CAPITOLO VI

Educare come atto rivoluzionario

Presto dovremo affrontare la scelta fra ciò che è giusto e ciò che è facile1.

Come genitori, ci troviamo in una posizione molto particolare. Anche se scegliamo di affiancare discretamente i nostri figli con rispetto dei loro sentimenti e bisogni, guidandoli con gentilezza nella loro crescita, la responsabilità resta nostra: la loro vita è nelle nostre mani, e spetta a noi prendere per loro conto innumerevoli decisioni che possono fare la differenza nelle loro vite. Noi siamo il tramite fra i bambini e la società, e ogni giorno mediamo fra i bisogni dei nostri figli e le richieste che ci provengono dalla società. Possiamo farci portavoce dei bambini nei confronti della società, e viceversa della nostra cultura verso i bambini; solo noi abbiamo la piena responsabilità e libertà nel decidere in quale misura tenere conto di queste due istanze, che possono a volte anche presentarsi in maniera conflittuale. Possiamo rivolgerci ad esperti (medici, pedagogisti, psicologi, nutrizionisti, eccetera) per avere informazioni e suggerimenti ma, alla fine, la responsabilità della decisione se seguire o meno le loro indicazioni è sempre nostra.


Siamo i custodi di aree particolarmente delicate riguardanti i diritti dei nostri figli: il diritto alla salute, all’educazione, alla sicurezza, al benessere psicologico. E mentre su questi diritti non si discute, può succedere che la nostra visione su quale sia il modo migliore per garantire ai nostri figli la salute, l’educazione, la sicurezza e la felicità non sia condivisa da altri soggetti con i quali condividiamo queste responsabilità: l’altro genitore, insegnanti, giudici, assistenti sociali, lo Stato e le sue leggi o ordinanze. E in questo caso la situazione si fa piuttosto spinosa e sta ancora una volta a noi la responsabilità di come gestire questi conflitti, fin dove spingerci nel difendere ciò che consideriamo la scelta migliore; possiamo cercare di non collidere e di non colludere con chi esercita pressioni per scelte diverse dalle nostre, ma non sempre questo è possibile e allora ci troviamo di fronte a dilemmi etici e morali anche molto impegnativi, dovendo decidere se, in quale misura e fino a quale limite la nostra funzione è quella di educare e attrezzare i nostri figli per il mondo che è, oppure quella di sostenerli in modo che possano essere pienamente se stessi, costruttori del mondo che potrebbe essere.

Riprendiamoci la libertà di pensiero

Quante volte il comportamento dei nostri figli ci provoca un sovraccarico emotivo, spingendoci a reagire in modi nei quali non ci riconosciamo? Quante volte ci sentiamo sopraffatti dalla collera e ci tratteniamo a stento dal reagire in modo violento e irrazionale? Si fa un gran parlare di metodi di “controllo della rabbia”, ma la rabbia non è che la superficie delle emozioni, e queste a loro volta non sono che la via per ricondurci ai nostri bisogni inascoltati. Più che controllare la rabbia abbiamo bisogno di comprenderla ed esplorarla, per non essere più governati da automatismi che altri hanno seminato in noi.


Se mi avete seguito fin qui, spero di aver fornito degli spunti di consapevolezza sul fatto che i nostri pensieri e le nostre scelte sovente sono molto meno liberi di quanto pensiamo. Le forme di condizionamento occulto sono numerose, e hanno radici spesso molto lontane nel tempo; tuttavia, malgrado ciò, la nascita di un figlio è un evento che rimette tutto in gioco e che fornisce una seconda possibilità per ripercorrere la nostra storia e riflettere su ciò che ci ha plasmato, nel bene e nel male, durante la nostra infanzia, e su quanto le nostre vicende personali siano ancora vive in noi e spesso vengano nuovamente “agite” senza che ce ne rendiamo conto. Ma anche nel presente le pressioni per forzare le scelte dei cittadini e influenzare la loro percezione della realtà sono elevate, molteplici e pervasive. In un mondo in cui l’informazione prevale sull’esperienza diretta, è necessario che aumenti anche la nostra vigilanza su questi meccanismi. Le domande che seguono possono offrire spunti utili per aumentare questa consapevolezza e coltivare in noi un maggiore controllo e libertà dei nostri pensieri e delle nostre scelte.

Come mi sento rispetto a questo?

Le dissonanze emotive sono campanelli d’allarme che ci richiedono di prestare attenzione a ciò che sta succedendo dentro e fuori di noi. Per uscire dagli automatismi e dai pensieri condizionati dobbiamo aumentare il nostro livello di attenzione e di osservazione interiore. Soprattutto, ci può venire in aiuto la percezione delle nostre stesse emozioni. Ricordiamoci sempre che, come si è già detto in precedenza, nessuno è responsabile delle nostre emozioni, se non noi stessi. Le emozioni sono l’indicatore che ci informa di quanto ciò che ci succede, o ciò che facciamo, è in sintonia con le nostre aspettative e con i nostri bisogni più profondi. Le emozioni sono il segnale luminoso che ci indica la strada per entrare in contatto con i nostri bisogni. Quando avvertiamo dissonanza fra ciò che stiamo dicendo o pensando, e le emozioni che proviamo, ringraziamo il nostro “sistema interiore di monitoraggio della coerenza”, che ci sta segnalando qualcosa che ha bisogno di uno sguardo più ravvicinato. Mettiamo in pausa, riavvolgiamo un pezzetto di nastro e rivediamolo in un lento replay. Cosa sta succedendo? Che frasi ho pronunciato? Che frasi mi risuonano nella testa? In quale altra occasione ho pronunciato o detto a me stessa queste parole? Oppure, quando le ho ascoltate da altri? In quale altra occasione nella mia vita mi sono sentita così?


Agli automatismi non piace essere osservati in questo modo. Si ritirano in un angolino e diventano silenziosi. E in quel silenzio può emergere qualcosa di più nostro, di più autentico, una connessione con la nostra sensibilità e quella dei nostri figli.

Mi sento sotto giudizio?

Cercare approvazione è un bisogno naturale. I genitori cercano conferme, riconoscimento e apprezzamento per i loro sforzi, e fiducia dai propri genitori e dall’ambiente sociale; proprio per questo possono essere vulnerabili ai giudizi degli altri. Poiché viviamo in una società facile ai giudizi, qualsiasi osservazione ricevuta tocca un nervo scoperto. Ma non sempre un’osservazione costituisce un giudizio o è fatta allo scopo di criticare. Cosa distingue la valutazione dal giudizio? La valutazione è una semplice osservazione, il giudizio è sempre un “Non si deve fare così ma cosà”, che sottintende che chi giudica saprebbe meglio di tutti cosa va bene per questa madre, questo padre, questo bambino. Lo psicologo Marshall Rosenberg, creatore dell’approccio della Comunicazione non violenta, chiarisce molto bene questo punto:


È importante qui evitare di confondere i giudizi di valore con i giudizi moralistici. Tutti esprimiamo giudizi di valore relativi alle qualità che apprezziamo nella vita; ad esempio, potremo apprezzare l’onestà, la libertà o la pace. I giudizi di valore riflettono le nostre convinzioni relativamente ai modi in cui si può servire meglio la vita. Invece, esprimiamo giudizi moralistici sulle persone e sui comportamenti che non rispecchiano i nostri giudizi di valore, ad esempio “La violenza è cattiva. Chi uccide altre persone è malvagio”2.


Il linguaggio giudicante non aiuta noi adulti a essere genitori efficaci. Il giudizio nasce da un sentimento di frustrazione, rammarico o risentimento causato dalla discrepanza fra le nostre aspettative e il comportamento del bambino. Pensare che il bambino non dovrebbe comportarsi in un certo modo o non dovrebbe sentire quello che prova, non ci aiuta a capirne i motivi né ci aiuta a vedere il suo potenziale di cambiamento e neppure a restare aperti ad altre soluzioni che possano soddisfare i bisogni di tutti, senza vinti né vincitori. Se il bambino non soddisfa le nostre aspettative questo non segna un fallimento del genitore. Non c’è bisogno di “trovare colpevoli” o di biasimare qualcuno, ma solo di osservare con rispetto e attenzione, riflettere insieme e soprattutto ascoltare e ascoltarsi. La paura dei giudizi altrui è una pesante cappa inibitoria che tante volte condiziona noi genitori spingendoci ad appiattirci su modalità stereotipate invece di sviluppare il nostro stile unico di essere madre o padre. È bene allora, per liberarci di questo giogo, comprendere che i giudizi qualificano chi li fa, e non chi li riceve. Chi esprime un giudizio sta in realtà dicendo se e quanto ciò che vede è in sintonia con il suo modo di sentire. Non sta dando informazioni su di noi o sui nostri figli, ma su se stesso. Ricordiamocelo sempre, quando andiamo contro corrente e contro i consigli di chi ci dice che stiamo elargendo troppo amore, troppa comprensione, troppa gentilezza.


Invece di leggere le osservazioni degli altri come capi d’accusa, è possibile accoglierle come spunti di riflessione. Fra le righe delle reazioni difensive di tanti genitori si possono leggere esperienze che nel passato li hanno visti colpevolizzati per scelte più o meno sofferte e persino per situazioni che non sono state scelte, ma subite.


E se quei genitori siamo noi, ricordiamoci anche che ciascuno di noi fa sempre il meglio che può, con quello che ha, nella situazione in cui si trova. E che si può sempre migliorare, e andare oltre guardando con compassione alle nostre spalle. La comprensione di questi aspetti non significa svalutare ciò che si è fatto in passato, ma solo collocarlo in un contesto di comprensione più ampio, andare avanti, costruire meglio il futuro.

Di cosa ho paura?

Quando le nostre reazioni sono intense e aggressive, quando la modalità di lotta e fuga è attivata e ci troviamo in preda alla rabbia o all’angoscia, pensiamo a queste emozioni come a una lama di ossidiana, tagliente e lucida, una meravigliosa pietra che risplende di un fuoco scuro, attraversata da un raggio di sole. Più intensa è l’emozione, più siamo vicini a qualcosa di importante, di vitale, che si agita per venire alla luce ed essere accolto dalla nostra coscienza.


Chiediamoci perché è scattato l’allarme e siamo in assetto da combattimento. Chiediamoci da cosa stiamo fuggendo, ma soprattutto che cosa stiamo cercando di proteggere con tanta energia: là c’è vita! Adesso possiamo anche obiettivamente giudicare futili le ragioni per cui ci allarmiamo o ci infiammiamo, ma il piccolo bimbo, la piccola bimba che è in noi ha imparato queste reazioni perché stava lottando, letteralmente anche se sul piano emotivo, per la sua vita e la sua sopravvivenza.


Lasciamo che la paura ci attraversi e vada oltre. Risaliamo alle fonti antiche che continuano ad alimentarla, osserviamole con calma e compassione. Versiamo lacrime se necessario e poi lasciamo andare e incamminiamoci lungo la strada che si è liberata davanti a noi.

Che cosa sto nutrendo in me?

A volte le vicende della vita ci forzano a occuparci di cose che ci opprimono, ci invischiano, ci umiliano, suscitano i nostri sentimenti peggiori. Non tutto intorno a noi è limpido, onesto, sensato. La tentazione di “rimettere le cose a posto” è grande. E può capitare di dover impiegare parte delle nostre energie e del nostro tempo per sanare situazioni che non nascono da noi, ma che richiedono un nostro intervento perché ci stanno causando del danno. Ma non concediamo a questi elementi più di quanto non sia necessario. Soprattutto facciamo tesoro delle nostre energie emotive, che meritano di essere nutrite di ciò che è vitale e non di ciò che è mortificante e patologico. Un libro di Marshall Rosenberg si intitola: Preferisci avere ragione o vivere felice?3 Questa dovrebbe essere la prima domanda da porci ogni volta che sentiamo il bisogno di tuffarci in una diatriba che rischia di corroderci e risucchiarci, alimentando la negatività dentro di noi.


A volte il bisogno di dimostrare agli altri che hanno torto ci intrappola in un futile gioco di potere che non aiuta il nostro bisogno di riconoscimento e di chiarezza, e neppure la ricerca della verità. Specialmente in quest’epoca di interazioni smaterializzate, e più transitorie di un soffio di brezza, valutiamo con attenzione cosa richiede il nostro intervento, e cosa invece può essere lasciato svanire nel nulla, come la spuma sulla riva dopo il passaggio di un’onda apparentemente minacciosa. Facciamo ciò che è giusto, quando è necessario. Ma scegliamo di non cedere al fascino delle cause perse, di non dedicare loro un minuto in più del dovuto, e di non regalare loro le nostre emozioni e le nostre energie più preziose.

Quale verità?

Anche se ciascuno di noi ha una diversa percezione del reale, i fatti reali esistono di per sé. Per ritrovare la verità abbiamo bisogno di coraggio, per avventurarci dove non siamo ancora, e di umiltà, per riconoscere che potremmo a volte dover tornare sui nostri passi.


La verità è singolare. Le sue versioni sono non-verità4.


Facciamo attenzione ai mantra ipnotici che si ripetono nella nostra testa. Questi slogan ricorrenti intasano la mente e ci trattengono dall’andare oltre, intrappolandoci in vicoli ciechi che ci impediscono di vedere e ascoltare con il cuore e con una mente limpida. Esercitiamoci a una lettura descrittiva della realtà, come fossimo appena approdati sulla terra da un altro pianeta. Impariamo a fare silenzio interiore e riconnetterci ai nostri sentimenti, e poi torniamo a osservare quello che sta realmente accadendo in noi e intorno a noi. Osservare senza valutare costituisce il primo dei quattro pilastri su cui si regge la Comunicazione non violenta (CNV), lo strumento descritto da Rosenberg che, utilizzato nel dialogo con gli altri ma anche nel dialogo interiore, permette un libero flusso di comunicazione non giudicante, propositivo, legato alle emozioni e ai bisogni e connesso alla vita.


Naturalmente è molto difficile esprimere una descrizione che sia libera da giudizi, perché nei giudizi veicoliamo ciò che noi sentiamo, le emozioni che il fatto descritto ci suscita… e per noi questo è un argomento della massima importanza. Ma se vogliamo recuperare uno sguardo nuovo sulle cose, occorre distinguere questi due piani.


Afferma Rosenberg,


La CNV non ci obbliga ad essere completamente obiettivi e abolire ogni giudizio. Ci chiede solo di separare le nostre osservazioni dalle nostre valutazioni. La CNV è un linguaggio di processo che scoraggia le generalizzazioni statiche e ci invita a fondare le valutazioni su osservazioni specifiche5.


Saper separare l’osservazione dal giudizio è tanto più importante quando il giudizio non nasce da noi stessi ma è stato assunto acriticamente, perché indotto da una manipolazione esterna.

Che cosa mi fa sentire vivo?

Quando ci riconnettiamo al nostro continuum biologico, alle parti vitali della nostra esistenza, un corollario meraviglioso che si viene a scoprire è che le scelte giuste sono anche quelle più felici. La felicità in fondo è armonia e coerenza interiore fra noi e l’universo, è tutto ciò che segue la fisiologia, che risponde all’istinto di evitare il disagio e seguire ciò che ci fa star bene, ci fa espandere e fa gioire i nostri corpi e le nostre anime. Impariamo a riconoscere ed evitare, appena ci si presentano, i meccanismi generatori di infelicità, che si perpetuano di generazione in generazione. Proteggere e alimentare l’energia vitale è prioritario se vogliamo recuperare l’integrità e la connessione. Impariamo a individuare ciò che è connesso alla vita e che può nutrirci emotivamente e spiritualmente. Mettiamoci in ascolto del nostro corpo: in che posizione siamo? Di apertura o chiusura? Le braccia, i pugni o le labbra sono serrate? La schiena è dritta o incurvata? Percepiamo contratture nei muscoli, tensione in qualche parte del corpo, la gola, la schiena, lo stomaco, il ventre? Il nostro respiro è corto e superficiale o si espande liberamente? Sentiamo freddo, caldo, benessere o disagio? Ci batte il cuore? Ci sentiamo nudi e vulnerabili, o magari al contrario insensibili e in uno stato di torpore?


Le sensazioni fisiche sono una guida sicura per capire quando siamo autentici, connessi alla vita dentro e fuori di noi e quando invece siamo disconnessi e infelici. Una volta ascoltato ciò che il corpo ha da dirci, ritorniamo all’osservazione interiore di ciò che ci fa stare bene e ci rende felici; la gioia può essere il nostro navigatore e guidarci verso ciò che ci arricchisce e che nutre il nostro nucleo vitale.

Manca qualcosa?

Quand’è l’ultima volta che abbiamo sperimentato un senso di pienezza, di completezza interiore? Se percepiamo un senso di vuoto o di frammentazione interna, è probabile che nel nostro percorso di vita abbiamo perso integrità e rinunciato a parti importanti di noi per adeguarci alle aspettative altrui. Integrità significa essere interiormente coerenti, mantenerci in connessione con il nostro senso di giustizia interiore, non essere costretti a tenere separati differenti aspetti del nostro essere o del nostro agire perché conflittuali fra di loro.


Nelle fasi della mia vita in cui avevo bisogno di reintegrare parti esiliate di me ho sempre fatto un sogno ricorrente. Mi trovo nella mia casa e improvvisamente scopro che in un cantuccio si apre una porta che non avevo mai notato. Questa porta dà su altre stanze e offre l’accesso a un’ala dell’appartamento di cui ignoravo l’esistenza. Queste stanze segrete dei miei sogni sono sempre semivuote, e a volte contengono oggetti significativi del mio passato; sono polverose ma anche piene di luce. Provo emozione all’idea di questo spazio riconquistato e al pensiero di quante cose potrò fare in queste stanze in più.


Le parti rimosse di noi sono come quelle stanze. Le vicissitudini della vita spezzano la nostra integrità e ci forzano a separare, isolare e a volte dimenticare parti importanti di noi. Per non soffrire, teniamo scisse le cose e accettiamo di vivere nella dissonanza cognitiva pur di non prendere atto delle incongruenze della nostra vita; esse infatti ci costringerebbero a rimettere in discussione le narrazioni rassicuranti e gli alibi che ci hanno permesso di sopravvivere nel lontano passato, quando eravamo troppo deboli e indifesi per poterci opporre alle pretese di chi ci offriva amore solo in modo condizionato. Tutti siamo frammentati in una certa misura, e quelle parti di noi che abbiamo seppellito vive sono come un tesoro di cui non abbiamo più memoria. Ripercorrere le vicende che ci hanno spezzato può essere un processo doloroso, ma la riconquista dei territori perduti è accompagnata da un’enorme ondata di energia e di spazio vitale interiore. L’integrità ritrovata ci aiuterà a fare sempre meglio scelte guidate dalla nostra essenza più profonda, che non ci porteranno di nuovo a rinnegare parti di noi stessi.

Cosa c’è al mio orizzonte?

Ci hanno fatto credere che la felicità fosse assenza di problemi, la salute assenza di malattie e che il benessere fosse l’obiettivo più alto a cui aspirare. Ma la vita non è fine a se stessa e per vivere pienamente occorre darle un significato, che solo noi possiamo scoprire e definire. Guardare una meta all’orizzonte ci dà lo slancio per superare noi stessi, crescere interiormente, cimentarci con nuovi cammini ed esprimere più interamente il potenziale con il quale siamo venuti al mondo. L’umanità ha bisogno di qualcosa in più della sicurezza di non stare male o del benessere fine a se stesso. Come esseri umani abbiamo bisogno di dare un senso al nostro breve passaggio sulla terra, perché senza una ragione profonda nulla ha più valore e tutto diviene futile e insensato.


Senza un significato profondo le nostre esistenze non sono che bandiere al vento, pronte a piegarsi a ogni raffica allo scopo di evitare la sofferenza. Ma possiamo trasformarle in vele che noi stessi possiamo governare, per spingerci nella direzione da noi scelta.

Cosa mi sta dicendo il mio bambino?

I nostri bambini sono ancora autentici e connessi alla vita, e quando siamo confusi su cosa è meglio fare, osservarli e guardare le cose con i loro occhi ci può aiutare a discernere ciò che è davvero importante e vitale, al di là dei costrutti culturali e dei condizionamenti che a volte ci annebbiano la vista. In un tema alle medie, mio figlio scrisse queste parole:


Una società che va veloce e non riflette non è più una società ma un’orda di gente frenetica, un gruppo di individualità immerse nella propria solitudine. Fermiamoci e pensiamo a queste cose, ricordandoci che una volta non eravamo così egoisti, pensiamo a quando eravamo svegli e non così addormentati, ricordiamo quando da bambini ragionavamo senza l’aiuto di nessuno.


Avere un figlio è una magnifica occasione per avere un maestro da cui apprendere l’arte di amare e l’arte della vista, cioè la capacità di vedere le cose nella loro realtà concreta e insieme meravigliosa. Checché ne dica la gente intorno a noi, sono loro, e non noi adulti, i veri saggi che possono indicarci la via. Siamo noi gli addormentati che si devono risvegliare. Siamo noi che viviamo di “ragionamenti assistiti”, che abbiamo bisogno di ossigeno supplementare per sentirci vivi, di pacemaker dell’anima per emozionarci ancora. Guardare i nostri figli e accompagnarli con discrezione nella loro scoperta del mondo ci permette di vederlo di nuovo con stupore e freschezza. Quando cominciano a parlare, chiediamo ai nostri bambini cosa ne pensano, non solo di realtà spicciole, ma anche di cose importanti. Chiediamo loro cosa pensano dei comportamenti degli altri. Parliamo con loro di emozioni. Scopriremo persone piccole di statura ma immense nell’animo, capaci di compassione e tenerezza, sinceramente curiose della vita, dirette nelle loro conclusioni, persone che non hanno paura a tuffarsi nelle emozioni e farsi domande difficili. Se solo saremo disposti ad ascoltarli e ad accoglierli così come sono, i nostri figli ci faranno capire senza difficoltà se la strada educativa che stiamo percorrendo è quella giusta o se abbiamo deragliato. Noi siamo la loro guida nel vasto mondo, ma loro sono la nostra guida nell’immenso mondo dell’anima.

Lavorare per la pace

L’accudimento a basso contatto, l’ossessione contro il pericolo di “viziare i bambini” sono piaghe sociali che causano danni terribili alla psiche dell’umanità futura. Quando parlo di questo problema chiedo alle mamme se “lavorano per l’esercito”. Perché, senza mezzi termini, è questo ciò che produce quello stile genitoriale: buoni soldati. Tale ideologia non crede che la felicità nasca dalla nostra interiorità, ma è convinta che provenga dall’esterno, che dipenda da quanto e cosa si riceve. Io sono persuasa invece che la felicità possa essere sempre, a tutte le età, a portata di mano e che evolversi non significhi adattarsi a crescenti frustrazioni e limiti, ma al contrario avere più strumenti per esprimere il proprio potenziale e godere di più di tutte le occasioni che la vita ci offre.


Si obietta talora che essere “troppo” empatici produrrà individui incapaci di riconoscere l’autorità. Come sovente succede, si confonde empatia con accondiscendenza. Ma anche fosse vero che un approccio rispettoso produce individui che rispettano se stessi e gli altri e non accettano acriticamente imposizioni o assiomi, questo non può che essere un bene per la società. Il rispetto va guadagnato, e non può essere preteso solo in virtù di una gerarchia.


Chiediamoci dunque se lavoriamo per la pace o per la guerra. Stiamo crescendo dei soldati o dei cittadini capaci di pensare con la loro testa e comprendere i bisogni del loro prossimo? Meglio per tutti sarebbe la seconda possibilità, e questa non si ottiene certo educando a obbedire e allinearsi a chi è più forte solo perché “è al comando”. È ora di ridimensionare il valore dell’obbedienza, e uscire dalla metafora militare. Possiamo scegliere nuove metafore più adatte a un tempo di pace. La vita può essere un viaggio, una sinfonia, una danza. Il mondo futuro non ha bisogno né di re né di sudditi, ma di persone empatiche e consapevoli, capaci di prendersi cura le une delle altre.

Ricostituire il villaggio

La rete è un mezzo potente e straordinariamente versatile, e può essere un modo meraviglioso di abbattere muri e distanze, creare legami e far circolare informazioni preziose. Ma nel momento in cui viene a mancare la connessione nel mondo reale, quello virtuale rischia di riversarsi in questo vuoto colmandolo e fornendo l’illusione di un contatto che è solo “a parole”. Di nuovo occorre attenzione a non lasciarsi colonizzare da una cultura predatoria, dominata dalle leggi del marketing, che adesca individui affamati di connessioni vitali con “feed” confezionati su misura, con esche accattivanti, secondo quell’atto di cattura in due mosse (svalutazione, sostituzione) descritto da Clarissa Pinkola Estés, di cui si parlava nel primo capitolo. La rete va usata per le sue potenzialità e per ciò che di unico può fornire, e non come un surrogato di ciò che manca; che sia dunque una rete per connettere, e non per catturare.


La nostra è una specie sociale. Qualsiasi impronta culturale che spinga all’isolamento e alla chiusura conduce il nostro corpo e il nostro spirito a una morte lenta. Se il contatto, la relazione, la gioia data dalla vicinanza e dalla quotidianità condivisa ci viene preclusa, il nostro sistema immunitario si indebolisce gravemente e si rivolge contro noi stessi, il nostro microbioma si impoverisce, lo stress abbassa le nostre difese, e il nostro cuore si spezza. La solitudine e la diffidenza portano alla disperazione e al suicidio o alla depressione. Ci occorre un atto di coraggio, che ci permetta di uscire dalla comfort zone che ci hanno preparato, e nella quale siamo docili esecutori di progetti futuri che non ci appartengono e non appartengono ai nostri figli. I mesi di deprivazione sociale che abbiamo vissuto hanno fatto rinascere più che mai il desiderio di un villaggio autentico, fatto di gente in carne e ossa; e pressate dagli eventi molte persone si sono attivate in numerosissime iniziative locali, che recuperano proprio quella dimensione del villaggio che già da molti anni si era fin troppo dematerializzato nell’evanescente e fatuo mondo del virtuale. Forse è proprio da qui, da queste azioni piccole, concrete, che potrà rinascere quella connessione alla vita e alle relazioni che ci permetta un’esperienza di autenticità e pienezza troppo a lungo rimandata.

Accudire e rafforzare

Non possiamo preservare i nostri figli dalle avversità della vita. Possiamo però incidere sul modo in cui le affronteranno. Possiamo accudirli con amore incondizionato e accompagnarli e sostenerli mentre scoprono e realizzano il loro potenziale, proteggendo la loro unicità e autenticità. Affinché non soccombano alle lusinghe e alle minacce di chi vorrebbe decidere per loro, è sufficiente proteggere e coltivare in loro i doni che già possiedono. I nostri figli nascono integri, connessi alla vita, fiduciosi, curiosi, pronti ad amare. Il loro pensiero è naturalmente divergente, non omologato, perché ancora non hanno costruito una mappa razionale del mondo e sono aperti a ogni ipotesi e a ogni strategia. Voler modellare il bambino per conformarlo al mondo che lo circonda è un’operazione insensata, in quanto mortifica proprio quegli elementi di diversità che costituiscono l’apporto che è chiamato a donare all’universo. Tutti desideriamo per i nostri figli la felicità e la pace, ma queste condizioni si generano solo laddove non erigiamo barriere alla loro libertà interiore. Come dice la pedagogista Gabriella Falcicchio, si tratta di


una libertà profonda, innanzitutto riconosciuta ai bambini, come perno indispensabile dell’educazione. Un’idea spesso confusa con quella di licenza da chi non l’ha sperimentata, e osteggiata da un compatto fronte di pedagogisti/e ed educatori/trici che sostengono che i bambini vadano disciplinati, resi docili e obbedienti, vuoi perché l’ordine lo impone, vuoi perché la vita è dura6.


Se educare non è plasmare, ma è al contrario un percorso di libertà, allora la nostra funzione di genitori diventa quella di accudire e accompagnare i nostri figli nei loro primi passi, guidarli con l’esempio e rafforzarli offrendo loro prima di tutto la nostra fiducia incondizionata nella bontà della loro natura e nella preziosità della loro essenza. Persino quando li contrastiamo e poniamo loro dei limiti, per renderli consapevoli dei pericoli o dei bisogni degli altri, possiamo continuare a credere in loro, a rispettare i loro sentimenti, dare ascolto ai loro bisogni e confrontarci con loro in modo gentile e onesto, senza trucchi o ricatti, ma con semplicità e amore.

Co-educazione

Riflettendo sulla mia esperienza di genitore, mi sono resa conto a posteriori di essermi posta raramente il problema di “educare” i miei figli. Mi sono messa in relazione con loro. Li ho ascoltati. Li ho rispettati. Ho risposto ai loro bisogni al meglio che mi è riuscito. Li ho fermati quando facevano qualcosa che poteva nuocere a se stessi o agli altri. Mi sono posta nei loro confronti come una persona reale, anche io con i miei bisogni e i miei sentimenti. Ho condiviso con loro la mia visione delle cose, della vita. Via via che crescevano, ho dato spazio alla loro unicità, e ci siamo confrontati, a volte scontrati, perché loro non erano me né volevo lo diventassero. Ho vissuto con loro. Una volta cresciuti, tutti hanno detto che erano due ragazzi molto gentili, socievoli, civili, insomma molto “ben educati”. Ma io ho la sensazione di non aver fatto nulla di programmato o specifico per educarli.


Trovo insopportabile la locuzione “il mestiere di genitore”, come se essere genitore significasse padroneggiare una tecnica, un’abilità di tirar su un figlio come si tira su un palazzo. Nella relazione con i nostri figli, più che di educazione si dovrebbe parlare di co-educazione, cioè di un rapporto umano in cui ciascuno impara dall’altro, e si cresce insieme. Le qualità per essere genitore sono ben altre, e possono essere presenti fin dai primi istanti di vita, né cambiano con la crescita dei nostri bambini. Dice bene Frédérick Leboyer, pioniere della “Nascita senza violenza”:


Semplicemente un po’ di pazienza, di modestia. Di silenzio. Un’attenzione lieve ma senza crepe. Un po’ di intelligenza, un po’ di riguardo per l’altro. L’oblio di sé. Ah! Eppure… stavo per dimenticare. Occorre amore. Senza amore sarete solo abili7.


Si fa un gran parlare di metodi educativi, ma un metodo, per definizione, è una strategia volta a ottenere dei risultati. Potrà forse dare l’illusione di incidere sul bambino come “prodotto finito” di un processo educativo, se mai un concetto del genere possa avere un senso. Ma nessun metodo potrà mai garantire una qualità della relazione parentale, perché i metodi fanno capo a un sapere o tutt’al più a un saper fare, mentre la relazione si riferisce tutta a un saper essere.


È nel nostro “essere in relazione”, nello scambio vitale e amorevole di due individui autentici, che l’educazione acquista valore e significato.

Praticare l’armonia

In questi tempi pervasi da una frenesia di omologazione e di conformismo senza precedenti, si è alimentato l’odio e la divisione, al punto che ora qualsiasi voce critica fa scattare un allarme di violento rifiuto e stigmatizzazione, nel tentativo di espellere dal sistema ogni elemento di disturbo.


E se ci fosse un altro modo?


Possiamo continuare a operare distinzioni e cercare un percorso identitario basato sul nostro essere “diversi dall’altro”; continuare a pensare in termini di noi e loro; perpetuare, anche se su campi diversi, il vecchio scenario della guerra.


Oppure possiamo decidere di praticare quell’amore e quell’armonia che vorremmo vedere nel mondo. Se tutto è interconnesso, se l’universo è un infinito concerto, ogni nota stonata che udiamo dipende solo dalle nostre orecchie, dal modo in cui ascoltiamo, ovvero da quanto abbiamo deciso di alienarci da questa armonica interconnessione. Possiamo scegliere, e dipende solo da come decidiamo di percepire le cose. E nel momento in cui cambiamo la nostra percezione, nel momento in cui ci riconnettiamo, sappiamo anche cosa fare.

Non collidere e non colludere

Di fronte a una narrazione prevalente, che continua a prospettare un’ideologia fondata sulla violenza, la prevaricazione, la predazione e la paura, è nostro dovere civico mantenere la nostra integrità scegliendo una posizione che sia coerente con il nostro sentire e con la nostra identità, anche se questo ci porta ad allontanarci dalla comunità del consenso. Che cosa significa non collidere e non colludere? Significa, da un lato, non entrare in collisione, evitare di scendere su un terreno di scontro, di opposizione, sfuggire le stesse proposizioni violente che si subiscono quando si fa parte di una minoranza di pensiero. Non è nostro interesse creare una frattura fra “noi” e “loro”: abbiamo bisogno di connessione e abbiamo bisogno di modi per espandere l’energia dell’amore, della compassione, dell’empatia e del rispetto, anche superando le nostre posizioni e ideologie personali. Ma così come si può dire di no a un bambino con gentilezza e senza violenza, allo stesso modo possiamo evitare di colludere con certi paradigmi, e cioè dire di no a determinate narrazioni violente senza necessariamente per questo motivo diventare violenti noi stessi. Non colludere significa mantenere la propria integrità, pur restando empatici e quindi accogliendo anche i sentimenti negativi o di paura degli altri. Questo ci permette di mantenerci fermi in quelle posizioni che ci fanno sentire a posto con la nostra coscienza.

Spezzare la catena della violenza

Il modo in cui ci relazioniamo ai nostri figli ha delle conseguenze e crea un’impronta che si porteranno dietro probabilmente tutta la vita. Metodi violenti, basati sulla paura di essere rifiutato o aggredito, non possono generare persone serene e competenti, ma personalità reattive, che cercano di adeguarsi alle aspettative deprezzando la propria natura e negando i propri sentimenti, oppure di conformarsi alle aspettative negative che percepiscono dagli adulti, diventando così proprio ciò che i genitori temono.

Ma allora, come favorire i processi riparatori? Come farsi promotori di un approccio basato sulla gentilezza?


Predicare un approccio empatico e sensibile del bambino, e biasimare la violenza e la manipolazione, non sempre aiuta a promuovere negli altri una presa di coscienza e un cambiamento, se queste “prediche” vengono percepite come un giudizio. Si rischia invece di suscitare risposte reattive, di minimizzazione quando non di irritazione o addirittura rabbia e rifiuto. Se si vuole diffondere la cultura della gentilezza e del rispetto, è importante capire quale può essere la forma di comunicazione più efficace per passare il messaggio. Sarebbe fondamentale che chi esprime risposte reattive si sentisse sufficientemente sicuro da aprirsi ad ascoltare un concetto diverso da quelli della pedagogia nera con cui è stato cresciuto. Per ottenere questo risultato occorre la Comunicazione non violenta, basata sui sentimenti e i bisogni e non sui giudizi.


Riflettiamo su ciò che provano i genitori violenti, il loro sentirsi sotto pressione, tanto esteriore quanto interiore, e la loro percezione di “non avere scelta” se non quella di applicare gli stessi approcci violenti che li hanno forgiati, per modellare i loro figli come “persone per bene”.


La verità a volte fa male, e scoprire che la sofferenza patita e poi inflitta era inutile e controproducente è un boccone spesso troppo amaro da accettare. Se vogliamo che questi genitori compiano questo difficile passo dobbiamo far sapere loro che qualcuno potrà accompagnarli con compassione ed empatia: solo così si potrà sbloccare la loro compassione, prima di tutto verso se stessi, e poi verso i loro figli.


Quando incontriamo genitori che sono su un sentiero diverso, o in un tratto precedente dello stesso sentiero che stiamo percorrendo noi, ricordiamoci che tutti siamo in un cammino di evoluzione. Cerchiamo di ascoltare con il cuore e offrire sostegno e ascolto anche ai genitori che si esprimono in modo violento: ne hanno bisogno in modo speciale. E questa pratica serve anche a noi, perché noi non siamo fuori dal quadro; siamo tutti interconnessi, siamo tutti specchi l’uno per l’altro.

Custodi del futuro

Come educatori e genitori siamo la chiave di volta del futuro non solo dell’umanità, ma anche del pianeta che la ospita, insieme a tutti gli altri viventi. Chiediamoci che tipo di umanità vogliamo consegnare al mondo; e chiediamoci, anche, che tipo di mondo vogliamo consegnare alla futura umanità. Come genitori, come insegnanti, come membri della specie umana abbiamo responsabilità su entrambi i versanti. In questa fase di enormi cambiamenti e criticità, siamo chiamati a sostenere un ruolo attivo nella transizione a un mondo migliore. Non è sufficiente che ci dedichiamo all’educazione dei nostri figli, dobbiamo anche costituire per loro un esempio attraverso le nostre azioni per proteggere e migliorare il mondo. Come dice Gandhi, se non vogliamo che i nostri begli ideali siano come perle false, dobbiamo tradurre in azione concreta quello che sentiamo giusto, e quindi praticare nella nostra vita quotidiana la Nonviolenza e la cooperazione, senza cedere alle pretese di chi ci chiede di associarci a pratiche violente.


Si è cercato di imporci un’esistenza pavida, fondata sulla paura; di spingerci all’odio, all’ignavia, ad abdicare al nostro ruolo attivo nei confronti dei nostri figli, per diventare un mezzo passivo di trasmissione di valori e regole, in cambio di una tutela invalidante e falsa.


È vero, vivere è pericoloso. Tutti desideriamo sicurezza, nessuno vuole vedere i propri cari ammalarsi o peggio morire. Ma per proteggerci dalle avversità dobbiamo fortificarci con l’amore e la vita, non murarci vivi e precluderci ogni atto vitale per paura di morire. Ci sono altri modi per vivere senza paura, aumentando il nostro potenziale di forza e di salute.


Come genitori il nostro obiettivo è proteggere i nostri figli dalla manipolazione, perché si mantengano individui integri e capaci di discernimento e autonomia di pensiero. Lavoriamo dunque per custodire e potenziare in loro il senso di competenza, autoefficacia e autostima. Difendiamoli da tutto ciò che possa minacciare la loro integrità.


Possiamo scegliere se offrirci all’avidità predatoria di altri e diventare, noi e i nostri figli, “cibo per i forti”, oppure essere individui vivi e vitali, in connessione fra loro e con l’universo. Ogni generazione dà alla luce la successiva e la cresce senza alcuna certezza, se non quella che può nascere da un’integrità interiore. Non c’è una formula magica, un sistema predefinito, una mappa, perché ogni bambino è nuovo e unico, e unica è la relazione che nascerà fra lui e i suoi genitori.


E come una madre accompagna e sostiene suo figlio, nel rispetto e nella gentilezza, per fare in modo che sbocci e sviluppi pienamente il suo potenziale, così mi piace pensare che anche l’umanità si dia alla luce, da una generazione alla successiva, e che da questo processo nasca una fioritura, la realizzazione di un potenziale collettivo di amore e di vita.


Noi genitori in questo processo ci troviamo ad essere custodi tanto del vecchio, cioè del patrimonio dei nostri avi, quanto del nuovo, cioè dell’unicità che nasce con i nostri figli e attende di esprimersi e realizzarsi. Come alambicchi alchemici, distilliamo questa materia del passato e la trasmettiamo ai nostri figli che la trasfigureranno, se saremo stati capaci di proteggere la loro integrità, in qualcosa di nuovo e migliore. In questo modo contribuiremo a tessere la matrice su cui si dipanerà il futuro; saremo parte di un cammino evolutivo e, se ci lasceremo guidare dall’amore, saremo davvero e autenticamente rivoluzionari.

Il bambino autentico
Il bambino autentico
Antonella Sagone
Riconoscere ed evitare la manipolazione nell’educazione dei figli. Accrescere la consapevolezza dei processi di mistificazione: un cammino difficile e sofferto per essere un genitore migliore, giorno dopo giorno. Nonostante sempre più spesso venga ribadita l’importanza del rispetto e dell’ascolto delle emozioni e dei bisogni dei bambini, nella nostra cultura prevale ancora uno stile educativo fatto di lusinghe e ricatti, premi e punizioni.Nel suo libro, Il bambino autentico, l’autrice Antonella Sagone descrive i meccanismi di condizionamento dei bambini e dei loro genitori: leggendolo, molti si rispecchieranno in certe situazioni di cui sono stati vittime nella loro infanzia oppure, ancora più dolorosamente, si renderanno conto di aver riprodotto le stesse dinamiche sui propri figli.L’educazione manipolatrice non solo spezza l’integrità degli individui e li priva dell’amore incondizionato che spetta loro di diritto, ma li rende anche molto più vulnerabili a ulteriori operazioni manipolatorie in età adulta.La consapevolezza di questi processi di mistificazione è un cammino difficile e sofferto, ma è importante sapere che quel bambino autentico, integro, luminoso è ancora nascosto nell’intimo di ogni adulto, e che ciascuno di noi può essere un genitore migliore, giorno dopo giorno. L’ebook di questo libro è certificato dalla Fondazione Libri Italiani Accessibili (LIA) come accessibili da parte di persone cieche e ipovedenti.