voce registrata della mamma o una musica che li rassereni, si potrebbe mettere dentro all’incubatrice una piccola amaca (come hanno fatto in alcuni ospedali del Brasile) o avvolgerli in una morbida copertina per farli sentire contenuti. E, ogni volta che è possibile, bisognerebbe praticare la marsupioterapia: lasciarli cioè, avvolti da una fascia, a contatto pelle-pelle con la mamma (o il papà). Questa strategia semplicissima permette infatti ai piccoli pollicini di sentirsi rassicurati e protetti e quindi aumenta le loro difese immunitarie e li aiuta a crescere meglio e più velocemente.
E quando torneranno finalmente a casa, mettere un salsicciotto morbido nella loro culla, che dia loro il senso del contatto e del confine, può essere un’idea vincente. Quando poi saranno un po’ più grandicelli, un cuscinone-pouf, in cui sprofondare come in un morbido abbraccio, sarà un regalo utile e sicuramente graditissimo!
A un neonato basta veramente molto poco per essere felice: offrirgli quanto ci chiede è il primo passo per cambiare il mondo.